VIII. Dove si dimostra che il corso del vero amore non rassomiglia punto ad una ferrovia.
La posizione remota di Dingley Dell, la presenza di tante persone del sesso gentile, e la sollecitudine affettuosa dimostrata a suo riguardo, furono tutte favorevoli condizioni a far germogliare e crescere quei delicati sentimenti che la natura aveva profondamente radicati nel seno del signor Tracy Tupman, e che ora parevano destinati ad accentrarsi in un solo oggetto. Le signorine erano certamente graziose, ed aveano modi attraenti ed ottimo carattere; ma nella zia ragazza notavasi una tal quale dignità di portamento, un contegno così riservato, una maestà così imponente nello sguardo, che quelle, per l’età loro, non potevano emulare e che distinguevano lei da ogni altra donna sulla quale si fossero mai riposati gli occhi del signor Tupman. Che fra i loro caratteri ci fosse una certa affinità, e fra le anime loro una segreta attinenza, e nei loro cuori un non so che di misteriosamente simpatico, era evidente. Il nome di lei era stato il primo nome che ricorresse alle labbra del signor Tupman quando giaceva ferito sull’erba, e la risata isterica di lei era stato il primo suono che gli avesse colpito l’orecchio, quando lo riportavano a casa. Ma era ella sorta quell’agitazione da una amabile sensibilità muliebre che si sarebbe del pari manifestata per qualunque altro, o l’aveva invece determinata un più tenero e caldo sentimento che egli solo, fra tutti i mortali, avrebbe destato nel cuore di lei? Tali erano i dubbii che lo travagliavano mentre giaceva lungo disteso sul canapè; tali erano i dubbii ch’egli deliberò dovere una buona volta risolvere e per sempre.
Era la sera. Isabella ed Emilia erano fuori a girandolare col signor Trundle; la vecchia signora sorda s’era addormentata nel suo seggiolone; dalla remota cucina si udiva il russare cupo e monotono del ragazzo grasso; le servette si trattenevano sulla porta a pigliare il fresco e a far le civettuole con certi animali poco delicati addetti alla fattoria; e la nostra coppia interessante se ne stava a sedere nel salottino, dimenticata da tutti, dimentica di tutti, e non di altro sognando che di se stessa: somigliavano un par di guanti piegati l’uno nell’altro e accuratamente stretti insieme.
– Ho dimenticato i miei fiori, – disse la zia ragazza.
– Inaffiateli adesso, – suggerì il signor Tupman, con accento persuasivo.
– Vi potrebbe forse far male l’aria della sera, – notò quella affettuosamente.
– No, no, – disse alzandosi il signor Tupman; – anzi mi farà bene. Lasciate che v’accompagni.
La signora volle prima aggiustare la benda che sosteneva il braccio del ferito, ed appoggiandosi al braccio destro di lui lo menò nel giardino.
In fondo ad un viale sorgeva un padiglione di caprifoglio, gelsomino e altre piante rampicanti, – una di quelle dolci dimore che le brave persone costruiscono per comodità dei ragnateli.
La zia ragazza prese da un angolo un grosso annaffiatoio e stava per uscire di sotto il padiglione, quando il signor Tupman la trattenne e l’attirò presso di sè sopra un sedile.
– Signorina. Wardle! – esclamò sospirando.
La zia ragazza tremò tutta, tanto che i sassolini che per caso s’erano ficcati nell’annaffiatoio produssero un suono come di balocco agitato dalla mano di un ragazzo.
– Signorina Wardle, – disse il signor Tupman, – voi siete un angelo.
– Signor Tupman! – esclamò Rachele, facendosi rossa come l’annaffiatoio.
– Sì, – insistette l’eloquente Pickwickiano, – Sì, pur troppo io lo so.
– Tutte le donne sono angeli, a detta degli uomini, – mormorò quella scherzosamente
– E che siete voi dunque? o a che mai potrò io paragonarvi? Dov’è la donna che vi somigli? dove potrei sperare di imbattermi in un così raro accordo di gentilezza e di beltà? dove potrei cercare di... oh!
Qui il signor Tupman si fermò e strinse la mano che teneva il manico felice dell’annaffiatoio.
– Sono così bugiardi gli uomini! – bisbigliò dolcemente la signora voltandosi in là.
– Tali sono, tali sono, – esclamò il signor Tupman; – ma non tutti gli uomini. Vive un essere almeno che non può mai mutare; un essere che sarebbe lieto di dedicare tutta la sua vita alla vostra felicità; un essere che vive solo negli occhi vostri, che respira solo nei vostri sorrisi, che per voi sola, per voi sola sopporta il grave fardello della vita!
– Se si trovasse un tale uomo... – obbiettò la signora.
