Capitolo 1

3819 Words
1 Natalie Montgomery, Centro di Smistamento Spose, Nord America “Tieni quella stimosfera nella tua fica, gara.” La voce era profonda e autoritaria, ed io non sapevo cosa fosse una stimosfera né cosa significasse gara. Sapevo, però, che se avessi smesso di stringere le mie pareti interne attorno a quell’oggetto duro e pesante, sarebbe caduto sul morbido tappeto che avevo sotto i piedi. L’oggetto rotondo era dentro di me, eccitandomi per quello che volevo davvero, il cazzo duro del mio compagno. Chiusi gli occhi cercando di tenere dentro l’oggetto liscio. Ma ero troppo bagnata. Troppo eccitata. Troppo pronta per farmi possedere dal mio compagno. Sapevo che la sfera sarebbe caduta e che io sarei stata punita. Di nuovo. Il pensiero mi fece gemere di piacere, soprattutto quando una mano grande e calda tracciò il percorso della mia spina dorsale, dalla base del collo e passando sulle mie curve, fino a posarsi sul mio sedere scoperto. Un calore pungente divampó nel punto in cui sapevo che mi avrebbe sculacciata per aver fatto cadere la sfera. La pressione di quella cosa che mi allargava e mi riempiva era un tormento erotico, e la mia fica agognava un po’ di sollievo, agognava l’essere stretta attorno al suo cazzo. Il sudore mi gocciolò dal sopracciglio quando lasciai scivolare la sfera, sentendola all’ingresso della mia fica. Stava per cadere. Non di nuovo! Muovendo i fianchi cercai di evitare l’inevitabile, anche se la profonda voce maschile alle mie spalle ridacchiava per la mia lotta. “Cattiva compagna, vedo la stimosfera. Mantienila dentro quella fica bagnata o ti sculaccerò ancora.” “Io… non ce la faccio.” Ero appoggiata a un piccolo tavolino imbottito. Spinsi con le braccia ma mi resi conto di avere polsi e caviglie legati al tavolo . Avevo un cuscino sotto la pancia e, sebbene fosse comodo, realizzai di essere posizionata in modo che lui potesse farmi qualunque cosa volesse. Avevo il culo per aria e la fica nuda perfettamente esposta alla sua vista. Non potevo nascondermi. Il mio compagno mise le sue grandi mani sul mio sedere, una per lato e lo allargò per ispezionarmi. Non ero mai stata così esposta. Così vulnerabile. Mi aspettavo di provare vergogna o imbarazzo. Ma questo corpo di donna si perdeva nella sua esaminazione, e sapeva cosa sarebbe venuto dopo. “Sei così bagnata per me. Capisco che tu sia in difficoltà, gara.” La sua voce profonda era inasprita dal desiderio. Come facessi a saperlo, a sapere esattamente che voce avesse il mio compagno quando stava per perdere il controllo e darmi ciò che volevo, non avevo idea. Ma lo sapevo. Era vicino. Dovevo solo premere contro di lui. Tentarlo. Scossa dal desiderio, sentii un freddo sfregamento metallico contro una coscia, poi contro l’altra, e capii che una pesante catena penzolava sotto di me attaccata alla stimosfera, tirandola lentamente e inesorabilmente giù. Ero troppo bagnata, troppo eccitata per tenerla dentro. I miei muscoli tremavano per lo sforzo di mantenerla in posizione, il mio clitoride pulsava per il desiderio. Ma non volevo la stimosfera, volevo lui. Che mi riempisse. Che mi dilatasse. Che mi facesse venire. Mi aprii allentando la presa attorno alla sfera e questa cadde sul pavimento. Sussultai, sentendomi vuota. “Per favore, ne voglio… ancora.” Non riconoscevo neppure la mia voce. Era profonda e roca, come se avessi urlato di piacere. Per il modo in cui mi sentivo, tormentata dal desiderio, probabilmente non ero venuta, ma avevo urlato per la disperazione. Quest’uomo, il mio compagno, chiunque fosse, sapeva come prendermi. E lo adoravo. Sentii il suo palmo accarezzarmi il sedere. “Questo è ancora, gara. Qualunque uomo potrebbe scoparti e basta, ma io sono il tuo