Prologo
Non era brutto, il marito che le avevano scelto. Aveva gli occhi verdi e pensierosi, i capelli mai a posto e una bella ossatura del viso. Aveva portamento e buone maniere. Aveva qualcosa di gentile, ma anche qualcosa di fermo e qualcosa di riservato.
Così pensò Serena il pomeriggio in cui si conobbero.
La conversazione seguì un canovaccio già deciso. Lui le disse che era un piacere incontrarla e le fece qualche innocuo complimento, lei lo ascoltò con il massimo interesse e distolse pudicamente lo sguardo quando era necessario. Esaurite le formalità si dedicarono alle banalità: il gradevole giardino, la gradevole giornata, i gradevoli passatempi di lei.
Ed erano gradevoli davvero, fortunatamente, perché i passatempi erano tutto quello che avrebbe mai avuto. Dipingere, suonare il pianoforte, leggere.
Anche Blaze aveva dei passatempi, era naturale, ma erano attività cui poteva dedicarsi solo in modo saltuario: cavalcare, cacciare, tirare di scherma.
Quello che lo impegnava per la maggior parte del tempo era governare - e di certo non avrebbe importunato Serena discutendone con lei.
«Il Signore è molto benvoluto dalla sua gente, come suo padre prima di lui» le aveva confidato la sua nuova dama di compagnia. «È un abile diplomatico, prima ancora che uno stratega astuto. Ed è molto pio».
La cosa rivestiva scarsa importanza per Serena. Che in privato Blaze venerasse gli dei o li ignorasse per lei non cambiava nulla. Personalmente li ignorava.
Che fosse un abile diplomatico e uno stratega astuto era confortante, tuttavia, dato che Serena non voleva finire decapitata in qualche congiura in un paese straniero.
E Angtor era un paese davvero straniero, per lei.
Al di là della lingua, che parlava molto bene, e delle usanze, che aveva imparato da tempo, era l’anima di quel posto, quella che non comprendeva. Il fatalismo, la lentezza, la pacatezza sempre un po’ distaccata della gente.
Il giorno del matrimonio Serena incontrò Blaze direttamente al tempio. L’uniforme scura gli cadeva a pennello. Lei era molto scomoda in un abito che doveva dimostrare troppe cose tutte insieme: la sua modestia nel collo alto e rigido, la sua femminilità nel bustino stretto, la ricchezza del paese nelle maniche e nella gonna incrostata di gemme, la sua sobrietà nel color madreperla, le sue nobili origini nella pesante tiara, il suo buon gusto nell’acconciatura elaborata e, a quel che pareva, la sua altezza nelle scarpe dal tacco sproporzionato, che la rialzava di quasi dieci centimetri.
Blaze le offrì il braccio e lei fu costretta ad appoggiarsi davvero, se non voleva cadere.
«L’emozione o le scarpe?» le sussurrò lui.
«Diciamo entrambe» sospirò lei.
Tutto andò come previsto. La cerimonia, la parata, la gente festante, il banchetto... tutto seguì il rituale.
Più tardi la sua cameriera le preparò un bagno caldo e profumato. La lavò e la aiutò a prepararsi per la notte.
Si mise a letto e Blaze arrivò poco più tardi, anche lui vestito da notte.
Le rivolse un lieve sorriso, senza dire nulla.
Si mise tra le coperte, facendo incurvare il materasso. Spense la lampada sul comodino e la stanza rimase completamente al buio.
Serena chiuse gli occhi. Lo fece senza motivo, perché comunque non vedeva nulla.
Blaze le chiese: «Sei pronta?».
«Sì» rispose lei.
Le rotolò sopra, le tirò su la gonna della camicia da notte. A tentoni, cercò la chiusura delle sue mutande. Serena lo aiutò a sfilarle. Non voleva renderlo più scomodo e imbarazzante del necessario.
Lui le aprì le cosce e Serena si sentì esposta, nonostante il buio totale. Si aspettava di sentirlo subito, ma passò ancora qualche secondo. Blaze, inginocchiato tra le sue gambe, stava facendo qualcosa... forse si sfilava a sua volta pantaloni e mutande, forse si preparava.
Poi lo sentì. Qualcosa lì, là in mezzo. Una punta tonda e bagnata. Dura come poteva essere duro... un gomito, poniamo, anche se lì non c’erano ossa.
Le dita di lui la allargarono anche là sotto. Serena serrò le gambe e Blaze si fermò. Serena capì che l’aveva fatto per un motivo, un buon motivo e riaprì un pochetto le cosce, tremando.
Lui le entrò dentro. Si fece largo lentamente, ma le fece comunque male. Poi le sprofondò dentro, il corpo sul suo, e iniziò a muoversi. Serena si morse le labbra per non gridare. Quando l’aveva penetrata era stato come venire squarciata e ora... ogni movimento era come se Blaze rivoltasse il coltello nella piaga. Strizzò gli occhi e sopportò, le lacrime che le gocciolavano sulle guance.
