RISVEGLIO
a Charles Scribner1
Erano le cinque del pomeriggio; nella luce diffusa che illuminava l’atrio d’ingresso a Robin Hill, il sole di luglio cadeva proprio sulla svolta dell’ampia scala; e in quella striscia luminosa era fermo il piccolo Jon Forsyte, vestito di tela azzurra. I suoi capelli e i suoi occhi brillavano, ma la sua fronte era corrucciata, perché stava meditando come scendere le scale, l’ultima di innumerevoli volte, prima che l’automobile accompagnasse a casa suo padre e sua madre. Quattro gradini alla volta e cinque in fondo? Un vecchio gioco! Lungo la ringhiera? E in che modo? Sulla faccia, con i piedi avanti? Vecchissimo! Sullo stomaco, di sbieco? Stupido. Sulla schiena, con le braccia tese da entrambe le parti? Proibito! Sulla faccia, con la testa avanti, in modo del tutto nuovo e sconosciuto. Era questa la causa della contrarietà che appariva sul viso illuminato del piccolo Jon...
In quell’estate del 1909, le anime semplici che anche allora volevano semplificare la lingua inglese, non conoscevano, naturalmente, neanche l’esistenza del piccolo Jon, che altrimenti avrebbero reclamato come loro discepolo. Ma in questa vita non è possibile essere troppo semplici: il suo vero nome era Jolyon, ed era chiamato Jon solo perché il padre, ancora vivente, e il fratellastro morto avevano da tempo usurpato ogni altro diminutivi: Jo e Jolly. Così il piccolo Jon aveva fatto del suo meglio per conformarsi alle convenzioni, scrivendo il suo nome prima Jhon e poi John; e si era deciso a scriverlo Jon, soltanto quando suo padre gli aveva spiegato l’assoluta necessità di farlo.
A questo padre apparteneva tuttora quella parte del suo cuore che non era di Bob, il piccolo servitore che sapeva suonare il concertino e di «Da», la governante che la domenica portava un vestito viola e godeva del nome di Spraggins in quella vita privata, che talvolta vivono anche le persone di servizio. Sua madre gli appariva solo come in sogno, dolcemente profumata, nell’atto di carezzargli la fronte prima che si addormentasse e talvolta di lisciargli i capelli di un bruno dorato. Se l’era trovata accanto, quella volta che si era tagliato la fronte contro il parafuoco nella sua camera; e quando si svegliava da un incubo, se la vedeva seduta sul letto pronta a coccolarlo tra le braccia. Era carissima, ma lontana, perché «Da» era così vicina, e nel cuore di un uomo non c’è mai posto per più di una donna per volta. Con suo padre poi aveva degli speciali legami: perché anche il piccolo Jon voleva essere un pittore, una volta cresciuto — con questa piccola differenza però; che il padre dipingeva quadri, e il piccolo Jon voleva invece dipingere muri e soffitti, stando in piedi su di un asse appoggiato a due scale a pioli, con una sudicia camicia bianca, tutto profumato di calce. E poi suo padre lo accompagnava a cavalcare a Richmond Park, sul suo cavallino Mouse, così chiamato perché aveva il mantello dello stesso colore dei topi.
Il piccolo Jon era nato, come suol dirsi, con la camicia. Non aveva mai sentito suo padre o sua madre parlare con voce alterata né tra di loro, né con lui, né con gli altri; il piccolo Bob, il cuoco, Jane, Bella, e gli altri domestici, persino «Da», l'unica che talvolta lo rimproverasse, assumevano, parlando con lui, un tono di voce speciale. Perciò lui pensava che il mondo fosse un luogo di perfetta, perpetua libertà e gentilezza.