compagno e so ciò di cui hai bisogno. Tu hai bisogno del mio comando, della mia autorità sul tuo corpo. Solo così ti lascerai andare.” La sua mano piombò sul mio sedere nudo con un sonoro schianto ed io urlai per lo shock. Sapevo che non era reale, che non ero mai stata sculacciata prima, ma qualunque cosa fosse, faceva male, eppure il dolore si trasformava rapidamente in un piacere impetuoso, mischiandosi con la già crescente sfera di febbrile desiderio. “Prima implorerai, gara. Perderai il controllo. Dimenticherai ogni cosa eccetto me.” Sentii il suo fiato caldo sul collo appena prima che mi baciasse in quel punto tenero dietro il mio orecchio. “Solo allora ti scoperò.” “Ma…” “È questo che vuoi?” inspirò, e un dito iniziò a mulinare sopra la mia apertura. Oh sì, era esattamente ciò che volevo. Il più delicato tocco con la punta del dito mi faceva divampare di calore fino alle dita dei piedi. Il mio clitoride pulsava. “Ancora,” implorai. Premendo il suo corpo contro il mio mi fece sentire ogni bollente e duro centimetro di lui contro la mia schiena. “Questo?” Fece scivolare un dito dentro di me. Lo ritrasse. “Stai gocciolando per me.” “Per favore.” Strizzai forte gli occhi, ogni muscolo del mio corpo era teso, pronto a venire come non ero mai venuta in vita mia. Avevo solo bisogno di un… po’… di più. Avevo bisogno di lui, duro e selvaggio che mi tirava i capelli e mi penetrava senza sosta. Sentii un sentimento selvaggio che non conoscevo. Un urlo spezzato e disperato si sollevò dalla mia gola, un verso animale che non riconoscevo. “Cosa vuoi, gara?” Mi riempì con due dita facendomi mordere le labbra per trattenere la voglia di ordinargli di scoparmi più forte. Più veloce. Più a fondo. Se avessi provato a fargli aumentare il ritmo, mi avrebbe lasciata vuota e gocciolante fino a che non avessi pregato ancora. Urlato. Datogli ogni cosa. “Te. Ti prego.” Allontanò la mano e fui di nuovo vuota. Il vento rombava contro il tetto della struttura simile a una tenda. Riuscivo a sentire l’aria secca e l’odore di pelle, olio di mandorla e sabbia. E il mio compagno. Il suo odore era selvatico e muschiato, e il suo sapore unico era sulla mia lingua, come se lo avessi appena avuto in bocca in tutta la sua lunghezza. Dio, quel pensiero mi incendiò. Lo volevo. Tutto. Ovunque. Scossi la testa e singhiozzai, i miei capelli una cascata setosa che mi penzolava sul viso. Ne avevo bisogno. Non c’era parola più adeguata per descrivere lo stato del mio corpo. Ne avevo bisogno. Da qualche parte dentro di me, sapevo che questa situazione durava da un po’ di tempo. Mi aveva stuzzicata, tormentata con il piacere. Ma ero oltre il punto di rottura, aprendomi e preparandomi a implorare, pregare, piangere…qualsiasi cosa, purché mi desse il suo duro… “È questo che vuoi?” disse ed io sentii la cappella calda del suo cazzo allinearsi al mio ingresso. “Sì.” La parola esplose da dentro di me. “Accetti di essere rivendicata, gara? Accetti la mia protezione e la mia devozione?” Che diavolo avrei dovuto rispondere? C’era solo una parola che impazzava come un mantra nella mia testa, e il corpo in cui mi trovavo era troppo desideroso di urlarla. “Sì!” Passi. Sentii dei passi provenire dalla mia destra. Girai la testa per vedere un secondo paio di stivali. Non quelli del mio compagno. C’era qualcun altro… “Per i registri ufficiali, sei mai stata sposata, abbinata o legata a un altro uomo?” La sua domanda fece rallentare i miei pensieri e raffreddare leggermente il mio fervore. Cosa stava succedendo, esattamente? “No.” “Hai della prole biologica?” Biologica…? ”No.” Mi irrigidii cercando di ritrarmi dalla sua presa, mentre l’estraneo con gli stivali si avvicinava. Non riuscivo a vedere il suo