Canne al vento

Canne al vento

book_age0+
detail_authorizedAUTHORIZED
1
FOLLOW
1K
READ
like
intro-logo
Blurb

Le tre sorelle Pintor, nobili decadute a seguito della fuga dell’altra sorella Lia e della morte di don Zame (il padre), vivono a Galte (un paesino sardo), arroccate nel loro palazzo, poiché la miseria della nobiltà non può essere portata troppo in giro; hanno un solo, fedele servo: Efix, il vero occhio della storia. Le cose cambiano quando Giacinto, il figlio di Lia (ormai morta) e il loro unico nipote, si trasferisce sull’isola, lasciando “il continente”. Mediante il giovane, la Sorte sembra accanirsi, con ancor più acredine, sulla loro famiglia, come per effetto d’una colpa tenuta nascosta, d’un pesante castigo che Efix stesso è chiamato a scontare. Perché l’uomo non può far altro che piegarsi e spezzarsi alla forza invisibile del Destino, che è come un vento, e gli uomini non sono altro che canne in sua balia.

chap-preview
Free preview
Ringraziamenti
Prefazione «Ma io perseverai. Ecco, se c’è stato un merito in me giovinetta, quasi bambina ancora, è stato quello della perseveranza». (Grazia Deledda, intervista a Onorato Roux, 1909) Grazia Deledda (Nuoro 1871 – Roma 1936) è, tutt’oggi, l’unica donna italiana ad aver vinto il Premio Nobel per la Letteratura (nel dicembre del 1926). Mossa, da sempre, da un’ostinazione (attributo peculiare del mondo sardo) viscerale – quasi vitale – verso la scrittura, ad essa si votò con devozione e resilienza, come a una forza magica – una delle tante della sua Sardegna –, come a uno spiritello reale che l’animava e la spingeva verso il mondo incantato della penna. Poiché figlia di quella sua strenue e infaticabile volontà, fu autodidatta, maestra di sé stessa. Fece muro contro i parenti, i nuoresi e la sua stessa madre, per fare scudo al suo sogno, così insolito e quanto mai bizzarro per una donna dell’epoca, e per di più sarda, che allora voleva dire: isolata, sconfinata in un angolo buio del mondo. Ed è proprio da quella Sardegna che, caparbiamente, ella volle ripartire per dare voce e spazio (e per prendersi il suo di spazio) alla sua terra, che da prigione divenne, dunque, risorsa. In tal senso, Canne al vento , [1] oltre a essere il romanzo, tra i tanti, prediletto dalla stessa Deledda, è anche, per eccellenza, la summa di tutti i grandi motivi deleddiani: il fatalismo (e la magia), l’eros e il viaggio. I personaggi deleddiani sono tutti uomini che sanno di non essere i reali artefici del proprio destino, ma solo sue vittime: «Siamo canne e la sorte è il vento»; soccombono, infatti, agli eventi del fato (troppo imponenti e misteriosi per poter essere contrastati), e per sopravvivere li sopportano (laddove è il solo grado di accettazione e di rassegnazione a determinare la statura morale dell’uomo); inoltre, in una prospettiva sincretica e popolare – tipica della cultura sarda dell’epoca –, destino e provvidenza si fondono e si confondono, si sposano, un po’ come due facce d’una stessa medaglia. Non c’è differenza per Efix – il protagonista e il personaggio che meglio condivide tale fusione – tra Dio e Destino. [2] C’è poi un’altra forza, tanto suprema quanto rivoluzionaria, cui l’uomo è chiamato a soccombere: l’eros; come un vento, un ciclone che travolge e stravolge il vivere sociale, le insormontabili differenze di ceto, l’amore (anche solo pensato), voluto dal destino-Dio, non è mai una forza positiva, ma ha per figlie la colpa e l’espiazione; e quest’ultima si compie e si sublima nel viaggio. L’allontanamento dall’oggetto amato è già, di per sé stesso, una forma di penitenza, ed espiare è il solo modo per ritornare e ristabilire l’ordine pregresso allo scompiglio (amoroso e non) portato dal Fato, interrompendo così quel domino d’eventi nefasti scatenato, per castigo, dall’alto. Il mondo deleddiano non lascia spazio alla trasformazione o al cambiamento con connotazioni positive: tutto rimane com’è, o al massimo peggiora. E tutto si accetta, in nome del destino-Dio. O se, persino nella scacchiera sarda, l’evoluzione deve pur avvenire, è allora necessario il sacrificio d’un pezzo che al Fato vada a soccombere: la morte di Efix (come quella di don Zame che aveva, inizialmente, messo in moto tutta la vicenda). Solo così Giacinto potrà, seppur in minima parte, sovvertire il vecchio ordine (quello stesso cui, invece, s’arrende Noemi), divenendo, in quanto personaggio giovane, forse l’unico uomo faber dell’intero romanzo deleddiano, la sola speranza (ammesso che di speranza si possa realmente parlare), l’eccezione e il contraltare di cotanta, arrendevole, immobilità. [3] Le stesse tre sorelle Pintor (coprotagoniste insieme ad Efix), discendenti d’un insigne casato ormai senza più alcun lustro né ricchezza, sebbene letteralmente arroccate nella loro dimora, come nel loro fecondo passato e nella conseguente accettazione del loro