1.
Fine novembre 2017
C’era una differenza qualitativa importante tra tutti gli uomini che Chiara aveva conosciuto fino a quel momento e Yidir Khamis: Yidir non era in pace.
I colleghi di Chiara, i suoi superiori, i suoi amici a Milano, tutti quelli che frequentava, uomini o donne che fossero... erano creature pacifiche, abituate a vivere in un posto tranquillo, dove i crimini erano l’eccezione, dove c’erano delle leggi. Potevano lamentarsi, sostenere di sentirsi inquieti a uscire da soli alla notte, additare certi quartieri come fossero pericolose terre di frontiera, ma in realtà erano tutti sicuri di arrivare sani e salvi al loro letto alla fine di ogni giornata.
Yidir – gli uomini come Yidir – no.
Era una cosa che balzava agli occhi in modo sconvolgente.
Chiara se n’era accorta dopo pochi minuti, quando era sbarcata dal volo privato della sua compagnia, all’aeroporto Mitiga di Tripoli. L’aeroporto in teoria era militare, ma serviva varie compagnie aeree, specie quelle emiratine, e i voli delle compagnie private. Una volta concluse le formalità con le guardie di frontiera, erano stati accompagnati verso tre grossi fuoristrada che li attendevano in uno spiazzo, al riparo dal caos della strada.
Ad accoglierli era stato Marco De Magris, il responsabile locale del sito di Mellitah. Alto, sottile, con lo stomaco un po’ prominente e la zucca quasi del tutto calva, De Magris era un buon esempio di quarantenne mal-conservato. Oltretutto, come Chiara appurò quasi subito, con l’alitosi.
Si salutarono con una stretta di mano affabile, mentre i tecnici e gli ingeneri che erano atterrati con lei si dirigevano verso le macchine come un branco di bovini.
Chiara aveva appena finito di salutare Marco che si era avvicinato un tizio della security.
«Chi è il capo?» aveva chiesto, in un italiano quasi privo di accento.
Marco aveva dato un paio di pacche su una spalla di Chiara. «Questa signorina qui, Yidir. Chiara Greco, la development project manager che deve badare ai nuovi siti estrattivi».
Chiara inquadrò il nuovo arrivato, ma senza farci davvero caso. Bel manzo, pensò solo, per poi vergognarsi un po’ della propria superficialità.
«E questo è Yidir Khamis, il capo della nostra sicurezza, gentile omaggio della NOC. Ti avranno già detto che non possiamo andare da nessuna parte senza scorta».
Chiara annuì.
«Ma vieni. C’è un bel pezzo di strada di qua a Mellitah».
Chiara ne era consapevole. Seguì Marco su uno dei fuoristrada, dove fu fatta accomodare sul sedile posteriore. Attraverso i finestrini, osservò gli uomini della security prendere ordini dal tizio che le avevano appena presentato.
Erano parecchi, a occhio e croce una ventina per otto italiani da scortare. Tutti indossavano delle divise blu con pantaloni cargo, scarponi, camicie e corpetti anti-proiettile. Imbracciavano anche, con gran noncuranza, delle armi da assalto.
«Fa impressione, eh?» disse Marco.
Chiara annuì.
«Ora come ora la situazione è tranquilla. Be’, relativamente, e solo in Tripolitania. Diciamo che non ci sono grossi scontri e anche gli attacchi ai trasporti di greggio sono diminuiti. Ma non cessati. Un paio di anni fa, nel 2015, la NOC ha affidato la sicurezza dei siti a dei ceffi di una milizia privata. Gente la cui attività principale era il traffico di esseri umani. Ma ora non è più così, grazie al cielo».
«Li hanno arrestati?».
Marco rise. «Un paio di mesi fa ci sono stati degli scontri abbastanza seri, da queste parti. Qualche decina di morti. Fino a quel momento Sabrata era rimasta pressoché esclusa da tutte le lotte. E i personaggi di cui ti parlavo sono stati sconfitti... dove siano finiti, però, non lo so».
