Risveglio-1

2008 Words
RisveglioErano le cinque del pomeriggio; nella luce diffusa che illuminava l’atrio d’ingresso a Robin Hill, il sole di luglio cadeva proprio all’angolo dell’ampia scala; e in quella striscia luminosa era fermo il piccolo Jon Forsyte, vestito di tela azzurra. I suoi capelli e i suoi occhi luccicavano, ma la sua fronte era corrugata, perché stava meditando come scendere le scale, l’ultima d’innumerevoli volte, prima che l’automobile riconducesse a casa suo padre e sua madre. Quattro gradini alla volta e cinque in fondo? Vecchio gioco! Lungo la ringhiera? E in che modo? Sulla faccia, coi piedi in avanti? Vecchissimo! Sullo stomaco, di traverso? Stupido. Sulla schiena, con le braccia tese da tutt’e due le parti? Proibito! Sulla faccia, con la testa avanti, in modo del tutto nuovo e sconosciuto? Era questa la causa del cruccio che appariva sulla faccetta illuminata del piccolo Jon… In quell’estate del 1909, le anime semplici – che anche allora desideravano semplificare la lingua inglese – non conoscevano, naturalmente, neanche l’esistenza del piccolo Jon, altrimenti l’avrebbero reclamato come proprio discepolo. Ma in questa vita non era possibile essere troppo semplici: il suo vero nome era Jolyon, ed era chiamato Jon solamente perché il padre, tuttora vivente, e il fratellastro morto avevano da tempo usurpato gli altri diminutivi: Jo e Jolly. Sta di fatto che il piccolo Jon aveva fatto del suo meglio per conformarsi alle convenzioni, scrivendo il suo nome prima Jhon e poi John; e s’era deciso infine a scriverlo Jon soltanto quando suo padre gliene aveva spiegato l’assoluta necessità. A questo padre apparteneva tuttora quella parte del suo cuore che non era di Bob, il servitorello che sapeva suonare il concertino, e di “Da”, la governante che la domenica portava un vestito violetto e godeva del nome di Spraggins in quella vita privata in cui, talvolta, vivono anche le persone di servizio. Sua madre gli appariva soltanto come in sogno, dolcemente profumata, nell’atto di accarezzargli la fronte prima che si addormentasse e talvolta di lisciargli i suoi capelli di un bruno dorato. Se l’era trovata accanto quella volta che s’era tagliato la fronte contro il parafuoco nella sua camera; e quando si svegliava da un incubo, se la vedeva seduta sul letto pronta a coccolarlo tra le braccia. Era carissima ma lontana, perché Da era già così vicina, e nel cuore di un uomo non c’è mai posto per più di una donna alla volta. Con suo padre poi aveva un legame speciale: perché anche il piccolo Jon voleva diventare un pittore da grande, con questa piccola differenza però: che il padre dipingeva quadri mentre il piccolo Jon voleva dipingere muri e soffitti, stando in piedi su di un asse appoggiato a due scale a pioli, con un sudicio camicione bianco, tutto odoroso di calce. Inoltre, suo padre lo conduceva a cavalcare a Richmond Park, sul suo cavallino Mouse, così chiamato perché aveva il mantello color dei topi. Il piccolo Jon era nato, come suol dirsi, con la camicia. Non aveva mai udito suo padre o sua madre parlare con voce irosa né tra di loro, né con lui, né con gli altri; il servitorello Bob, il cuoco, Jane, Bella e gli altri domestici, persino Da, l’unica che talvolta lo rimproverasse, assumevano, parlando con lui, un tono di voce speciale. Perciò lui pensava che il mondo fosse un luogo di perfetta, perpetua libertà e gentilezza. Bimbo nel 1901, era giunto all’età della ragione quando il suo paese, subito dopo quell’attacco di febbre scarlattina – che era stata la guerra boera –, si preparava per la rinascita liberale del 1906. La coercizione non era più di moda e i genitori credevano fosse loro dovere far fare la bella vita ai propri figli. Inoltre, scegliendo come padre un amabile gentiluomo di cinquantadue anni, che aveva già perduto il suo unico figliolo, e come madre una donna di trentotto, di cui era il primo e l’unico figlio, il piccolo Jon aveva agito bene e saggiamente. Ciò che gli aveva impedito di diventare qualcosa