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2 Il Commissario Capo Matteo Alfonsi si aggirava, con fare distratto, nei corridoi vuoti della Questura di Grosseto. Lui era uomo d’azione, non riusciva a trovare il suo nuovo ufficio e, questo, iniziava a renderlo nervoso. L’agente di piantone all’ingresso, controllate le sue generalità con sufficienza, lo aveva indirizzato al terzo piano del palazzo, ma Alfonsi non immaginava che fosse così difficile orientarsi in quel nugolo di corridoi infiniti e senza senso. Aveva compreso, però, che alle sei di mattina la Questura era deserta, infatti non incontrò anima viva e il palazzo appariva vuoto. Regnava uno strano silenzio, niente telefoni, niente rumori, niente persone in giro, niente di niente. Prese coraggio e aprì la prima porta che gli capitò a tiro, entrò e vide due donne poliziotto in borghese intente a chiacchierare del più e del meno. Che fossero poliziotte lo comprese dalle Beretta ben inserite nelle loro custodie e agganciate saldamente al fianco delle cinture. Si presentò. «Sono il Commissario Capo Matteo Alfonsi. Potete indicarmi dov’è l’ufficio della sezione anticrimine?». Le due donne si fissarono per un attimo, poi la bionda gli si avvicinò offrendogli la mano. «È questo l’ufficio dell’anticrimine, dottor Alfonsi, io sono l’Ispettore Lucia Apolloni e lei», disse indicando la collega mora, «è l’Ispettore Gianna Di Giacomo. È un piacere fare la sua conoscenza, siamo onorate di poter lavorare con lei, la sua fama l’ha preceduta». Matteo Alfonsi era appena stato promosso al grado di Commissario Capo. Dopo aver brillantemente comandato la Sezione Investigativa Antimafia di Palermo per oltre un decennio, si era convinto che fosse giunto il momento di cambiare aria, troppo pericoloso per lui restare a Palermo ancora a lungo. A causa della sua notorietà, per essere stato protagonista di indagini di alto profilo contro famiglie mafiose molto influenti, la Cupola aveva emanato una bella condanna a morte nei suoi confronti. Quindi, delle due l’una: o se ne andava da Palermo, oppure era destino che fosse considerato, come si diceva in gergo, un morto che cammina. Scelse la prima opzione non certo per paura, bensì perché non voleva far correre rischi alla sua scorta che, proprio perché la minaccia era assodata e reale, gli venne concessa numerosa. Richiesto e ottenuto il trasferimento, Alfonsi fu incaricato di prendere le redini dell’Anticrimine di Grosseto con la probabile e facilitata scalata ai massimi vertici della Questura del luogo, forse anche alla carica di Questore in un prossimo futuro. Nel frattempo, era necessario che Alfonsi conoscesse il territorio alla perfezione, prima di ipotizzare il suo probabile nuovo e importante ruolo di Questore. «La squadra è tutta qui?», chiese subito. «Mi avevano informato della presenza di otto elementi, non li vedo». Fu Lucia a rispondere. «Sono le sei, di solito prendiamo servizio alle otto, gli altri arriveranno a quell’ora. Noi siamo del turno di notte». «Non esiste turno di notte con me», Alfonsi non era un diplomatico e, men che meno, paziente, «come non esistono orari. La prima cosa da tenere a mente è che, quando ci sono io, dovrete esserci anche voi, io lavoro con la squadra al completo e non a turni sfasati. Chiamate gli altri, ora!». Le due donne scattarono sugli attenti e, seppur confuse dal trattamento a loro riservato dal nuovo venuto, si misero a cercare i cellulari, trovati i quali iniziarono a convocare i colleghi. Alcuni di loro non gradirono affatto di essere svegliati a quell’ora inconsueta, ma Alfonsi non lesinò di urlare il suo disappunto così forte che lo sentirono chiaramente anche gli interlocutori al telefono. «Che scattino in piedi, li voglio qui al massimo fra mezzora», precisò, «chi ritarda è fuori dalla squadra». Mentre le due donne completavano il giro di telefonate, Alfonsi si fece indicare il suo ufficio, che si trovava in una stanza separata, seppur all’interno di quel grande ambiente. Avrebbe avuto uno spazio per conto suo mentre il resto della squadra era sistemata nell’ampio ufficio principale, ognuno con la propria scrivania. Nell’ufficio di Alfonsi vi era un comodo salottino e un enorme tavolo riunioni. Diede ordine di portare via la scrivania, lui avrebbe lavorato proprio su quel tavolo. Passata la mezzora esatta, gli otto membri della squadra anticrimine della Questura di Grosseto erano sull’attenti davanti al loro nuovo capo. Due donne e sei uomini, otto superpoliziotti. Alfonsi lo sapeva bene, erano il meglio che si poteva sperare, ma doveva imporre loro il suo sistema, la sua autorità. Per questo mise subito in chiaro il suo metodo di lavoro. «Prima cosa: non sono abituato a chiedere, quindi, non mettetemi nelle condizioni di doverlo fare. Seconda cosa: voi dormirete quando io dormirò, starete svegli quando io sarò sveglio, mangerete quando io mangerò. In pratica, signori, voi siete la mia ombra come io sarò la vostra. Da questo momento le nostre vite si appartengono, nessuno dirà a nessuno cosa faremo, che indagini seguiremo, dove saremo. Nessuno, dico e ripeto nessuno, dovrà sapere nulla di noi, nemmeno i vostri coniugi, fidanzati, parenti e amici che siano. Nessuno, chiaro?». Attese la risposta che arrivò timidamente con segni poco chiari o, almeno, non troppo evidenti, almeno per Alfonsi. «Chiaro?» gridò con autorità. Tutti annuirono, ma nessuno riuscì ad aprire bocca. Erano stati informati che quell’uomo, oltre a essere un mito nel suo campo investigativo, sarebbe forse diventato il futuro Questore. Non era certo una bella prospettiva averlo contro, l’unica perplessità degli otto era di non comprendere un simile atteggiamento ostile. Di fatto sapevano che a Palermo Alfonsi era un capo adorato, rispettato e riverito da tutti e aveva la fama di essere uno che non usava l’autorità, ma era invece sempre il primo a dare l’esempio di sacrificio e abnegazione. «Ognuno di voi si scelga un nome di battaglia», proseguì Alfonsi, «io sono il Nero, quando parlate con me mi chiamerete così, anche semplicemente Capo andrà bene, ma alla radio solo Nero. Indicatemi quanto prima i nomi che avrete scelto, le vostre vere identità le conosco, ho letto le schede, ma è meglio evitare di usare il proprio nome in qualsiasi occasione, anche di fronte ai colleghi, e a maggior ragione se siamo in mezzo a estranei». «Come faremo a sapere i nostri orari?» chiese il più grosso del gruppo, si chiamava Luigi Scattino e precisò che voleva essere chiamato Scat. «Non saprete mai gli orari», rispose il capo, «quando sarà il momento, io vi autorizzerò ad andarvene a casa indicandovi contestualmente quando dovrete ritornare. Chi non obbedisce è fuori dalla squadra: chiunque obietti qualcosa o faccia di testa sua è fuori. Se voglio, decido io chi va fuori dall’Unità in qualsiasi momento. In caso di emergenza chiamerò Lucia, lei sarà il mio punto di riferimento e avviserà gli altri indicando le mie direttive. Altre domande?». Nessuna!
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