volto, ma sapevo che era lì. Sapevo che poteva sentire le mie suppliche, il mio piacere. E, da dove si trovava, probabilmente poteva anche vedere la mia fica spalancata. Lasciai cadere la fronte sul tavolo con un lamento. Dio, perché quel pensiero mi aveva eccitata? All’improvviso ero diventata una maniaca? Una pervertita? Prima che potessi indugiare oltre su quel pensiero, una mano raccolse i miei capelli alla base del cranio e tirò leggermente, facendomi sollevare la testa dal tavolo. Inarcai la schiena e il mio culo si sollevò contro il suo cazzo duro. “Bene. Ti rivendico come mia compagna.” Diede un colpo in avanti, riempiendomi in un’unica spinta lenta e omogenea. L’estraneo alle mie spalle parlò con voce roca e profonda, ma facilmente distinguibile da quella del mio compagno. “Riempirò i registri ufficiali e avviserò il consiglio.” “Lasciaci,” ordinò il mio compagno continuando a restare dentro di me. “Ma non è stata inseminata. Il protocollo standard impone che io testimoni…” “Esci fuori di qui prima che ti strappi il cazzo dal corpo e te lo infili giù per la gola.” Tremai al brusco ordine del mio compagno. Gli stivali si affrettarono a sparire e sentii un sorrisetto formarsi sul mio volto. Il mio compagno era forte. Feroce. Temuto. Non mi avrebbe condivisa. Dio, la cosa mi rendeva fottutamente eccitata. Ancora una volta al limite, feci ondeggiare i fianchi, sollevata quando lui arretrava per poi spingere a fondo. Forte. La mano con cui mi teneva i capelli tirava indietro tutto il mio corpo contro il suo grosso cazzo. Dentro. Fuori. Forte. Veloce. Selvaggio. Esattamente il modo in cui lo volevo. I suoni carnali e umidicci del sesso riempivano la tenda. Il mio compagno mi lasciò andare i capelli e si piegò per baciarmi sulla spalla. Parlò con la voce spezzata e il respiro irregolare. “Ed ora, compagna, saprai cosa vuol dire essere mia.” Sposto la mano dove riuscii a vedere un anello al suo mignolo. La fica mi si contrasse per l’attesa. Per mezzo secondo mi chiesi perché, poi lui premette lo stemma dell’anello con il pollice. Una vibrazione mi esplose nei capezzoli, seguita da un piccolo shock al clitoride, come una scossa elettrica. Un urlo mi uscì dalla gola mentre mi sollevavo dal tavolo, ma il mio compagno mi afferrò i fianchi per tenermi stretta a sé, affondando ancora e ancora, fino a che l’unico suono che riuscii a sentire non fu quello del suo corpo che sbatteva contro il mio. Porca miseria, era una qualche specie di telecomando per… cosa? Una specie di vibratore spaziale. Ma sui mie capezzoli e sul mio clitoride? Ancora e ancora. Dai miei capezzoli partì un fuoco diretto al mio inguine, ed io esplosi, venendo così forte che temetti di svenire. La mia fica pulsava e si contraeva attorno a lui, facendomi perdere il controllo del mio corpo, contorcendomi e dimenandomi come un animale selvaggio, mentre le sue enormi mani mi stringevano i fianchi, forzandomi a prenderne ancora. Il mio orgasmo continuò ancora, fino a che non ebbi le vertigini e mi dimenticai dove mi trovassi. Avevo la bocca secchissima per tutte le urla. E poi tutto diventò nero. La sensazione svanì, come se se mi fossi svegliata da un sogno, un sogno in cui avrei voluto davvero tornare. Era stato il sesso migliore della mia vita, e ne volevo ancora. Per esperienza personale sapevo che svegliarsi faceva sempre schifo. “Signorina Montgomery?” Una severa voce femminile disse il mio nome. Scossi la testa, non volendo rispondere. Volevo ancora il mio compagno, il suo cazzo duro, quell’orgasmo incredibile. Cristo. “Natalie!” La voce aumentò di volume, ed ora sembrava preoccupata. Se non avessi imparato niente nei miei lunghi anni passati in collegio mi sarei permessa di essere volgare. Le