Chapter 2

1430 Words
Capitolo I Era il 1° luglio 1969, un martedì. Rincasando nel tardo pomeriggio, avevo ritirato una grossa busta dalla buca delle lettere. Sul momento avevo solamente osservato ch'era giunta via aerea da un'ignota Alfio Valente Cultural Foundation - New York. Non avevo dato particolare importanza a quel plico, senza affrettarmi ero salito in casa, un modesto appartamento all'ultimo piano d'un vecchio palazzo del centro storico, m'ero messo in libertà e, finalmente, sedutomi alla scrivania della cameretta che mi serviva da studio, avevo aperto la busta. Ne avevo avuto un'esaltante sorpresa: m'era stato assegnato il Brooklyn Alfio Valente Poetry Award per la mia opera poetica tradotta e pubblicata negli Stati Uniti: un premio in denaro, ben 5.000 dollari, pingue cifra a quei tempi; le spese di soggiorno erano pagate. Quei signori americani dovevano nutrire gran fiducia nei servizi postali, visto che non mi avevano avvertito per raccomandata internazionale. Mi chiedevano, a firma del presidente Albert Valente, che avevo immaginato parente e avrei saputo figlio del defunto intestatario della fondazione, di confermare telefonicamente l'accettazione del premio e la mia presenza alla cerimonia di consegna. Avevo considerato, dopo aver dato uno sguardo all'orologio e aver tolto 6 ore alle 17 e 38 minuti che segnava, che per il diverso fuso orario a New York era ancor mattina. Avevo chiamato il centralino dell'unica società telefonica italiana di quei tempi, la statale SIP1 , perché mi collegasse alla fondazione: quanto a celerità di chiamate intercontinentali, erano tempi da mammut quelli, l'utente doveva ricorrere a una delle centraliniste SIP e aspettare ch'ella, dopo molti minuti d'attesa come minimo, finalmente lo collegasse al lontano numero grazie a un circuito di comunicazione operato a mano. Avevo riagganciato e, restando in attesa che l'apparecchio squillasse avvertendomi ch'ero in linea, m’ero crogiolato nell'idea dell'inatteso guadagno che stava per raggiungermi, davvero provvidenziale perché l'arte poetica, come nella sua natura, non mi rendeva quasi nulla e vivevo grazie a discontinue collaborazioni a un quotidiano di Torino, La Gazzetta del Popolo, e all'incerta posizione di traduttore e di editor di una casa editrice, retribuito à forfait per ogni libro. Per la verità avevo anche steso un romanzo, potenzialmente ben più commerciale delle opere in versi, ed ero persino riuscito a pubblicarlo per i tipi della stessa editrice torinese per cui lavoravo, non senza il logorio di alquanti approcci al Khan dei Khan, come usavamo chiamare fra noi l'altezzoso e a volte bizzoso proprietario: ne avevo avuto tante lodi dalla critica, che non avevano gonfiato il mio portafogli, e nessun successo mercantile, trattandosi di "un lavoro di prosa poetica più che d'un romanzo raccontato" come l'editore, già esitante nel darlo alle stampe, m'aveva infine comunicato, calcando il tono sull'ultima parola. È bene ch'io anticipi inoltre, non solo trattandosi d'un caso legato alla mia misera condizione economica di quei tempi ma perché, come vedremo, si sarebbe rivelato drammatico per me e addirittura funesto per molti cittadini degli Stati Uniti e dell'Italia, che sei mesi prima di ricevere il premio Brooklyn Alfio Valente, nel desiderio di più denaro avevo colto l'improvvisa occasione offertami da un potente di comporgli e vendergli, per una rilevante somma, una ventina di sonetti in onore della sua benamata, poesie ch'egli aveva la dichiarata intenzione di spacciare per frutti del proprio talento con l'amorosa. Lo dico subito, provo ancor oggi amarezza per aver venduto la mia arte e, per un insieme di circostanze derivatene, pure dignità e libertà, anche se, come meglio narrerò a suo tempo, ne sarei stato punito moralmente e fisicamente. Mentre attendevo d'esser collegato alla fondazione, l'allegria m'era scemata di colpo: rileggendo con più attenzione la lettera, avevo notato che la data della premiazione era prossima, nemmeno una ventina di giorni, e avevo realizzato subito dopo che il mio passaporto era scaduto. Un brivido lungo la schiena, testualmente, poi un accesso d'ira: Perché m'avevano avvisato all'ultimo momento?! Indirizzato però uno sguardo alla data di spedizione sulla busta, avevo capito che la fondazione non era colpevole del ritardo, la lettera era partita da New York oltre due settimane prima. Eh, sì, ma almeno di non aver spedito per assicurata lo sei, colpevole, le avevo comunque lanciato idealmente; e subito dopo me l'ero presa con l'ignoto malaccorto – delle poste? d'un aeroporto? – cui dovevo la successiva complicanza; per finire m'ero chiesto se avrei potuto ottenere in tempo il