2.
Vide calare il sole dalla balconata di ferro di una piattaforma offshore. Il mare si infrangeva sui piloni, creando un frastuono tremendo, e il cielo cambiava colore di secondo in secondo, neanche volesse stupirla con la sua bravura.
Chiara aspirò l’odore di salsedine, di ferro e quel vago odore di lubrificanti che c’era sempre in posti come quello.
«Mi dispiace interromperla, ma dobbiamo tornare a terra. Dov’è il signor De Magris?».
Chiara si voltò. Yidir l’aveva seguita come un’ombra più o meno per tutto il giorno. Era rimasto lontano solo durante le riunioni.
In altre circostanze Chiara avrebbe trovato la cosa soffocante, ma in quel caso non aveva nulla da obbiettare. Era silenzioso, discreto, e dopo un po’ non facevi più caso al suo AK-47.
Inoltre era bello. Un gran bell’uomo, alto, in forma, con la pelle olivastra e il profilo tagliente della gente del deserto. La prima, superficiale, valutazione di Chiara era stata accurata: un bel manzo, non più giovanissimo, ma ancora negli anni migliori, probabilmente sulla quarantina.
Il che non toglieva che continuasse a guardarla come se fosse un affronto personale a lui e a tutto ciò che aveva di sacro.
«Marco deve restare qua ancora un paio d’ore. Io invece tornerei volentieri a casa, ma se è un problema posso aspettare».
Yidir emise uno dei suoi sospiri silenziosi. «È un po’ un problema. Siamo venuti insieme. Ma aspetti un attimo, si goda il tramonto».
Dopo di che iniziò a parlare al cellulare, rendendole impossibile seguire il suo consiglio. Come facevi a goderti il tramonto, quando due metri dietro di te c’era uno che gridava in arabo per sovrastare il rumore delle onde, oltretutto in tono palesemente irritato?
Invece di guardare il tramonto, Chiara guardò lui.
Peccato che la detestasse, era proprio il genere di maschio con cui le sarebbe piaciuto passare un paio di notti svestita. Per una relazione vera Chiara non aveva il tempo, ma il sesso un po’ le mancava, quindi non andava troppo per il sottile. Le bastava che fossero bellocci, se erano anche stupidi, ignoranti o cafoni non le importava.
Yidir finì di parlare e tornò a guardarla.
«Mi conferma che De Magris ne avrà per un paio d’ore?».
«Come minimo».
«Allora la portiamo a casa e poi rimando qua la scorta. Però dobbiamo andare ora».
«Va bene».
Tornarono all’interno. A Chiara si appiccicò subito il responsabile dell’impianto, un quarantenne con la faccia larga che si avvicinava un po’ troppo per parlarti. La accompagnò personalmente fino alla lancia, con attorno una specie di piccola corte tutta maschile.
Era piuttosto buffo. Chiara non vedeva un’altra donna da più di ventiquattr’ore, ormai. O forse ne aveva intravista qualcuna per strada, non se lo ricordava. Ma non c’erano segretarie, tecniche, ingegneri donna, nulla di nulla. Solo lei.
La caricarono su una barca che sbatteva sulle onde. Visti dal basso i piloni della piattaforma facevano davvero spavento. Erano giganteschi, rosso sangue, e avevi l’impressione che le onde avrebbero portato la tua barca a infrangersi contro il loro corpo metallico.
Chiara scese sottocoperta e Yidir sigillò il portello. La lancia ballava in modo molto sgradevole e Chiara si lasciò cadere su una poltroncina di simil-pelle.
C’era vento forte, quella sera, troppo forte perché un elicottero potesse portarli fin lì in sicurezza, quindi dovevano coprire il braccio di mare che li separava dalla costa con il lungo motoscafo della compagnia. Il beccheggio fece venire a Chiara il mal di mare dopo pochi minuti. Decise di fregarsene e si allungò sul divanetto, gli occhi chiusi e le mani strette attorno al bordo, sopra la sua testa.
Quel giorno aveva adottato un abbigliamento più comodo: chinos grigio chiaro, camicia sportiva bianca e scarpe da skate.
Cercò di deglutire e farsi passare la nausea. Sapeva che quella trasferta sarebbe stata dura, ma non immaginava che sarebbe stata costellata di mille piccoli stupidi disagi come quello.