Bambino nel 1901, era giunto all’età della ragione quando il suo paese, subito dopo quell’attacco di scarlattina che era stata la guerra Boera, si preparava per la rinascita liberale del 1906. La coercizione non era più di moda, e i genitori consideravano un loro dovere far fare una bella vita ai loro figli. Inoltre, scegliendo come padre un amabile gentiluomo di cinquantadue anni, che aveva già perduto il suo unico figlio, e come madre una donna di trentotto, di cui era il primo e l’unico figlio, il piccolo Jon aveva agito bene e saggiamente. Ciò che gli aveva impedito di diventare qualcosa tra un cagnolino da salotto e un maialetto, era stata l’adorazione di suo padre per sua madre; perché anche il piccolo Jon poteva capire che lei non era soltanto sua madre e che nel cuore del padre lui non occupava che il secondo posto. Quale posto occupasse nel cuore di sua madre ancora non lo sapeva. Quanto alla «zia» June (veramente era la sua sorellastra, ma era così vecchia che il nome di sorella non le si confaceva più) lei gli voleva bene, certamente, ma era troppo brusca. Anche la sua «Da», per quanto affezionata, aveva dei modi un po’ spartani. Gli faceva fare il bagno freddo, lo mandava con le ginocchia nude; e non lo incoraggiava mai a essere delicato e pettegolo. Quanto alla discussa questione dell’educazione, il piccolo Jon condivideva la teoria per cui i bambini non devono mai essere forzati a fare nulla. Gli piaceva abbastanza la Mademoiselle che veniva per due ore ogni mattino a insegnargli la sua lingua, e un po’ di storia, di geografia e d’aritmetica; né gli piacevano le lezioni di pianoforte che gli dava sua madre, perché lei aveva un suo modo di attirarlo da un motivo all’altro, senza mai costringerlo a studiarne uno che non gli piacesse, così che rimaneva sempre in lui il desiderio di trasformare in otto dita i suoi dieci pollici. Suo padre gli insegnava a dipingere dei maialetti di fantasia e altri animali. Non era un ragazzino straordinariamente bene educato. Tuttavia, in complesso, l'essere nato con la camicia non l’aveva viziato e rovinato, sebbene «Da» dicesse, talvolta, che vivere con degli altri bambini gli avrebbe fatto un «sacco di bene».
Perciò fu una grande delusione per lui quando, all’età di circa sette anni, un giorno lei lo fece coricare sulla schiena e ce Io tenne fermo, per impedirgli di fare qualcosa che lei non approvava.
Questa prima intrusione nel libero individualismo di un Forsyte lo fece diventare quasi frenetico. Nella completa impotenza cui lo riduceva quella posizione e nell'incertezza di quanto sarebbe durata c'era qualcosa di spaventoso. E se lei non l’avesse lasciato alzare mai più? Soffrì la tortura per cinquanta secondi, urlando con quanta voce aveva in gola. Soprattutto gli diede pena l’accorgersi che «Da» ci aveva messo tutto quel tempo per comprendere l’agonia di terrore che lui soffriva. Così, dolorosamente, gli si rivelò la mancanza di immaginazione degli esseri umani. Quando si ritrovò in piedi, rimase convinto che «Da» avesse compiuto una cosa orribile. Benché non volesse accusarla, temendo tuttavia che la cosa si ripetesse, era stato costretto a cercare sua madre per dirle:
— Mammina, devi dire a «Da» che non mi tenga coricato sulla schiena, mai più.
Sua madre, sollevando sopra il capo le mani, che tenevano due bande di capelli couleur de feuille morte come il piccolo Jon non aveva ancora imparato a definirli, l’aveva guardato coi grandi occhi, che parevano due pezzettini della sua tunica di velluto bruno, e gli aveva risposto:
— Sì, caro, glielo dirò.
Siccome la madre gli appariva come una divinità, il piccolo Jon si sentì rassicurato; specialmente quando, a colazione, di sotto la tavola, dove si era cacciato per vedere di ottenere un funghetto, l’aveva sentita dire a suo padre:
— Allora, caro, lo dirai tu a «Da», o lo dirò io? Gli è così affezionata... — e aveva sentito la risposta di suo padre:
— Sì, ma non è questo il modo di dimostrarglielo. Capisco perfettamente quel che si deve provare a essere tenuti giù sulla schiena. Nessun Forsyte può sopportare una cosa simile, neanche per un minuto.
Sapendo che loro ignoravano la sua presenza, il piccolo Jon provò il senso, nuovo per lui, dell’imbarazzo, e rimase dove si trovava, benché divorato dal desiderio del fungo.
Era stato questo il suo primo tuffo negli abissi dell'esistenza. Dopo, nulla gli si era rivelato d’importante, fino al giorno in cui, andato nella stalla per bere, come di solito, il suo latte fresco, appena Garrat avesse finito di mungere, aveva visto un vitellino morto. Inconsolabile, seguito da Garrat tutto sconvolto, era andato a cercare «Da»; ma comprendendo improvvisamente che non era quella la persona che ci voleva, si era precipitato da suo padre, correndo poi tra le braccia della madre.