triste destino, come sottolineava il critico sardo Mario Massaiu: «si avviano a mutare sorte, inserendosi in un tipo di società in cui i vecchi principi vacillano corrosi, resistono e assistono alla loro incombente rovina». [4] Le donne sarde più in generale, inoltre (come sosteneva ancora il Massaiu), oscillavano allora tra conservazione e innovazione, tra passato e presente. E Noemi, tra le tre sorelle, è indubbiamente quella più incline al ricordo, alla memoria in cui s’intabarra come il solo spazio in cui, ancora, l’è permesso di godere del tepore dei sogni. Il sogno è per lei solo nostalgia e ricordo. D’una felicità perduta, d’una evasione incompiuta (a differenza di quella di Lia, la sorella morta, dalla cui fuga la Deledda imbastisce, con maestria, tutta la vicenda), d’una giovinezza mai vissuta, degli sconosciuti palpiti del cuore. Noemi è, più di tutte, la donna del ricordo, del rimpianto e del rancore (carico di nobile orgoglio). Ella, dunque, ben s’inserisce, come sottolinea la critica Neria De Giovanni, nella fitta sfilza delle donne malate di nervi che tanto popolano la letteratura otto-novecentesca. In tali termini, trova “legittimazione” e nitore il sentimento incestuoso da lei provato verso il giovane Giacinto (ed è, dunque, immediato il rimando a un romanzo posteriore d’un ventennio: Le sorelle Materassi , di Aldo Palazzeschi). Ester, invece, incarna la devozione: col suo scialle (tante volte riportato e descritto, come un tratto peculiare della “matrona” sarda, come indicatore della tipica concretezza femminile), la sua semplicità e la sua fermezza di carattere, in un certo senso diviene (seppure nobile) la figura speculare, al femminile, del servo Efix. È il perno su cui ruota la casa, nonostante la maggiore sia, invece, Ruth; quest’ultima appare, di contro, come un personaggio molto più misurato e accondiscendente; una sola, difatti, sarà la sua vera e reale azione: farsi logorare dal dispiacere fino a morirne. [5] Un valzer di personaggi secondari popola (insieme alle non poche figure magiche così care alla Deledda) tanto la vicenda quanto Galte (nome ispirato a Galtellì), il piccolo paesino sardo in cui si svolge buona parte della storia. Più che con le dame Pintor, tali figure interagiscono col loro servo: Efix appare, a un’analisi attenta, come il vero protagonista della storia, poiché ne diviene il motore (senza di lui la vicenda non sarebbe mai nata) e l’occhio narrante, ossia il personaggio di cui la scrittrice si serve per «espletare una funzione di commento» [6] o per realizzare salti temporali (soprattutto flashback, per i quali viene spesso utilizzato il tempo presente con lo scopo di conferire vividezza a quel passato ancora tanto vivo nei cuori) volti a informare il lettore sugli antefatti e a svelarli, anche mediante l’uso dell’indiretto libero. Il servo protagonista, inoltre, è presente (anche in punto di morte) in tutti i momenti cruciali (di cui, molto spesso, è il principale artefice) della storia narrata, come per conferire loro il giusto grado di solennità, come a legittimarli. I fatti narrati, poi, sono chiaramente codificabili in un lasso temporale ben preciso, grazie a qualche piccolo dettaglio storico disseminato qui e lì, come ad esempio il riferimento alla guerra in Libia; il tempo del racconto (ossia quello in cui si svolge la vicenda) oscilla tra la primavera del 1912 e il novembre del 1913 (quindi sfora oltre il tempo della scrittura, la cui ultima pubblicazione su «L’Illustrazione italiana» avvenne nell’aprile 1913), mentre il tempo della storia procede anche a ritroso (nei ricordi) fino a circa venti anni prima. [7] A lungo si è cercato di stigmatizzare la Deledda in uno dei filoni a lei contemporanei, Verismo e Decadentismo in primis, senza che la sua scrittura, tuttavia, combaciasse mai appieno con nessuno di essi; e forse non poteva essere altrimenti già solo per quella singolarità di provenienza e di formazione che tanto la caratterizza: così avulsa dalla consuetudine “continentale”. [8] Grazia Deledda era ed è una corrente a sé stante, un fiume in piena di volontà e di determinazione, tipiche di chi ha ben coscienza della propria vocazione e della propria unicità, e le difende, foss’anche dal proprio spazio e dal proprio tempo, perché sa che un giorno, una volta impresse su carta, non avranno altro tempo all’infuori dell’eternità. Annarita Celentano

editor-pick
Dreame-Editor's pick

bc

La brava moglie della mafia

read
1K
bc

Lui mi ha rubato il cuore, io gli ho rubato il bambino

read
1.8K
bc

Costretta a sposare il migliore amico di mio fratello

read
2.8K
bc

Il Capo di Tutto Questo Casino

read
1K
bc

Sposata con il miliardario senza cuore

read
6.0K
bc

Salvati dal Re della Mafia

read
4.5K
bc

Oh, per amore dei compagni

read
1.8K

Scan code to download app

download_iosApp Store
google icon
Google Play
Facebook