«Vuole una caramella?».
Chiara socchiuse gli occhi. A parlare era sta la sua ombra libica, ovviamente. L’agente di sicurezza era seduto su un altro divanetto e sembrava a sua volta nauseato. Si era appena messo in bocca una mentos.
«Sì, grazie».
Per passarle il pacchetto fu costretto ad alzarsi e quasi le rovinò addosso. Si allontanò molto alla svelta.
«Per quanto ne avremo di queste onde? Venti minuti? All’andata non ci ho fatto caso».
«Una mezz’ora. Così stesa non è una grande idea, ma scommetto che non ha bisogno di sentirselo dire».
Chiara iniziò a succhiare la caramella.
«Non lo so. Mi pare che a stare seduta non cambi niente. Bisognerebbe guardare l’orizzonte, ma lei riesce a vedere qualcosa?».
Yidir scosse la testa.
Chiara allungò una mano per ridargli il pacchetto di caramelle e lui si sporse per prenderlo, senza più provare a mettersi in piedi.
«Glielo chiederanno tutti... come mai parla così bene l’italiano?».
«Ho vissuto a Roma, alla fine degli anni ‘90. Mio padre era un professore».
«Davvero? Professore in cosa?».
«Storia antica. Sabrata era un centro fenicio, sa. Poi romano. C’è un parco archeologico, anche se è stato saccheggiato e danneggiato. È patrimonio mondiale dell’Unesco».
«Non lo sapevo».
«C’è un teatro romano e i resti dell’antica città. Poco fuori la città attuale. All’epoca c’erano tre grandi centri: Sabrata, Leptis Magna e Oea, l’attuale Tripoli. Per questo la zona si chiama Tripolitania».
Chiara si sollevò su un gomito, incuriosita.
«E Leptis Magna?».
«C’è nato l’imperatore Settimio Severo. Restano le rovine, anche loro patrimonio Unesco».
«E lei fa l’agente di sicurezza».
Yidir si strinse nelle spalle. «Non mi piaceva studiare».
«Sa un sacco di cose».
«Ho una buona memoria».
Poi, forse sentendo di averle dato fin troppa corda, prese il cellulare e si mise a controllare chissà cosa. Chiara riappoggiò la testa sul divanetto. All’interno della cabina iniziava a fare caldo e l’umidità non aiutava. Si sciolse il foulard che aveva usato per proteggersi la gola dal vento e si slacciò un bottone della camicia. Di più era meglio non osare, non voleva che sembrasse un’avance. Yidir era splendido, lo confermava, ma non intendeva provarci con lui. Se per caso lui ci avesse provato con lei Chiara ci sarebbe stata, ma non voleva responsabilità. Aveva solo caldo.
Pertanto, visto che non voleva essere un gesto di apertura sotto nessun punto di vista, si obbligò a non socchiudere gli occhi e a non sbirciare se c’erano state reazioni.
Non ci provare. Non con un dipendente della NOC. Probabilmente sposato, vedrai.
Anche se non portava anelli. Ma poi si portavano, da quelle parti? Magari no.
Con gli occhi chiusi, immaginò che lui le guardasse la gola, lo scatto che faceva a ogni suzione della caramella. Che lasciasse vagare gli occhi sul suo corpo steso, sui suoi seni che si alzavano e abbassavano a ogni respiro...
Le diventarono duri i capezzoli e Chiara si disse che era il momento di finirla. Ma si stava bene, lì, con gli occhi chiusi e un languore dolce nelle membra. Non aveva più il mal di mare. Aveva il sesso umido e si stava eccitando lentamente, immaginando che lui la guardasse.
Che pensiero stupido. Perché avrebbe dovuto piacergli, poi? Per prima cosa, non gli era simpatica. Secondariamente, non era chissà che schianto. Era l’unica donna in circolazione, ma solo dal suo punto di vista. Dal punto di vista di Yidir, di uno del luogo, in giro doveva esserci pieno di ragazze.
Dio, era troppo tempo che non stava con un uomo. Era arrapata e disperata, due pessime cose in quel preciso momento.
Sentì il motoscafo che rallentava. Il rombo del motore si smorzò, i colpi delle onde contro la chiglia di fecero più radi.