– Ma si può trovare, – interruppe il signor Tupman. – Ma è bell’e trovato. Ma è qui, signorina Wardle.
E prima che la signora potesse accorgersi delle sue intenzioni, il signor Tupman le era caduto inginocchiato ai piedi.
– Signor Tupman, alzatevi, ve ne prego! – disse Rachele.
– Giammai! – rispose l’altro risolutamente. – Oh! Rachele.
E afferrò l’abbandonata mano di lei, e l’annaffiatoio ruzzolò per terra mentre egli se la premeva alle labbra.
– Oh, Rachele! ditemi che m’amate.
– Signor Tupman, – disse la zia ragazza sempre col capo voltato in là, – io posso appena parlare; ma... ma.... voi non mi siete del tutto indifferente.
Non sì tosto il signor Tupman ebbe udito queste parole, che subito si diè a fare quello che le sue calde emozioni gli suggerivano, e che, per quanto sappiamo (perchè di queste faccende poco c’intendiamo) si suol fare in simili congiunture. Balzò in piedi, e cingendo col braccio il collo dell’amabile zia, le stampò sulle labbra un gran numero di baci che, dopo una debita mostra di lotta e di resistenza, ella ricevette così passivamente che non si può dire quanti altri ne avrebbe profusi il signor Tupman, se ad un tratto la signora non avesse trasalito e messo uno strido, gridando:
– Signor Tupman, siamo osservati! siamo scoperti!
Il signor Tupman si voltò a guardare, e si vide davanti il ragazzo grasso con gli occhi spalancati, ma senza la menoma espressione sulla faccia che il più esperto fisionomista avesse potuto attribuire allo stupore, alla curiosità, o a qualunque altra delle note passioni che agitano il cuore umano. Il signor Tupman fisò il ragazzo, e il ragazzo grasso lo guardò con gli occhi sbarrati; e più il signor Tupman osservava l’assoluta nullaggine dell’aspetto del ragazzo grasso, più si convinceva che o non aveva visto o non avea capito nulla di quanto era accaduto. Sotto questa impressione, domandò con grande fermezza:
– Che volete qui voi?
– La cena è pronta, signore, – rispose subito il ragazzo.
– Siete venuto proprio adesso qui? – domandò il signor Tupman con una occhiata investigatrice.
– Proprio adesso, – rispose il ragazzo grasso.
Il signor Tupman lo guardò di nuovo con severità; ma quegli non battè palpebra nè un muscolo della sua faccia si mosse.
Il signor Tupman prese il braccio della zia ragazza e si avviò verso casa; il ragazzo grasso tenne loro dietro.
– Non sa nulla di quanto è accaduto, – bisbigliò.
– Nulla, – disse la zia ragazza.
Si udì un rumore alle loro spalle come di una risata soffocata. Il signor Tupman si voltò di botto. No; non poteva essere stato il ragazzo grasso; non c’era un solo raggio di allegria o alcun altro segno che non fosse di nutrizione su quella faccia pasciuta.
– Scommetto che dormiva, – bisbigliò il signor Tupman.
– Non può essere altrimenti, – rispose la zia ragazza.
Ed entrambi risero di tutto cuore.
Il signor Tupman s’ingannava. Il ragazzo grasso, tanto per una volta, non avea dormito. Avea veduto con gli occhi propri del capo – anzi con tanto d’occhi – tutto quello ch’era accaduto.
La cena passò senza che di tentasse d’intavolare una conversazione generale. La vecchia signora era andata a letto; Isabella Wardle si dedicò esclusivamente al signor Trundle; le attenzioni della zia ragazza erano tutte pel signor Tupman; e i pensieri di Emilia parevano tutti concentrati in un oggetto lontano, – il quale avrebbe anche potuto essere l’assente Snodgrass.
Le undici, le dodici, l’una erano battute, e nessuno di fuori era per anco tornato. La costernazione era dipinta sul volta di tutti. Avrebbero forse smarrita la via? Sarebbero stati rubati? Non era a proposito spedire degli uomini con le lanterne in tutte le direzioni che avrebbero potuto prendere per tornare a casa? o invece... Zitto! eccoli. Che cosa avea fatto loro far così tardi? Una voce estranea anche! A chi poteva appartenere? Si precipitarono tutti in cucina dove i colpevoli aveano riparato, ed ebbero alla bella prima più che un barlume dello stato reale delle cose.
Il signor Pickwick, con le mani in saccoccia e il cappello alla sgherra, stava appoggiato ad un tavolone, crollando il capo da una parte all’altra ed eseguendo una serie non interrotta dei più blandi e benevoli sorrisi, senza esservi determinato da alcuna causa apparente o da qualsivoglia pretesto; il vecchio signor Wardle, col viso rosso come un peperone, stringeva la mano di un signore forestiero borbottando proteste di eterna amicizia; il signor Winkle, sostenendosi alla cassa dell’orologio, con voce debole invocava l’ira celeste sul capo di qualunque membro della famiglia osasse suggerire l’opportunità di andare a letto; e il signor Snodgrass s’era sprofondato in una seggiola con una espressione della più acerba e disperata angoscia che mente umana possa immaginare, dipinta in ogni tratto della sua faccia espressiva.