buone maniere erano state fissate a fondo nella mia testa dai severi e a volte spietati insegnanti. “Mi scusi. Sì?” La mia voce era roca e debole, come se non l’avessi usata per giorni. “Apra gli occhi, cara. Devo assicurarmi che sia di nuovo qui, sulla Terra, con me.” Anche se riluttante, mi sforzai di aprire gli occhi, il retro delle mie palpebre come carta vetrata. Mi ritornò tutto in mente. Le fredde pareti bianche della clinica. La strana sedia a cui ero legata come una paziente malata di mente. Lo strano camice in stile ospedaliero che indossavo, con il logo del Programma Spose Interstellari stampato ripetutamente in una scura trama bordeaux brutta come carta da parati. Persino gli occhi seri e l’espressione solenne sula brunetta carina che stava conducendo i miei test. Non sembrava molto più vecchia di me, ma l’oscurità dietro il suo sguardo mi diceva che ne aveva passate molte di più. Era tempo che ritornassi a quella cosa chiamata vita. Ero stanca di essere tenuta su uno scaffale come un delicato servizio di porcellana. Avevo collaborato per ventiquattro anni, e cose ne avevo ricavato? Un’educazione di prima qualità, dei genitori che non vedevo mai più di due volte l’anno e un fidanzato così pervertito che avrebbe preferito pagare per del sesso piuttosto che andare a letto con me. Per la verità non era pervertito quanto il sogno che avevo appena fatto, ma del resto non ci aveva nemmeno mai provato. Convincerlo a leccarmela era stato come far approvare una legge dal Congresso. Era molto più il tipo scopa-come-un-maiale-e-vattene. E io lo avevo sopportato per gli ultimi diciotto mesi per cercare di accontentare i miei genitori. Sul serio, cosa c’era di sbagliato in me? Ancora peggio, il miglior sesso che avessi mai fatto era stato in un sogno. Anche se, se fossi riuscita ad averne ancora, se avessi accettato l’abbinamento,,, allora sarebbe andato benone. “Signorina Montgomery, è qui con me?” “Oh, mi scusi.” Sbattei le palpebre un paio di volte e cacciai via dalla testa i pensieri di Curtis Howard Hornsby III. Miliardario, viziato, smidollato, lagnoso e opportunista. “Sì. Sono qui, Direttrice. Mi perdoni.” “Capisco. Ci vuole un po’ per riprendersi. So che la procedura standard può essere intensa.” Arrossii. “Non ho urlato troppo forte, vero?” Sorrise e poi guardò altrove. “No, non troppo,” replicò, ma io non le credetti. Per il modo in cui avevo perso il controllo nel sogno, di certo chiunque all’interno del centro di smistamento mi doveva aver sentito. “Sì, a proposito. Mi dispiace, ma è stato… Dio.” Non riuscivo nemmeno a spiegarlo. “Sì, lo capisco.” La direttrice si chiamava Egara. Adesso lo ricordavo. Ma era il nome o il cognome? Era un nome strano per una donna, e negli ultimi giorni avevo persino sentito delle voci, da parte di altre donne che si erano sottoposte al trattamento, riguardo al fatto che la Direttrice Egara non fosse solo la compagna di uno, ma di ben due guerrieri di un pianeta chiamato Prillion Uno. Ed erano morti entrambi. Era una doppia vedova. Triste. Era così triste. La Direttrice Egara guardò il tablet che aveva in mano, che sembrava portare sempre con sé, e annuì frettolosamente. “Eccellente. Ha ottenuto un abbinamento compatibile al novantanove per cento.” “Davvero?” Sì, quella voce pateticamente speranzosa era la mia. Mia madre mi avrebbe rimproverata per quella superflua dimostrazione di emotività. Ma che si fottesse, che si fottesse mio padre, il banchiere miliardario e la loro decisione di avere un figlio solo per conformarsi alle aspettative della società. Ero stata cresciuta da tate e direttrici di collegio. Avevo imparato ad avere contegno sin dai tre anni, e non ero una lady britannica. Oggi l’opinione di