Da Blaze provenivano solo quei movimenti bruschi e degli ansiti leggeri. Dopo diversi minuti, un grugnito soffocato. Un cambio di ritmo.
Finalmente la libertà.
Lui rotolò via. Non le chiese nulla, non le disse una parola.
Semplicemente, restarono lì, al buio, in silenzio, respirando sempre più lentamente fino ad addormentarsi.
Il giorno dopo Serena vide una macchia rossa sulle lenzuola bianche e quello fu tutto.
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Per i primi cinque mesi avvenne una volta alla settimana. Per il resto del tempo quasi non si vedevano. A cena si scambiavano qualche banalità, erano sempre gentili l’uno con l’altra, ma questo era tutto. Poi, più o meno una volta alla settimana, tranne quando Serena era “indisposta”, lui l’andava a trovare in camera sua.
Con il tempo diventò meno doloroso, ma nella sostanza non cambiò mai. Blaze spegneva la luce, le rotolava sopra, le scopriva le cosce, le sfilava le mutande e poi faceva quello che doveva. Serena capiva che non intendeva farle male, ma gliene faceva sempre, anche se non in modo eccessivo. I problemi erano due: l’apertura di lei era troppo stretta, dunque doveva allargarla ogni volta, e dopo le prime spinte non scivolava più molto bene, così lo sfregamento diventava sgradevole. Blaze cercava di sbrigarsi, Serena capiva anche questo, ma non sempre ci riusciva.
Una volta andò avanti così a lungo che lei non riuscì a trattenere i singhiozzi. Blaze si sfilò e le chiese scusa, borbottando che continuava a pensare a “quel maledetto trattato”, qualsiasi cosa fosse. Dalla settimana seguente ricominciò tutto come prima.
Poi, dopo cinque mesi, Serena fu ragionevolmente sicura di essere incinta. Blaze ne sembrò felice - e non la andò più a trovare la notte.
Quando nacque Pagen, il loro primogenito, per un po’ fu davvero raggiante e Serena pensò che le faceva piacere essere la causa, sebbene indiretta, di quella letizia.
Passarono ancora sei mesi e Serena interruppe l’allattamento. Dopo una qualche impegno pubblico Blaze le chiese se avesse qualcosa in contrario a fare un altro figlio. Serena gli rispose che naturalmente non aveva in contrario proprio nulla, anche se l’idea di diversi altri mesi di sofferenza - per non parlare dei dolori del parto - non le sorridevano per niente.
Blaze tornò ad andarla a visitare circa una volta alla settimana. Fu rispettoso come sempre, spegnendo la luce e toccandola solo il minimo indispensabile. Le fece male come sempre, non un male da gridare, ma un male da mordersi forte le labbra per non farlo.
Questa volta ci volle di più. Per quasi un anno continuarono gli assalti notturni di lui, per quasi un anno il mattino dopo Serena si preparò impacchi di camomilla fredda.
Poi, finalmente, restò di nuovo incinta. Dopo la nascita di Marque suo marito sembrò piuttosto felice - e non propose di cercarne un terzo. Serena ne fu sollevata.
A cinque anni dal loro matrimonio, il Signore di Angtor e la sua signora presenziavano insieme alle cerimonie pubbliche e agli spettacoli, cenavano allo stesso tavolo e a volte si incrociavano nelle stanze dei bambini. Serena era piuttosto sicura di essergli indifferente, mentre a lei stava quasi simpatico, ma era forse la persona che conoscesse meno dell’intera corte.
In quanto a lei, tutti apprezzavano il suo gusto un po’ eccentrico, il suo stile, la sua conversazione brillante e la sua bellezza, specie la sua bellezza.
Nel corso degli anni aveva ricevuto diverse proposte da parte di nobili più o meno affascinanti. Le aveva sempre rifiutate, ma in modo cortese, e intimamente se ne era sentita lusingata.
Si rendeva conto che delle voci sulla sua fedeltà avrebbero nuociuto a tutti, specie ai suoi figli. In quanto a suo marito, fu molto discreto. Se qualche pettegolezzo a volte la raggiunse, lei non se la prese e dimostrò sempre di non crederci. La verità era che non le importava per nulla.
Era soddisfatta dei tè con le amiche, delle rappresentazioni nel teatro di corte, dei quadri e delle chiacchiere con i maggiori intellettuali del paese. Commissionava dipinti e sculture, finanziava filosofi e poeti... la sua vita le piaceva.
A neppure trent’anni, se la vedeva ancora tutta davanti, piena e soddisfacente, ma priva di scossoni.
Si sbagliava.