Aprì gli occhi e vide che Yidir la guardava sul serio. Per fortuna non era il tipo che arrossiva. Lo guardò a sua volta. Doveva sentirsi lusingata? O era solo un caso?
Yidir lasciò scivolare lo sguardo lungo il suo corpo ed emise uno dei sospiri silenziosi che erano il suo marchio di fabbrica.
«Stiamo arrivando. Pensavo...»
Chiara si alzò sui gomiti, inarcandosi e stiracchiandosi.
«Pensava».
«Se quel foulard se lo mettesse sulla testa forse semplificherebbe un po’ le cose».
Chiara sbatté le palpebre. Ciao, amor proprio, un giorno ti riprenderai, ne sono sicura.
«Non sapevo che fosse obbligatorio».
«Non lo è. Ma i suoi capelli sono, come si dice? Biondo pallido».
Chiara ridacchiò. «Saltano all’occhio».
«Si vedono da lontano. In questo modo chiunque guardi con un binocolo capisce subito che è una donna occidentale».
Lei si mise a sedere. «Con un binocolo?».
«Essere paranoico è il mio mestiere».
«Ma non c’è nessuno, giusto? Per quel che ne sa?».
«Per quel che ne so, no. Solo che non ne so poi molto. Non si spaventi».
Chiara si passò una mano tra i capelli. «Ma se lo fa apposta».
Yidir emise una risatina. «Di me pensa proprio il peggio».
Lei sbuffò e si mise il foulard in testa. Era un bel foulard blu e bianco, ma non sapeva come fermarlo. Si fece un fiocco sotto il collo e Yidir rise di nuovo.
Saltò dal suo divanetto a quello di lei. «Mi permetta. Così sembra una contadinella russa».
Le sciolse il nodo e ripiegò il foulard come un triangolo. Glielo mise sulla testa e le fece passare attorno al collo due lembi, per poi fermarli dietro, sulla nuca.
«Non penso il peggio. È pieno di risorse».
«L’ho solo visto fare un milione di volte. E sono sicuro che mia nonna direbbe che non va bene per qualche motivo, ma nel complesso assomiglia a come dovrebbe essere».
«Sigillante».
«Eh, già. Allah vi vuole tutte simili a tanti Teletubbies».
Chiara si mise a ridere, un po’ per il paragone buffo, un po’ perché non si aspettava un riferimento proprio ai Teletubbies, che non andavano più di in onda da un milione di anni, un po’ per l’osservazione irriverente.
«Mi lasci indovinare, lei non è molto religioso».
«Non sono credente. Ma qua è questione di moda, più che di religione».
«Quindi cosa? Non apprezza la moda del suo paese?».
«No, no. La apprezzo, nel giusto contesto».
Chiara rise ancora. «Un giorno dovrà spiegarmi. Ma ora credo che stiamo finalmente attraccando».
+++
I fuoristrada li aspettavano giusto in fondo al pontile. Il mare emetteva un basso sciacquio, al riparo del porto, e le luci dei lampioni si riflettevano sulla superficie lucida dell’acqua.
Quando si avvicinarono uno degli uomini della security fece un commento in arabo, ridendo, e Yidir rispose in tono scocciato. Qualsiasi cosa avesse detto il suo collega, doveva avere ribattuto: “e smettila”. O qualcosa di simile.
Chiara non fece domande.
La fecero salire su uno dei due fuoristrada. Yidir si mise alla guida, un altro agente di sicurezza si piazzò sul sedile posteriore e gli ultimi tre salirono sul secondo fuoristrada, che li avrebbe preceduti. Yidir disse qualcosa al guidatore dell’altro mezzo, poi mise in moto, bloccando le portiere.
«La portiamo direttamente a casa, okay? Così loro fanno in tempo a tornare a prendere De Magris».
«Lei stacca?».
Yidir le lanciò un’occhiata laterale. «Direi. Ho attaccato alle cinque».
«Alle cinque?».
«Di prima mattina controlliamo l’area attorno al compound. Non si può mai sapere».
Rispetto al giorno precedente, a tornare fecero molto prima, visto che non venivano da Mellitah. Passarono il cancello del condominio-prigione subito dopo le sei e mezza di sera.