mia madre non contava più. Dovevo ricordamelo. Me ne stavo per andare da questo stupido pianeta. Avrei avuto una vita vera, con un uomo, un alieno, un compagno, non importava, che fosse compatibile con me al novantanove per cento. Non importava come si sarebbe chiamato, fin tanto che gli fosse importato di me. Per una volta in vita mia, volevo che qualcuno mi mettesse al primo posto. Quell’unica caratteristica era ciò che mancava alla natura del mio ex fidanzato e dei miei genitori. Diamine, la loro mancanza d’interesse per la loro unica figlia probabilmente significava che non si sarebbero nemmeno accorti che non ci sarei stata fino a Natale, a cui mancavano ancora quattro mesi. “Sì, Natalie. Sei stata abbinata a Trion.” Gli occhi della direttrice si ammorbidirono leggermente, e mi rilassai sulla sedia degli esami. Mi sentivo come dal dentista, ma non per un’otturazione, per ricevere un uomo. Un compagno. Una vita. “Okay.” Non sapevo niente di quel pianeta, e non m’importava. Ovunque sarebbe stato meglio che sulla Terra, perché quando Curtis e i miei genitori prestavano attenzione, notavano tutto e mi davano ordini su qualsiasi cosa, cosa fare, cosa indossare, con chi socializzare. Qualche volta avevo cercato di essere determinata e di ribellarmi, ma non aveva mai funzionato. Ovunque scappassi venivo raggiunta da un biglietto di prima classe per casa o dall’accettazione in un nuovo collegio. Proprio l’anno prima ero partita per una crociera in Alaska, e fui raggiunta a Juneau da un lacchè dei Montgomery venuto per recuperarmi. Era solo una maledetta crociera, ma nemmeno quella era consentita. L’unico modo per essere libera era lasciare il pianeta e andare dove non avrebbero potuto riportarmi indietro. Mi guardai la mano sinistra, dove avevo ancora al dito l’anello di fidanzamento con diamante gigante. Alzando lo sguardo notai che la Direttrice Egara mi stava guardando. “Potrebbe toglierlo?” Con i polsi legati di certo non ci sarei riuscita. Ma non sarei andata nello spazio dall’alieno di Trion a cui ero stata abbinata indossando l’anello di Curtis. Era grande e bellissimo, ed io non lo volevo. Volevo l’uomo spaziale assegnatomi. “Mi aiuterebbe? Non riesco a raggiungerlo.” Lei annuì e venne al mio fianco. Posò il tablet accanto al mio ginocchio e rimosse con cura l’anello dal mio dito. Nel momento in cui lo sfilò sentii un ribollente e vertiginoso senso di libertà. Stavo davvero per farlo, per lasciare tutto e tutti? Sì. Sì, stavo per farlo. Agitai le dita e sospirai. “Grazie.” Continuò a tenere stretto l’anello e alzò un sopracciglio. “Cosa vuole che ne faccia?” “Non m’importa. Lo venda. Si tenga i soldi. Lo regali. Lo getti nell’immondizia.Ne faccia quello che vuole.” “D’accordo.” Si infilò l’anello in tasca e mi venne in mente che forse l’avrebbe gettato sul serio. “Vale almeno trentamila dollari. Non accetti un centesimo di meno.” Annuendo, riprese il suo tablet. Non sembrava impressionata dall’anello, e per questo motivo iniziò a piacermi ancora di più. Sembrava preferire l’amore agli oggetti, proprio come me. L’anello non significava niente perché io non significavo niente per Curtis. Mi rilassai di nuovo sulla sedia. “Per i registri, Signorina Montgomery, è o è mai stata sposata?” “No.” Erano le stesse domande che mi erano state poste prima, ma sapevo che questa sarebbe stata l’ultima volta. Ora avevo un compagno. Un abbinamento. Un uomo che avrebbe dovuto combaciare perfettamente con il mio profilo psicologico. Sapere che il mio compagno mi stava aspettando rendeva solo più reali quelle domande. “Ha prodotto della prole biologica?” “Diavolo, no.” E fino a quel giorno non l’avevo mai voluta. Curtis non mi aveva mai fatto venire voglia di avere