tra un cagnolino da salotto e un maialetto era stata l’adorazione di suo padre per sua madre; perché anche il piccolo Jon poteva capire che lei non era soltanto sua madre e che nel cuore del padre lui non occupava che il secondo posto. Quale posto occupasse nel cuore di sua madre ancora non lo sapeva. Quanto alla “zietta” June (veramente era la sua sorellastra, ma era così vecchia che il nome di sorella non le si confaceva più), lei lo amava, certamente, ma era troppo brusca. Anche la sua Da, per quanto affezionata, aveva dei modi un po’ spartani. Gli faceva fare il bagno freddo, lo mandava con le ginocchia nude, e non lo incoraggiava mai a essere delicato e pettegolo. Quanto alla discussa questione dell’educazione, il piccolo Jon condivideva la teoria per cui i bambini non devono mai essere forzati a nulla. Gli piaceva abbastanza la mademoiselle che veniva per due ore ogni mattino a insegnargli la sua lingua, e un po’ di storia, di geografia e d’aritmetica; né gli dispiacevano le lezioni di pianoforte che gli dava sua madre, perché lei aveva un suo modo di attirarlo da un motivo all’altro, senza mai costringerlo a studiarne uno che non gli piacesse, così che rimaneva sempre in lui il desiderio di trasformare in otto dita i suoi dieci pollici. Suo padre gli insegnava a dipingere dei maialetti di fantasia e altri animali. Non era un ragazzino straordinariamente ben educato. Tuttavia, nel complesso, l’esser nato con la camicia non l’aveva viziato né guastato, sebbene Da dicesse, talvolta, che vivere con gli altri bambini gli avrebbe fatto un “mondo di bene”. Perciò fu una gran delusione per lui quando, all’età di circa sette anni, un giorno lei lo fece sdraiare sulla schiena, e così lo tenne fermo, per impedirgli di fare qualcosa che non approvava. Questa prima intrusione nel libero individualismo di un Forsyte lo fece diventare quasi frenetico. Nella completa impotenza cui lo riduceva quella posizione e nell’incertezza di quanto sarebbe durata c’era qualcosa di spaventoso. E se non l’avesse lasciato alzare mai più? Soffrì la tortura per cinquanta secondi, urlando con quanta più voce aveva in gola. Soprattutto gli diede pena l’accorgersi che Da ci aveva messo tutto quel tempo per comprendere l’agonia di terrore che lui soffriva. Così, dolorosamente, gli si rivelò la mancanza di immaginazione degli esseri umani. Quando si ritrovò in piedi, rimase convinto che Da avesse compiuto una cosa orribile. Benché non volesse accusarla, temendo tuttavia che la cosa si ripetesse era stato costretto a cercar sua madre per dirle: «Mammina, di’ a Da che non mi tenga disteso sulla schiena, mai più». Sua madre, sollevando sopra la testa le mani, che tenevano due bande di capelli couleur de feuille morte – come il piccolo Jon non aveva ancora imparato a definirli –, l’aveva guardato coi suoi grandi occhi, che parevano due pezzettini della sua tunica di velluto scuro, e gli aveva risposto: «Sì, caro, glielo dirò». Siccome la madre gli appariva come una divinità, il piccolo Jon si sentì rassicurato; specialmente quando, a colazione, da sotto la tavola dove s’era cacciato per cercare di ottenere un funghetto, l’aveva sentita dire a suo padre: «Allora, caro, lo dirai tu a Da, o lo faccio io? Gli è così affezionata!» e aveva udito la risposta di suo padre: «Sì, ma non è questo il modo di dimostrarglielo. Capisco perfettamente quel che si deve provare a esser tenuti giù sulla schiena. Nessun Forsyte può sopportare una cosa simile, neanche per un minuto». Sapendo che essi ignoravano la sua presenza, il piccolo Jon provò il senso, nuovo per lui, dell’imbarazzo, e rimase dove si trovava, benché divorato dal desiderio del fungo. Era stato questo il suo primo tuffo negli abissi dell’esistenza. Dopodiché, nulla d’importante gli si era rivelato, sino al giorno in cui, essendo andato alla vaccheria per bere, come di solito, il suo latte fresco, appena Garrat avesse finito di mungere, aveva visto un vitellino morto. Inconsolabile, seguito da Garrat tutto sconvolto, era