rinnovo del passaporto dalla Questura, malgrado tutto, e, considerato che era richiesto dai prudenti Stati Uniti anche un visto consolare preventivo, m'ero risposto: Quasi certamente no; ma ecco che m'era scoccata una speranza: ...ma sì, chiederò aiuto a Vittorio! Vice questore, Vittorio D'Aiazzo serviva nella Questura di Torino, dove pur io avevo operato ai suoi ordini prima di congedarmi pochi anni prima. Era un carissimo amico, anzi il solo che avessi; e sapevo da lui che io pure, entrambi d'animo schivo, ero l'unico suo amico vero. Figùrati un po', m'ero vieppiù confortato, se, vista l'importanza della cosa, non si prodigherà! Già, ma come mai un individuo tranquillo come me, tutt'altro che portato a un mestiere armato, era entrato in Polizia? Una persona che s'era dedicata all'arte metrica e a frequentissime letture fin dalle medie, ispirata dalle traduzioni dell'Iliade del Monti e dell'Odissea del Pindemonte – medie-ginnasio a quei tempi –, un uomo desideroso di giungere alla laurea in lettere? Presto detto: il clima familiare degli anni '40 dello scorso secolo era ben diverso da quello odierno, era imprescindibile allora per un ragazzino il rispetto della volontà di padre e madre, e i miei genitori non m'avevano assolutamente permesso di rivolgermi agli ambíti studi classici e, con loro sacrificio grande ed enorme incomprensione, m'avevano indirizzato al liceo scientifico, nel miraggio di farmi ingegnere e occuparmi nella stessa industria automobilistica cittadina, la FIAT, dove lavoravano essi stessi come operai. Io odiavo la matematica, la fisica, la chimica e la mineralogia e avevo trascurato quegli studi – una sfilza d’insufficienze, tutti 4! tanto da dover ripetere il primo e il terzo anno del liceo, pur avendo tutti 8 in lettere italiane, latino, filosofia, storia, inglese. Quasi diciannovenne, verso la metà di quello stesso terz'anno ripetuto, era il 1952, non desiderando gravare oltre sui genitori che si stavano sacrificando inutilmente, avevo abbandonato la scuola ed ero entrato in Pubblica Sicurezza, come si chiamava allora la Polizia, svolgendovi prima il servizio militare e poi raffermandomi. Solo molti anni dopo, scacciando il timore di restare senza denaro m'ero finalmente dimesso, non trattenuto dall'essermi guadagnati il grado e il maggiore stipendio di vice brigadiere. Rimaneva quella, infatti, un'attività che, col suo pericolo e i suoi disordinati orari, ostacolava la mia passione per le lettere. Ero stato mosso dall'aver avuto un discreto successo. Fin dal dicembre 1957 avevo pubblicato il mio primo libro di liriche presso una grande editrice – svelerò poi l'arcano d'un evento così improbabile – con successo di critica e l'assegnazione alla silloge del celebre Premio Versilia, sezione opera prima, grazie al quale se n'erano vendute ben trecentoventicinque copie; cosa più importante, in seguito al premio avevo ottenuto, come giornalista pubblicista, collaborazioni letterarie alla torinese Gazzetta del Popolo e a un paio di noti settimanali, con accrescimento della mia notorietà. Le mie dimissioni mi avevano portato ulteriori frutti. Grazie al tempo pieno e alle più frequenti collaborazioni, erano stati dati alle stampe un poema e altre due raccolte di versi, queste composte nel corso degli anni precedenti, quello dopo il mio congedo, e i miei versi erano stati tradotti in inglese e francese e pubblicati nei paesi europei anglofoni e francofoni, negli Stati Uniti e in Canada. Senza lasciare il servizio, la vita di Ranieri Velli, la mia vita, probabilmente avrebbe continuato a svolgersi dall’una all'altra indagine al comando dell'amico, allora commissario, Vittorio D'Aiazzo, con poche pause di gioia letteraria, e non avrei raggiunto vera fama; per contro però, non mi sarei trovato negli ultimi mesi del 1969, come vedremo, fra i dolenti protagonisti d’un caso criminale internazionale, per il quale l'Italia avrebbe rischiato di cadere, ancora una volta, sotto un regime dittatoriale. M'era squillato il telefono. Era la comunicazione con New York. Conoscevo bene la lingua inglese, grazie non solo alla scuola ma a un corso intensivo d'apprendimento a Londra, zeppo di termini giudiziari, cui ero stato indirizzato da Vittorio in uno scambio con sottufficiali di Scotland Yard. Non avevo avuto nessuna difficoltà a farmi comprendere dall'interlocutrice americana: avevo chiesto di parlare col signor Valente spiegando il motivo della chiamata; non era in sede e m'era stata passata una dirigente, le avevo confermato l'accettazione del premio e la mia presenza alla cerimonia di premiazione; e almeno questa era stata fatta. Ora toccava al passaporto.
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