Yidir parcheggiò la macchina accanto a quella che li aveva preceduti e scese.
Parlò con gli altri membri della scorta, dando loro quelle che sembravano direttive. Il tizio che prima aveva fatto una battuta, ora ne fece un’altra e si prese un’altra rispostaccia. Yidir aspettò che risalissero sui fuoristrada, due in ogni auto, prima di tornare a voltarsi verso di lei.
«A volte vorrei capire l’arabo» disse Chiara.
«Ma non in questo caso» sospirò lui. «Credo di non doverle ripetere ancora una volta di non uscire».
«Sta diventando insultante. Non sono scema».
«Lo so, lo so. Ma sempre meglio...»
«Le offro un tè, se non fraintende il gesto. E se non preferisce andare via all’istante».
Ma forse era meglio di no, vero, Chiara? Forse era meglio attenersi alle proprie buone intenzioni, non pensi?
Yidir restò in silenzio per mezzo secondo, riflettendo.
«Potrebbe almeno offrirmi la cena, eviterei di cucinare» concluse, con uno scintillio divertito nello sguardo.
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Avere un ospite spinse Chiara a rinunciare ai piatti surgelati. Riempì un pentolino di acqua minerale, visto che di quella del rubinetto non si fidava, e lo mise sulla piastra. Poi si dedicò alla preparazione di un semplice sugo con le olive, visto che quella mattina le avevano portato i viveri per la settimana.
Nel frattempo Yidir si liberò del kalashnikov e del corpetto antiproiettile e li mollò sul divano. «Vado a darmi una sciacquata, posso?».
«Certo. Il bagno è lì».
Tornò pochi minuti più tardi, con la faccia e le mani umide. Si sedette al tavolo della cucina.
«Sono un maschio berbero. Non aiuto».
Chiara gli lanciò un’occhiata divertita. «È un ospite. Non è previsto che lo faccia. Ma io sono una milanese in carriera, quindi non cucino molto bene».
«È una vergogna. Gli italiani non dovrebbero essere in grado di creare la pasta al forno anche dal nulla?».
«Non questa italiana». Ma si lasciò commuovere dalla sua faccia stanca. «Va be’, se ci tiene proprio».
«Sul serio?».
Lei rise. «Sul serio. In realtà è facile, nella sua versione più basic. Però ci vorrà un po’ di più».
«Sono anni che non mangio la pasta al forno».
«Ed è una fortuna, mi creda. Almeno non si ricorderà bene com’è».
«Ah, giusto. Farà schifo».
Chiara si voltò per lanciargli un’occhiataccia e lui rise.
«È un volgare provocatore» sbuffò lei, tornando a concentrarsi sui fornelli. In un tegame scaldò un po’ d’olio e uno spicchio d’aglio, poi aggiunse la passata. Non era la sua marca preferita, ma andava bene lo stesso.
«Quindi quando se n’è andato dall’Italia?».
«All’inizio dei duemila. Avevo una ventina d’anni. Mio padre era tornato in Libia e io non avevo nessuna intenzione di andare all’università. Le mie superiori sono state uno strazio».
«Che tipo di superiori?».
Yidir rise. «Tutte. Prima ho provato con lo scientifico. Parlavo male la lingua e comunque era troppo difficile. Allora ho provato un altro scientifico, più semplice. Non mi ricordo come si chiamava. Alla fine sono finito in un istituto tecnico, un luogo ameno dove mi chiamavano marocchino di merda. In terza mi hanno pure bocciato».
«Mi dispiace che in Italia si sia trovato così male».
Lui fece un gesto vago. «Ma no, solo a scuola. Nel quartiere stavo bene. Nomentano. Avevo degli amici. Un sacco di amiche cristiane. A Milano ci sono stato due o tre volte, da ragazzo, ma ho visto solo il Duomo o giù di lì».
«È uno dei nostri pochi monumenti famosi. Un milanese doc le direbbe che però è piena di tesori nascosti, ma io sono una milanese adottiva. Vengo da Lecce».
«Sarebbe al sud, giusto?».
«Molto a sud, sul tacco dello stivale».
«Quindi non può essere così cattiva».
«Quanti pregiudizi».
