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La Grande Ombra

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Blurb

Jock Calder, giovane abitante di un villaggio al confine tra Scozia e Inghilterra, ha vissuto la sua vita sotto la Grande Ombra di Napoleone che minaccia di divorare tutta l'Europa.Proprio quando l'Imperatore francese viene esiliato all'Elba e il mondo sembra libero dalla sua influenza, la vita di Jock viene travolta dall'arrivo di un misterioso naufrago sulle coste scozzesi. Il nuovo arrivato, che sembra nascondere un segreto, sconvolge il tranquillo menage di Jock, di sua cugina Edie e del suo migliore amico Jim, e innesca una serie di eventi che porteranno i due giovani fino alla battaglia di Waterloo per sconfiggere la Grande Ombra.

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I. La notte dei fuochi-1
I. La notte dei fuochiA me, Jock Calder, di West Inch, sembra molto strano pensare che, pure avendo soltanto cinquantacinque anni a metà del secolo XIX, e quantunque a mia moglie capiti tutt’al più una volta alla settimana di strapparmi qualche capello bianco, io sia vissuto in un’epoca nella quale gli uomini ebbero modi di pensare e d’agire tanto diversi da quelli odierni quanto lo potrebbero essere i modi di pensare e d’agire degli abitanti d’un altro pianeta. Infatti, quando passeggio attraverso i miei campi, se guardo dalla parte di Berwick posso vedere certe nuvolette di fumo bianco che rivelano la presenza di quella nuova bestia a cento zampe che si nutre di carbone, che porta nelle sue viscere migliaia d’uomini e che si trascina continuamente dall’Inghilterra alla Scozia. Quand’è bel tempo, vedo scintillare i suoi ottoni sulla curva vicina a Corriemuir; e poi, quando il mio sguardo ritorna verso il mare, rivedo quella stessa bestia, talvolta accompagnata da una dozzina d’altre, che lascia una striscia nera nell’aria e un solco bianco nell’acqua, e che nuota contro il vento con la stessa facilità con cui un salmone risale il corso del Tweed. Alla vista di un simile spettacolo, il mio povero vecchio babbo sarebbe rimasto muto per lo stupore e per lo sdegno, poiché un gran timore di offendere il Creatore lo faceva esitare a piegar la Natura ai suoi voleri e gli faceva considerare tutte le nuove invenzioni come veri sacrilegi. Gli operai di Birmingham potevano fabbricare quante macchine volevano: finché il buon Dio avesse mantenuta in vita la razza equina, il mio vecchio babbo sarebbe rimasto fedele alla sella e agli speroni. Ma una cosa che l’avrebbe stupito anche di più, sarebbe stato il constatare la pace che oggi regna nel cuore degli uomini e le ferme risoluzioni, espresse nei giornali e nelle riunioni politiche, di non fare più guerre, se non – beninteso – coi neri e con altri miscredenti. Infatti, quand’egli morì, noi combattevamo da quasi un quarto di secolo, senz’altra interruzione che una breve tregua d’un paio d’anni. Provatevi un po’ a immaginare una cosa simile, voi che vivete oggi tanto placidamente! Dei fanciulli venuti al mondo mentre la guerra infieriva, crescevano fino a diventare uomini con tanto di barba, e ad aver figli a loro volta, senza che il flagello fosse cessato. Coloro che erano stati soldati e avevano combattuto nel fior degli anni, si curvavano: diventavano paralitici mentre le navi e gli eserciti continuavano a lottare. Perciò non dobbiamo meravigliarci che un tale stato di cose fosse considerato come normale e che nessuno potesse ammettere che un giorno o l’altro la pace sarebbe ritornata. Durante quel lungo periodo, noi Inglesi combattemmo con gli Olandesi, combattemmo con gli Spagnoli, combattemmo coi Turchi, combattemmo con gli Americani, tanto che in quella lotta universale si giunse a credere che nessuna razza fosse troppo vicina o troppo lontana per non partecipare al gran conflitto. Ma i nemici con i quali noi guerreggiammo più che con tutti gli altri furono i Francesi; e l’uomo che noi odiammo, tememmo e ammirammo più d’ogni altro al mondo, fu il gran capitano che li governava. Il metterlo in ridicolo con le caricature, il deriderlo con delle canzonette ingiuriose, il diminuirlo trattandolo come un impostore, erano cose che potevano dare una certa soddisfazione; ma sussisteva il fatto che lo sgomento che quell’uomo ispirava si estendeva su tutta l’Europa come un’ombra nera e sinistra, e io che vi parlo vi assicuro che vi fu un tempo nel quale, appena s’accendeva uno dei fuochi di segnalazione disposti lungo le nostre coste, tutte le donne si lasciavano