Chiara non si interessava alla situazione politica in Libia, ma solo ai suoi risvolti pratici. Se c’era in corso una guerra strisciante, tenere alta la produttività diventava più difficile. Fino a un po’ di tempo prima, lì, la sua compagnia estraeva il 20% dei propri prodotti. Ma gli scontri e i disordini degli ultimi anni avevano abbassato quella percentuale al 10%. Ora era in risalita, o così si sperava.
Era questo che interessava a Chiara.
Marco De Magris sembrava meno concentrato sulla redditività, rispetto a lei.
«Il problema più grande sono i rapimenti. Bisogna stare attenti di brutto, perché da queste parti ci sono gruppi e gruppuscoli di tutti i tipi. Milizie private che sono semplicemente g**g, islamisti affiliati all’ISIS, ancora qualche commando del Libyan Fight Group...»
«Ovvero?».
«Al-Qaeda».
Chiara sospirò. «E anche un sacco di criminali comuni, presumo».
Marco rise. «Quelli sono tutti. Indossano solo diverse casacche, per darsi una giustificazione di qualche tipo, ma vogliono tutti solo soldi e controllo del territorio. Noi ce ne freghiamo, ma non ti venga in mente di andare in giro senza scorta. Mai».
«Non ne ho nessuna intenzione» promise Chiara.
Attorno a loro scorrevano campi brulli da un lato e il mare dall’altro. La temperatura era notevolmente superiore a quella che aveva lasciato in Italia, il che era più o meno l’unico aspetto positivo della situazione. La fine di novembre, a Milano, era umida e nebbiosa, specie nel comune-satellite dove c’era la sede principale della loro compagnia. Lì c’erano più di venti gradi, il sole splendeva, si stava benissimo.
La strada era sgombra, l’asfalto pessimo, il loro convoglio continuava a farle impressione.
Davanti a loro, e tra ogni macchina, c’erano delle Toyota blindate, che montavano mitragliatori pesanti sul tetto.
«E questi nuovi tizi chi sono?» chiese.
Marco rise ancora, diffondendo la sua alitosi nell’abitacolo. «Vallo a sapere! Ma sono fedeli e cazzuti. Anche considerando che la NOC li paga bene».
La National Oil Corporation era l’azienda petrolifera statale. Insieme a loro, possedeva al 50% la compagnia che gestiva il sito di Mellitah. Un sito enorme, ancora in gran parte da trivellare. Le concessioni non erano costate poco, ma erano lunghe. Se non intervenivano altre rivoluzioni o chissà cosa, di lì fino al 2040-50 si sarebbero divisi la torta con i locali. Era una grossa, grossa torta. La Libia era uno dei più grandi esportatori di materie prime d’Africa.
«Ti hanno spiegato come siamo organizzati?» le chiese Marco, che sembrava non tollerare bene il silenzio.
Chiara appoggiò la testa allo schienale. «A grandi linee. Gli italiani stanno in un compound recintato, giusto?».
«E controllato giorno e notte dalla security» puntualizzò lui. «Ci muoviamo solo accompagnati da una scorta, forse l’ho già detto».
«Sì».
«Tranne che dentro i siti estrattivi, è ovvio. Suppongo che tu non ci sia mai stata...»
«No».
«...Ma che li conosca bene. È un complesso davvero enorme. Protetto da una specie di esercito».
Era ovvio. I siti petroliferi e di estrazione del gas facevano gola a tutti. Il governo di Tripoli, altrettanto ovviamente, non voleva correre il rischio di perdere il controllo sulla principale fonte di reddito della nazione. Tutti i siti di estrazione e di raffinazione erano ben guardati. Ciò nonostante, ogni tanto qualcuno veniva conquistato dalle milizie, con enormi perdite per tutti. Le compagnie italiane erano le più presenti, quindi anche loro buttavano un bel po’ di soldi per proteggere i loro investimenti. A seguire c’erano compagnie francesi, inglesi e americane.
«Suppongo che gli svaghi non siano molti».
Marco le rivolse un sottile sorriso. «Be’, per i ragazzi qualche svago c’è. Per te? Ho i miei dubbi».