— Il vitellino è morto! Oh! oh! Come sembrava tranquillo!
L’abbraccio di sua madre, e le sue parole:
— Sì, caro, sì...! — avevano calmato i suoi singhiozzi. Ma se aveva potuto morire il vitello, potevano morire anche tutte le altre creature — non soltanto le api, le mosche, gli scarabei e le galline -— e avere poi quell’aspetto tranquillo! Era un pensiero spaventoso — ma fu presto dimenticato.
Gli era successo poi di sedersi su un calabrone; era stata questa un’esperienza piuttosto pungente, che sua madre aveva compreso molto meglio di «Da»; e nulla era accaduto di veramente notevole fino alla fine dell’anno quando, dopo una giornata di straordinarie sofferenze, aveva goduto di una malattia fatta di macchiette rosse, letto, miele preso a cucchiai e molte arance di Tangeri. In quell’occasione il mondo era improvvisamente fiorito per lui. E questa fioritura fu dovuta alla «zia» June, che, appena Jon si trovò ad essere un piccolo infelice, si precipitò da Londra, portando con sé i libri che avevano deliziato la sua adolescenza, intorno al 1869. Erano vecchi, di molti colori, pieni di formidabili avvenimenti. Lei li lesse al piccolo Jon, finché questi non fu in grado di leggerli da solo; dopo di che se ne tornò a Londra di corsa, lasciandogliene un mucchio. Questi libri alimentarono la sua fantasia: sognava e fantasticava continuamente di guardie costiere e canoe, pirati, zattere, mercanti di legno di sandalo, cavalli d’acciaio, imbroglioni, battaglie, Tartari, Pellirosse, palloni, Polo Nord e altre cose stravaganti e deliziose. Appena gli permisero di alzarsi, equipaggiò il suo letto di tutto punto, se ne partì in una stretta tinozza, attraversò il mare rappresentato dal tappeto verde fino a una roccia, dove s’arrampicò per mezzo dei pomi del suo cassettone di mogano, per scrutare l’orizzonte col bicchiere appoggiato all’occhio come un cannocchiale, alla ricerca di navi che venissero a salvarlo. Ogni giorno si faceva una zattera col porta tovaglie, col vassoio del tè e con i guanciali. Teneva in disparte il sugo delle prugne cotte, lo raccoglieva in una bottiglietta vuota, considerandolo come rum per approvvigionare la sua zattera; si faceva anche la sua provvista di carne secca con dei pezzettini di pollo seccati al fuoco; e dell’unguento contro lo scorbuto col sugo delle pelli di arancia e un po’ di sciroppo avanzato. Un mattino costruì un Polo Nord con tutte le lenzuola e ci giunse in una canoa fatta di scorza di betulla (che nella vita privata non era altro che il parafuoco), dopo un terribile incontro con un orso polare fabbricato con la coperta e quattro birilli vestiti con la camicia da notte di «Da». Dopo di che suo padre, allo scopo di dare un certo ordine alla sua immaginazione, gli portò Ivanhoe, Bevis, un libro sul Re Artù e Tom Brown's School Days. Lui lesse il primo2 e per tre giorni non fece che costruire, difendere ed assalire alternativamente il castello di Front de Boeuf, facendo tutte le parti all’infuori di quelle di Rebecca e di Rowena; con grida laceranti di: «En ayant, de Brucy!» ed espressioni del genere. Dopo avere letto il libro su Re Artù, si identificò quasi completamente con Sir Lamorac de Galis, perché, sebbene ci fosse poco di lui, preferiva il suo nome a quello di tutti gli altri cavalieri; e cavalcò il suo vecchio cavallo a dondolo senza dargli mai riposo, armato di una lunga canna di bambù. Bevis3, lo trovò noioso; e poi, ci volevano i boschi e degli animali; mentre lui nella sua stanza da gioco non aveva che i due gatti, Fitz e Pack Forsyte, che non permettevano molta libertà. Per Tom Brown4 era ancora troppo giovane. Fu un sollievo per tutta la casa quando, dopo quattro settimane, ebbe il permesso di scendere e di andare fuori.