andato a cercare Da; ma comprendendo improvvisamente che non era quella la persona che ci voleva, si era precipitato da suo padre, correndo poi tra le braccia della madre. «Il vitellino è morto! Oh! Oh! Come sembrava tranquillo!» L’abbraccio di sua madre, e le sue parole: «Sì, caro, qui, qui!» avevano calmato i suoi singhiozzi. Ma se il vitello era potuto morire, potevano morire anche tutte le altre creature – non soltanto le api, le mosche, gli scarabei e le galline – e avere poi quell’aspetto tranquillo! Era un pensiero spaventoso – ma fu presto dimenticato. Gli era servito poi sedersi sopra un calabrone; ed era stata questa un’esperienza piuttosto pungente, che sua madre aveva compreso molto meglio di Da; e null’altro era accaduto di veramente notevole fino alla fine dell’anno quando, dopo una giornata di straordinarie sofferenze, aveva goduto di una malattia fatta di macchiette rosse, e quindi del letto, del miele preso a cucchiai e di molte arance di Tangeri. In quell’occasione il mondo era improvvisamente fiorito per lui. E questa fioritura fu dovuta alla zietta June, la quale, non appena Jon si trovò a essere un piccolo “infelice”, si precipitò da Londra, portando con sé i libri che avevano deliziato la sua adolescenza, verso il 1869. Erano vecchi, di molti colori, ricchi di formidabili avvenimenti. Li lesse al piccolo Jon, finché lui non fu in grado di leggerli da sé; dopodiché se ne tornò a Londra di corsa, lasciandogliene un bel mucchio. Questi libri alimentarono la sua fantasia, cosicché egli sognava e fantasticava continuamente di guardiamarina e canoe, pirati, zattere, mercanti di legno di sandalo, cavalli d’acciaio, imbroglioni, battaglie, Tartari, Pellerossa, palloni, Polo Nord e altre cose stravaganti e deliziose. Appena gli permisero di alzarsi, equipaggiò il suo letto di tutto punto e se ne partì in una stretta tinozza, attraversò il mare rappresentato dal tappeto verde sino a una roccia, dove s’arrampicò per mezzo dei pomi del suo cassettone di mogano per scrutare l’orizzonte col bicchiere appoggiato all’occhio come un cannocchiale, alla ricerca di navi che venissero a salvarlo. Ogni giorno si faceva una zattera col porta-tovaglie, col vassoio del tè e con i cuscini. Metteva da parte il sugo delle prugne cotte e lo raccoglieva in una bottiglietta vuota, considerandolo come rum per approvvigionare la sua zattera; si faceva anche la sua provvista di carne secca con dei pezzettini di pollo seccati al fuoco; e dell’unguento contro lo scorbuto col sugo delle pelli d’arancia e un po’ di sciroppo avanzato. Un mattino costruì un Polo Nord con tutte le lenzuola e vi giunse in una canoa fatta di scorza di betulla (che nella vita reale non era altro che il parafuoco), dopo un terribile incontro con un orso polare fabbricato con la coperta e quattro birilli vestiti con la camicia da notte di Da. Dopodiché suo padre, allo scopo di dare un certo ordine alla sua immaginazione, gli portò Ivanhoe, Bevis, un libro su Re Artù e Tom Brown’s Schooldays. Jon lesse il primo e per tre giorni non fece altro che costruire, difendere e assalire – alternativamente – il castello di Front de Boeuf, interpretando tutte le parti all’infuori di quelle di Rebecca e di Rowena; con grida laceranti di: “En ayant, de Brucy!” ed espressioni del genere. Dopo aver letto il libro su Re Artù, s’identificò quasi completamente con Sir Lamorac de Galis, perché, sebbene ci fosse poco di lui, preferiva il suo nome a quello di tutti gli altri cavalieri; e cavalcò il suo vecchio cavallo a dondolo senza dargli mai riposo, armato di una lunga canna di bambù. Bevis, invece, lo trovò noioso; e poi, ci volevano i boschi e degli animali; mentre lui nella sua stanza da gioco non aveva che i due gatti, Fitz e Puck Forsyte, i quali non permettevano molta libertà. Per Tom Brown era ancora troppo giovane. Fu un sollievo per tutta la casa quando, dopo quattro settimane, ebbe il permesso di scendere e andare fuori.
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