cadere in ginocchio e tutti gli uomini correvano a prendere il fucile. Quell’uomo aveva sempre vinto; ecco perché ci sgomentava tanto. Sembrava che la Fortuna lo assecondasse in tutte le sue imprese, anche nelle più audaci; – e ora sapevamo ch’egli era sulla costa settentrionale della Francia, con centocinquantamila veterani, con una numerosa flottiglia per trasportarli, e che aspettava soltanto un momento propizio per attraversare la Manica ed effettuare uno sbarco in casa nostra. Ma oggi tutto questo è storia antica, e non occorre ch’io v’insegni che un terzo degli uomini validi del nostro paese prese le armi contro di lui, né in che modo il nostro piccolo capo guercio e monco sbaragliò la sua flotta. C’era ancora spazio in Europa per una nazione nella quale ognuno avrebbe potuto ragionare a modo suo e continuare a parlare liberamente. Sulla collina, presso Tweedmouth, un gran rogo fatto di tronchi d’albero e di barili di catrame era pronto per essere acceso al minimo allarme, e io mi ricordo ancora di tutte le notti in cui spinsi lo sguardo nelle tenebre, da quella parte, per cercarvi una prima fiamma. Allora avevo soltanto otto anni, ma questa è un’età nella quale si sentono i torti altrui, ed era in me come una vaga sensazione che il destino della patria dipendesse in qualche modo da me e dalla mia vigilanza. Finalmente una sera, mentre guardavo lassù, come al solito, vidi a un tratto brillare una piccola luce sulla piramide che il rogo formava, e poi guizzare una piccola lingua di fiamma, rossa nell’oscurità. Mi vedo ancora nell’atto di stropicciarmi gli occhi, di pizzicarmi le braccia, di picchiar con le dita sul davanzale di pietra della finestra, per accertarmi di esser desto. Poi la fiamma crebbe e salì improvvisamente e io vidi il suo riflesso rossastro e tremolante sull’acqua del fiumicello che ci separava dalla collina. Mi precipitai in cucina, a pianterreno, gridando a mio padre, a squarciagola, che i Francesi erano sbarcati e che il gran fuoco di Tweedmouth era acceso. Egli stava discorrendo col signor Mitchell, Io studente di legge di Edimburgo, e ancora adesso mi par di vederlo vuotare la pipa sulla pietra del camino, battendo dei colpetti secchi, e guardarmi di sopra agli occhiali cerchiati di tartaruga. «Ne sei proprio certo, Jock?» mi domandò. «Certissimo!» risposi ansimando. Allora egli prese la Bibbia, che era sulla tavola, e se l’aprì sulle ginocchia come se volesse leggercene un brano. Ma poi, mutato pensiero, la richiuse senza dir nulla e uscì in gran fretta. Lo studente e io uscimmo dietro a lui e lo seguimmo fino alla barriera che s’apre sulla strada. Di là si vedeva distintamente la luce rossa del gran fuoco, e, più a nord, ad Ayton, il bagliore di un altro fuoco meno grande. Mia madre uscì a sua volta, portandoci due scialli per difenderci dal freddo, e tutti restammo lì fuori fino a giorno fatto, parlando solo a lunghi intervalli, e sottovoce come per timore. Sulla strada, c’era più gente di quanta ve ne fosse mai passata di nottetempo. Molti degli yeomen1 della nostra regione si erano arruolati nei reggimenti di volontari di Berwick, e ora s’affrettavano, a briglia sciolta, verso la località dove si doveva effettuare il concentramento. Alcuni avevano bevuto il bicchiere della staffa prima di partire – si capiva – e non dimenticherò mai uno di loro, piantato su di un enorme cavallo bianco, che passò davanti a noi come un turbine, brandendo, al chiaro di luna, una spada arrugginita. Molti ci gridarono che anche il fuoco di North Berwick era acceso, e che si supponeva che l’allarme provenisse dal castello di Edimburgo. Alcuni altri cavalieri galoppavano nella direzione opposta; erano dei corrieri di Edimburgo, il figlio del lord, mastro Clayton, il deputato Sheriff, e altri… Mi ricordo anche d’un giovanottone alto e vigoroso che montava un cavallo roano e che si fermò alla nostra porta per domandarci un’indicazione relativa alla strada che doveva seguire. Si levò il cappello, perché era accaldato, e io vidi che aveva una faccia lunga, dall’espressione mite, con una fronte molto alta, coperta in parte da ciocche di capelli d’un biondo pallidissimo. «Credo si tratti d’un falso allarme» ci disse. «Forse avrei fatto meglio se fossi rimasto dove ero… Ma poiché ho già fatto tanta strada, proseguo. Farò colazione quando avrò raggiunto il mio reggimento». E, piantati gli sproni nei fianchi del cavallo, scese velocemente giù per la china. «Lo conosco bene, quello là» ci disse lo studente, seguendolo con lo sguardo