La domanda di Chiara era stata una pura provocazione. Non le interessava uscire la sera. Lo faceva pochissimo anche quando era a Milano, non vedeva nessun motivo di provarci in un paese con una guerra civile in corso.
E nessuno per il momento l’aveva sottolineato, ma c’era anche un altro elemento da tenere in considerazione: era l’unica donna di tutta la colonna. Probabilmente sarebbe stata una delle poche donne a Mellitah. Ed era una dirigente. Non aveva nessun desiderio di farsi rapire, derubare, stuprare o ammazzare per essersi allontanata senza un agente di sicurezza attaccato alle sottane.
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Mellitah era il nome di una cittadina costiera libica. Un posto che sarebbe stato buono per le vacanze, se non fosse stato il punto dove c’erano gli impianti di compressione per il GreenSteam, il grande gasdotto che dalla Libia arrivava in Italia, a Gela. Sparpagliati nel resto della nazione, campi di estrazione petrolifera e di gas naturali, offshore e onshore, dalla stazione nelle acque fuori Sabrata, Bahr Essalam, ai campi di Bouri e Wafa, nel deserto.
In ogni caso, anche senza gli impianti, il valore turistico di Mellitah, al momento, non sarebbe stato molto alto: diverse palazzine mostravano dei segni di scontri armati e nel complesso la cittadina sembrava povera e cadente.
Chiara la attraversò quella sera a bordo di uno dei fuoristrada della compagnia, mentre veniva accompagnata al compound dove avrebbe soggiornato.
La macchina era guidata da uno degli autisti della compagnia, davanti a loro c’era un mezzo blindato della security con a bordo quattro uomini armati e seduto accanto a lei c’era il capo della loro sicurezza, Yidir Khamis, che sembrava men che soddisfatto della sua presenza.
O forse era solo infelice perché doveva restare incollato a un dirigente, invece di lasciare tutto nelle mani dei suoi agenti e tornarsene a casa.
Se era così, Chiara poteva quasi capirlo.
Era esausta.
Quella mattina si era svegliata alle sei per imbarcarsi sul volo privato alle sette e mezza e ormai erano le nove di sera passate. Per inciso, doveva ancora cenare.
«Può anche smetterla di guardarmi male» sbottò, all’ennesimo sospiro silenzioso di Yidir. «Non scomparirò prima di due o tre settimane».
Lui le lanciò una lunga occhiata scontenta.
«Non ce l’ho con lei. Ma salta all’occhio, non si dice così?».
«Non lo so se si dice così. Che cosa intende?».
Un altro sospiro silenzioso.
«Non intendo niente. Non ci pensi».
«Non salto all’occhio» si intestardì lei. «Non salto per niente all’occhio. Sono solo una femmina. È questo che voleva dire?».
«Ma no».
Se c’era una cosa che innervosiva Chiara erano gli atteggiamenti paternalistici. Perché era giovane, perché era donna, perché era carina... c’era sempre un motivo per darle ragione con l’unico obbiettivo di azzittirla. Non era lasciando correre che aveva fatto carriera.
O forse sì, ripensandoci. Al momento giusto aveva anche lasciato correre.
Non quella sera, in ogni caso. Non mentre era stanca e disorientata, non in un paese che la intimoriva e di cui percepiva l’ostilità. Non con quel tizio che ce l’aveva con lei senza nessun motivo valido, forse solo perché era fottutamente maschilista come tutti gli uomini del suo stesso credo religioso.
‘Fanculo, pensò Chiara, e aveva quasi deciso di lasciar perdere, dopo tutto, quando Yidir aggiunse: «Non è un gran posto per una donna, è vero. Nemmeno per un dirigente. Doppi pericoli. Ma di sicuro dovevano mandare proprio lei».
Il che significava: perché cazzo non hanno mandato un bel maschio?
«Ahimé, è proprio così. Ero la più qualificata per l’incarico. E considerando quanto pagano, non me la sono sentita di rinunciare solo a causa di un cromosoma sbagliato».