– È accaduta qualche cosa? – domandarono le tre signore.
– Niente accaduto, – rispose il signor Pickwick. – Stiamo... stiamo... egregiamente. Ehi, Wardle, stiamo bene, non vi pare?
– Lo credo io! – rispose l’allegro signore. – Care mie, vi presento il mio amico signor Jingle, amico del signor Pickwick. Jingle, sicuro, ci fa una visitina anche lui.
– È accaduto nulla al signor Snodgrass? – domandò Emilia al forestiero con grande ansietà.
– Nulla, signora, – rispose il forestiero. – Pranzo ufficiale, – compagnia sceltissima – canzoni stupende – vecchio Porto – chiarello assai buono – eccellente – il vino, signora, il vino.
– Non è stato il vino, no, – borbottò il signor Snodgrass con voce rotta. – È stato il salmone (in un modo o nell’altro, in questi casi, non è mai stato il vino).
– Non sarebbe meglio farli andare a letto? – domandò Emma. – Due dei ragazzi possono menarli su.
– Io non voglio andare a letto! – disse risolutamente il signor Winkle.
– Non c’è ragazzi che tenga, – esclamò il signor Pickwick, – nessuno mi leva di qua! – E si rimise a sorridere come prima.
– Evviva! – gridò debolmente il signor Winkle.
– Evviva! – rispose il signor Pickwick, levandosi il cappello, sbattendolo per terra e scagliando i suoi occhiali nel mezzo della cucina. Dopo di che, rise sgangheratamente.
– Portateci... un’altra... bottiglia! – gridò il signor Winkle, cominciando in una chiave di basso e finendo in un falsetto. La testa gli cadde sul petto; e borbottando sempre della sua irremovibile risoluzione di non andare a letto e di un suo truce rammarico di non averla fatta finita col vecchio Tupman la mattina stessa, si addormentò profondamente; nel quale stato fu trasportato in camera sua da due giovani giganti sotto la personale sorveglianza del ragazzo grasso, alla cui protezione di lì a poco il signor Snodgrass confidò la propria persona. Il signor Pickwick accettò il braccio che il signor Tupman gli offriva e tranquillamente sparì, più che mai sorridendo; e il signor Wardle, dopo aver dato a tutta la famiglia un addio così commovente come se muovesse direttamente pel patibolo, conferì al signor Trundle l’onore di accompagnarlo in camera e si ritirò con un inefficacissimo tentativo di assumere un aspetto dignitoso e solenne.
– Che scena disgustosa! – disse la zia ragazza.
– Oh, disgustosissima! – esclamarono ad una voce le due signorine.
– Orribile, orribile! – disse Jingle, facendo il viso serio. Egli aveva sui suoi compagni il vantaggio approssimativo di una bottiglia e mezza. – Spettacolo ributtante, spaventevole!
– Che persona ammodo! bisbigliò la zia ragazza al signor Tupman.
– Ed anche simpatico! – aggiunse sotto voce Emilia Wardle.
– Oh, senza dubbio! – osservò la zia.
Il signor Tupman corse col pensiero alla vedova di Rochester, e un certo turbamento gli entrò nell’animo. Il nuovo arrivato era molto discorsivo, e il numero dei suoi aneddoti era soltanto sorpassato da quello delle sue galanterie. Il signor Tupman sentiva che coll’estendersi della popolarità di Jingle, egli Tupman era sempre più ricacciato nell’ombra. Il sorriso era forzato, la sua allegria era una simulazione; e quando alla fine egli depose il capo indolenzito fra le lenzuola, pensò con orrido diletto alla soddisfazione che gli avrebbe gonfiato il cuore, se in quel momento avesse avuto il capo di Jingle tra le tavole del letto e il materasso.
L’instancabile forestiero si levò il giorno appresso di buon mattino e, benchè i compagni se ne stessero ancora in letto sopraffatti dall’orgia della sera innanzi, si studiò in tutti i modi di promuovere l’allegria a colazione. Ebbero tanto successo i suoi sforzi, che perfino la vecchia signora sorda volle ad ogni costo che le si ripetessero con l’aiuto del corno acustico uno o due dei suoi più graziosi scherzi; ed arrivò fino ad osservare alla zia ragazza che “gli era un bel tipo di sfacciato” – opinione nella quale tutte le altre signore presenti furono pienamente d’accordo.