e scuotendo il capo. «È un avvocato di Edimburgo, e fa dei bellissimi versi. Si chiama Wattie Scott». Nessuno di noi ne aveva ancora sentito parlare; ma egli non doveva tardar molto a diventare l’uomo più celebre di tutta la Scozia, e noi ci ricordammo poi molte volte come ci avesse interrogati sulla strada che doveva percorrere, in quella terribile notte. La mattina seguente, peraltro, fummo rassicurati. Il tempo era grigio e freddo, e mia madre era rientrata in casa per prepararci del tè, quando vedemmo arrivare un carrozzino sul quale erano il dottor Horscroft, d’Ayton, e suo figlio Jim. Il dottore aveva il bavero alzato fino alle orecchie e sembrava di pessimo umore, Jim, che aveva soltanto quindici anni, era partito per Berwick al primo allarme, portandosi via il fucile da caccia paterno. Suo padre l’aveva cercato per tutta la notte, e ora lo riconduceva a casa, prigioniero, col famoso fucile, che era nuovo di zecca e del quale si vedeva la canna, ritta dietro ai due. Jim, con le mani nelle tasche della giacca, era imbronciato, accigliato, e sembrava irritato quanto il padre. «Sono voci infondate!» ci gridò questi, nel passare. «Non c’è stato nessuno sbarco, e tutti gli imbecilli di Scozia hanno trottato per un bel nulla!» Allora Jim disse a denti stretti qualcosa di spiacevole, e ne fu punito con uno scapaccione che lo fece rimanere con la testa china, come se il dottore l’avesse accoppato. Mio padre biasimò quell’atto, perché voleva bene a Jim, e poco dopo ritornammo tutti verso casa, stanchi e insonnoliti tanto da tenere a stento aperti gli occhi, ora che i nostri timori erano svaniti. Ma per quanto avessimo sonno, sentivamo dentro di noi dei sussulti di gioia. Io non ne ebbi mai altri uguali, se non una o due volte, in tutti gli anni successivi della mia vita. Tutto questo, veramente, ha ben poco a che fare con ciò che mi sono proposto di raccontare; ma quando si è dotati di una buona memoria e non si è molto abili nel servirsi della penna, non si può rievocare un ricordo senza che ne accorrano moltissimi altri, e non si sa resistere al desiderio di esprimerli tutti. Del resto, ripensandoci adesso, m’accorgo che tutto ciò che ho detto fin qui non è inutile quanto può forse sembrare. Infatti, dopo quell’incidente, Jim Horscroft bisticciò tanto violentemente con l’autore dei suoi giorni, che questi lo spedì senza indugio al collegio di Berwick; e mio padre, che da molto tempo aveva voglia di mettermi in quel collegio, approfittò della circostanza per realizzare il suo desiderio. Ma prima di parlare del collegio di Berwick, dirò quello che avrei dovuto dire innanzi tutto e vi spiegherò brevemente chi sono. Infatti potrebbe darsi che questo racconto fosse letto da qualcuno che non avesse mai messo piede in Scozia, né sentito parlare dei Calder di West Inch. Questo di West Inch è un nome abbastanza importante; eppure non si tratta, come si potrebbe supporre, d’un vasto possedimento nel quale sorga una residenza magnifica. È semplicemente una vasta terra da pascolo, triste, incessantemente spazzata dal vento e tutta frastagliata dalla parte delle lande che costeggiano il mare. È un luogo dove un galantuomo, faticando tutto il giorno, può appena sperare di riuscire a pagar l’affitto e a mangiar burro, anziché margarina, nei giorni di festa. Proprio in mezzo a quella terra sorge una grande casa di pietra grigia, dal tetto d’ardesia, dietro alla quale è una stalla. Al disopra della porta d’ingresso, è rozzamente inciso questo millesimo: “1703”. In quella casa abitarono i nostri avi per più di cent’anni, e, quantunque povera, la nostra famiglia acquistò un’ottima reputazione nella regione. Da quelle parti avviene spesso che gli antichi affittuari godano di miglior considerazione che non il castellano di data recente. La casa di West Inch aveva una strana particolarità. Gli agrimensori e in generale tutti coloro che si occupano di codeste questioni avevano calcolato a ogni tempo che la linea di confine che separa la Scozia dall’Inghilterra la tagliasse esattamente nel mezzo. Quindi, una delle nostre stanze più belle era per metà in territorio inglese e per l’altra metà in territorio scozzese. E il lettuccio nel quale io dormivo era messo in modo tale che, quando vi ero steso, avevo la testa a nord della linea di confine e i piedi a sud. I miei amici mi dicevano spesso che se mi fossi coricato nel senso opposto forse non avrei avuto tanto biondi i capelli, né tanto seria la mente…

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