«È vero. È una dirigente di una società petrolifera. Sarà cattiva di sicuro».
Suo malgrado, Chiara si trovò a ridere. Nel frattempo aveva iniziato a preparare la besciamella, visto che pronta non c’era. Sarebbe stata una besciamella un po’ povera, fatta solo di burro, latte e farina, dato che non c’era noce moscata, né pepe. Almeno, non che lei avesse visto.
«Senta, se può rinunciare per un attimo a essere un maschio berbero, potrebbe frugare in quella scatola e vedere se trova del pepe?».
Yidir si alzò e andò ad accucciarsi lì accanto. «Solo per la pasta al forno».
Scavò nello scatolone per diversi minuti, estraendone una serie di confezioni e bottigliette, ma senza trovare il pepe. «C’è della paprica».
«No».
«Lo supponevo. Niente pepe, mi dispiace. Se è indispensabile posso andare a bussare ai suoi colleghi».
Chiara ci ragionò per qualche secondo.
«Tanto non sarà comunque un granché. Non ho neppure un colapasta».
«È grave?».
«Userò questo coso bucherellato. Ora cerchi il parmigiano, da bravo».
Yidir lo cercò. Lo cercò con tutto se stesso, ma né in frigo, né nel miracoloso scatolone, c’era il minimo segno di parmigiano.
Chiara si spazientì. Lo lasciò lì con il cucchiaio in mano, ordinandogli di girare quando gli sembrava che il sugo si stesse attaccando e di non far fare i grumi alla besciamella, e disse che andava a bussare ai suoi colleghi.
Mentre usciva, Yidir le ricordò che era un maschio berbero: era meglio che non ci mettesse troppo.
+++
«È buona. D’altronde, l’ho praticamente cucinata io».
Chiara inarcò un sopracciglio, mentre Yidir chiudeva gli occhi e faceva una buffa espressione di goduria, continuando a masticare la sua pasta al forno.
Erano le otto e l’orario era perfetto per cenare. Chiara si era fatta una doccia veloce mentre la teglia era in forno e Yidir si era addormentato sul divano, ma – aveva detto – era stato risvegliato dall’odore.
«È stato molto bravo».
«Shh. Sto per mettermi a piangere».
Chiara rise e gli passò di nuovo la teglia. Il suo piano di non flirtare e non provarci non stava andando benissimo, ma bisognava ammettere che Yidir, lì, flirtava un po’ anche lui. Non troppo, più per passare il tempo che per arrivare davvero da qualche parte.
E Chiara era impressionata dalla sua proprietà di linguaggio. Aveva un lieve accento, ma parlava italiano meglio di molti italiani e azzeccava quasi tutti i congiuntivi. Se la sua educazione formale era stata uno strazio, doveva aver imparato in qualche altro modo.
«Intendiamoci, la pasta si trova anche qua. La pasta si trova dappertutto. Ma poi devi saperla preparare. Io ho già dei problemi con il couscous liofilizzato, figuriamoci con cose più complicate».
«Non so se voglio sapere davvero di che cosa si nutre un maschio berbero, dato che apparentemente non può avvicinarsi alla cucina».
Lui le rivolse un sorriso indulgente. «Non ha capito: non si avvicina se dentro alla cucina c’è già una donna. Se la cucina è vuota può anche fare un tentativo, ed è quello che faccio io tutte le sere. Grazie principalmente al microonde».
«Santo microonde».
La sua espressione ironica sfumò in una più seria. «È stata gentile a invitarmi. E a cucinare. Continuo a essere convinto che non avrebbe dovuto venire qua, ma ormai c’è e spero che la sua missione sia un successo. È così che si dice?».
«Più o meno. E capisco che sia una rottura organizzare anche la mia sicurezza».
Yidir si pulì educatamente le labbra. «Non è una rottura. È un’incognita. Il nostro paese è diventato un casino e qualcuno potrebbe decidere di prendersela con lei solo perché rappresenta tutto quello che teme dell’Occidente».
«Una donna in una posizione di potere è così intollerabile? Nel governo Serraj ci sono delle donne, se non sbaglio».
«La stessa gente che sarebbe felice di far saltare in aria lei, tollera male anche loro. E loro sono libiche. Inoltre, mi scusi, se loro saltano in aria non è colpa mia».