Yidir emise un altro sospiro silenzioso.
Si rifiutò di azzuffarsi, cosa che innervosì Chiara ancora di più.
Arrivarono al compound della compagnia. Era un grosso edificio basso e recintato. Diamine, aveva attorno un muro neanche fosse una prigione. Una volta passato il posto di guardia all’ingresso, si accedeva a un cortile su cui davano le porte di diverse unità abitative. L’esterno era di cemento grigio, non molto gradevole. Non c’erano aiuole, giardinetti, nulla di verde.
Il fuoristrada su cui viaggiavano si fermò accanto al mezzo blindato della scorta, sollevando una piccola nube di polvere, e Yidir scese dalla macchina. Si piazzò l’AK-47 dietro alla schiena, come fosse uno zainetto un po’ sui generis, e andò a prendere il suo trolley dal bagagliaio.
«Lasci, lo porto io» disse Chiara.
Lui emise l’ennesimo sospiro silenzioso. Erano l’equivalente di interi discorsi, quei sospiri.
Posò delicatamente il trolley per terra, tirò su il manico e lo fece scivolare fino a lei.
«Comunque rotola, non ha bisogno di portarlo».
Chiara afferrò la maniglia. «Senza di lei non l’avrei mai scoperto».
Si aspettava l’ennesimo sospiro, oppure di essere ignorata, invece Yidir, lì, la spiazzò emettendo una risatina.
Le indicò una porta con un cenno del capo. «Non sono io che ce l’ho con lei, è lei che ce l’ha con me».
Chiara lo guardò male. «Non giri la frittata».
«Non giro niente. Non giri neanche lei, va bene?».
Chiara sbatté le palpebre.
«Non vada in giro» specificò Yidir. «Non si allontani senza prima comunicarlo. Avrò sicuramente dei pregiudizi verso i dirigenti, le femmine e le bionde, ma lei non si allontani, davvero. Se esce da questo compound in macchina, anche solo per dare un’occhiata ai dintorni, ci avvisi. In caso contrario la rapiranno, le faranno del male, chiederanno un riscatto alla sua famiglia o alla sua compagnia e chissà in mano a chi finirà. Sono stato chiaro?».
«Me l’hanno già ripetuto tutti dieci volte. Non sono idiota».
«Ma noi daremo sempre per scontato che lo sia. Per sicurezza».
«Non esco. Non esco nemmeno dall’appartamento, lo giuro. Sto morendo di fame e di sonno».
Yidir fece scattare la serratura. La porta era illuminata da un neon piuttosto potente, che fece strizzare gli occhi a Chiara.
«Ha del cibo nel frigo».
«Okay, grazie».
«Non esca» ribadì un’ultimissima volta lui, prima che Chiara lo chiudesse fuori.
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All’interno prevaleva lo stesso stile minimale dell’esterno. Tutto era nuovo e di buona qualità, ma non c’erano tocchi pensati per farti sentire a casa. La cucina era piccola e grigia, il salotto sui toni del blu e della radica, la camera da letto sembrava quella che Chiara aveva alle superiori, quando la sua famiglia le aveva ricomprato i mobili in un’unica soluzione su uno di quei cataloghi.
Non importava.
Si sfilò la giacca leggera del completo, i mocassini, i pantaloni. Via la camicia chiazzata di sudore e la stupida canottiera che aveva indossato quel mattino, spinta dall’abitudine. Si guardò allo specchio, in mutande e reggiseno. Tettine piccole, ma ancora alte. A trentasette anni non poteva lamentarsi. Era compatta, un po’ mascolina, con le braccia sode, i fianchi stretti e la zazzera bionda.
Si mise un paio di pantaloncini da casa e una t-shirt, delle ciabatte infradito e andò a vedere che cosa c’era in frigo.
Qualche frutto, del minestrone già pronto di una marca italiana e diversi surgelati in freezer. Lì accanto, dodici bottiglie di acqua minerale.
E in una delle tasche del frigo, come una specie di presa in giro, una bottiglia di Dom Pérignon.