un figlio, e il modo in cui ero stata cresciuta io mi aveva lasciato un senso di freddezza. E se mai avessi avuto un bambino, avrei dovuto fare dei corsi per tirarlo su, o qualcosa del genere. Avrei dovuto fare tutto quello che mia madre non aveva mai fatto, come imparare canzoni e giochi per bambini. Quelle sull’alfabeto le conoscevo. Avevano un alfabeto su Trion? All’improvviso non vedevo l’ora di scoprirlo. Avrei scommesso che anche lì avrebbero avuto le loro speciali canzoni per bambini. Le avrei imparate subito e cantate al mio bambino. Forse ancora prima che fosse nato. Riescono a sentire da lì dentro, giusto? Forse avrei cantato canzoni sia in inglese che nella lingua di Trion. Wow. Volevo un figlio. Era una cosa nuova. Mi avevano dato qualcosa per stimolare le mie ovaie durante i test? “Natalie?” Rimisi a fuoco lo sguardo sulla Direttrice Egara. “Sì.” “So che è difficile, ma cerchi di restare con me. Abbiamo quasi finito. Accetta i risultati del protocollo di abbinamento?” “Sì.” Cavolo, sì, gara accettava. Risi. Non potevo farci niente. Ero pervasa da un’euforia intensa e inebriante. Mi sentivo… felice. Per una volta avevo qualcosa per cui essere eccitata, e l’avevo fatto da sola, per me stessa. “Mi scusi, sono piuttosto eccitata.” La direttrice mi diede una pacca sulla spalla e si spostò al lato opposto della stanza; la sua uniforme grigia attillata mi ricordava quell’aliena sexy di Star Trek, Sette di Nove. Curtis aveva sempre sottolineato quanto fosse sexy quella stupida attrice bionda nella sua tuta spaziale argentata, luccicante e super attillata. Era un cyborg nella serie. Come faceva una donna meccanica ad essere sexy? Non lo capivo, ma Curtis aveva la bava alla bocca ogni volta che lei appariva sullo schermo del televisore, anche con me seduta proprio accanto a lui sul divano. Be’, ride bene chi ride ultimo. Curtis era bloccato qui sulla Terra, pagando le sue escort per succhiargli l’uccello e vivendo in quella banca per otto ore la settimana come un robot. Io me ne stavo andando a vivere un’avventura sexy nello spazio. Dio, speravo che il mio compagno di Trion fosse attraente. Terribilmente attraente. Che mi facesse bagnare le mutandine come nel sogno. Una luce azzurra comparve sul muro alla mia sinistra e la sedia iniziò a ondeggiare di lato. Colta di sorpresa, guardai verso l’alto per vedere la Direttrice Egara sorridermi. “Cerchi di rilassarsi. Tutti i pianeti hanno dei requisiti per le proprie compagne. Tutte le modifiche necessarie per Trion faranno parte della sua preparazione. Quando si sveglierà, sarà su Trion. Non sarà più una cittadina della Terra. Il suo nuovo compagno la starà aspettando.” Mi appoggiai allo schienale, pronta a qualsiasi follia stesse per succedere. In realtà stavo solo cercando di non vomitare. Stavo lasciando casa. Per sempre. Avevo letto il manuale. Sapevo in cosa mi stavo cacciando e che non sarei potuta tornare indietro. Ma pensare e agire erano due cose diverse. Quando quella cosa con l’ago enorme mi colpì sobbalzai. Quando sentii la puntura colpirmi proprio dietro l’orecchio, all’altezza della tempia, cercai di ignorare il dolore, e la direttrice spiegò che mi era stato impiantato un processore neurale che mi avrebbe aiutata a imparare la lingua di Trion. Fico. La sedia si abbassò immergendomi in un bagno caldo di luce blu, e una sensazione di calma mi si posò addosso. Pensai che mi stessero drogando. Non m’importava. Almeno non avrei vomitato su quel camice altamente alla moda. “Il protocollo inizierà tra tre… due… uno.” La Direttrice Egara fece un vago cenno di saluto con la mano mentre il muro si chiudeva scorrendo dietro di me. E poi… il niente.
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