«È solo che non riesco a credere che io sia così più “complicata” di un qualsiasi dirigente della mia società. E che certi gruppi ci odino è un fatto accertato, lo sappiamo, sappiamo bene di non godere di buona fama...»
«Non capisce. Ci sono dei gruppi di estremisti per cui le donne come lei rappresentano...»
Si interruppe e fece un gesto come a dire “può immaginarselo”.
«No, lo dica».
«Una puttana occidentale senza-Dio, venuta qua per sfruttare la nostra terra e corrompere i nostri usi. Che poi sono i loro usi, ma questo ora non c’entra. Per loro potrebbe facilmente essere un simbolo da abbattere a ogni costo, per questo non capisco...»
«Non capisce?».
«Perché non restarsene a casa, ecco. Non capisco la necessità di impuntarsi. Di venire qua, nemmeno volesse provocarli apposta. Il che è ridicolo, perché voi non siete dei provocatori».
Chiara fece un bel respiro.
«No, decisamente».
«È solo incomprensione del luogo in cui operate, quindi. O indifferenza. Se almeno fosse venuta con suo marito».
«Non ho un marito».
«È evidente. Ma avrebbe potuto portarne uno».
«Perché è evidente?» si irrigidì Chiara.
Yidir aprì la bocca per replicare, ma si fermò prima di farlo.
«Dico solo che, uhm...» provò a correre ai ripari, senza riuscirci.
«Perché è evidente?» insistette lei.
Yidir fece un gesto vago nei suoi confronti.
Chiara socchiuse gli occhi. «Pensavo che quella sul maschio berbero fosse una battuta».
Lui sospirò. «Lo è, ma forse non sono neppure moderno come pensa lei».
«Non pensavo un granché moderno, comunque».
«No, ecco. Non sono moderno, diciamo. Per i suoi standard. Per gli standard libici sono modernissimo, ma capisco che si aspettasse qualcosa di più. Anche se non vedo perché dovrebbe importarle, poi. Sono solo il capo della security».
Chiara gli rivolse un sorriso storto. «Sembra un buon motivo perché mi importi».
«Le assicuro che...»
«Sto scherzando».
Lui restò in silenzio, senza sapere più che cosa dire.
Fu Chiara a riprendere la parola.
«Ma mi importa anche in generale, perché l’opinione delle persone non è mai un fatto secondario».
Yidir emise uno dei suoi sospiri. «Credo che ognuno possa vivere come vuole. Lei ha scelto questa carriera, questa... esistenza. Non è il genere di... come dire?»
«Non è la sua idea di femminilità».
«Già».
«Pensa che, in fondo, le donne stiano meglio a casa a occuparsi dei figli».
«Così mi fa sembrare un uomo delle caverne. Penso che ci siano dei mestieri... più adatti. E viceversa».
«Certo. Non si riterrebbe adatto a diventare un ricamatore, poniamo».
«Non ho mai provato».
«Se sua moglie andasse a lavorare e lei decidesse di badare ai bambini si sentirebbe castrato».
Yidir alzò gli occhi al cielo. «Non ho nemmeno dei figli. È tutto un po’ teorico, no? Sto solo dicendo che preferisco un genere di donna diverso, tutto qua. Il che, presumo, per lei non è un problema, visto che mi ha invitato a prendere un tè a patto che io non fraintendessi».
Era stato velenoso e Chiara riconobbe il tipico atteggiamento del maschio che, messo all’angolo, risponde attaccando.
Avrebbe potuto contrattaccare, per esempio accusandolo di darsi un po’ troppe arie, ma non aveva nessuna voglia di andare all’escalation.
«Assolutamente. E spero di non averla messa a disagio. A volte mi appassiono alle conversazioni e peroro il mio punto di vista con troppa veemenza».
Lui sospirò di nuovo. Si rendeva conto di essere stato graziato? Era possibile. «Quell’ultima parola non so che cosa voglia dire, ma non mi ha messo a disagio. Mi ha nutrito con dell’ottima pasta al forno».
«E ora le offro anche un ottimo caffè e la lascio andare» disse Chiara con un sorriso. Poi guardò la macchinetta nuova fiammante. «Tolga “ottimo” dall’ultima frase, magari».