2.

2106 Words
2. Due settimane prima Dopo averla legata, le strapparono la benda che le impediva di vedere. Così poté rendersi conto di dove fosse. Una stanza piccola e buia, forse sottoterra. Non c’erano finestre e l’aria aveva un vago sentore di muffa. L’altro odore era quello dell’uomo. Il suo sudore. Il suo alito alcolico. Brooklyn non riusciva a vederlo bene. La luce era troppo scarsa. Vedeva che aveva un passamontagna nero sulla faccia, questo sì. Una maglietta aderente sul torace muscoloso. Vene in rilievo sulle braccia. Riusciva a cogliere solo dettagli, quando la luce all’esterno della stanzetta – una lampadina flebile, l’impressione era quella – lo colpiva. Restò calma. Sapeva che cosa stava per succedere. Non ne era sicura al cento percento, ma non c’erano molte altre possibilità. Si era fatta prendere come una scema, mentre tornava a casa. Una macchina ferma in mezzo alla strada, sotto la pioggia. Le quattro frecce accese. Il cofano alzato. Si era fermata per chiedere se servisse aiuto. Aveva abbassato il proprio finestrino ed era bastato quello. L’avevano tirata fuori dalla macchina. Erano in tre. Troppo buio per vederli in faccia, anche se a tratti venivano illuminati dal lampeggiare giallo delle quattro frecce. L’avevano sopraffatta. Legata, bendata, imbavagliata. Buttata in un bagagliaio. Per quasi un’ora era rimasta lì dentro. L’ossigeno era poco, così aveva dovuto costringersi a respirare lentamente. Le mani e i piedi all’inizio le formicolavano, poi più niente. L’avevano tirata fuori, alla fine. Brooklyn era pronta, aveva provato a reagire, ma non ci era riuscita. L’avevano portata lì. Avevano sceso delle scale, per arrivarci? Forse sì. Le sembrava di sì. L’avevano legata in modo diverso. Sempre in silenzio, solo pochi grugniti. Poi uno dei tre aveva detto: «Inizio io». Gli altri due erano usciti. E adesso era lì, legata su quello che sembrava un letto singolo. Le braccia tirate sopra la testa, i polsi uniti e assicurati alla testiera con diversi giri di corda. Nessuna possibilità di sciogliere i nodi. Nessuna possibilità di muovere le braccia. Le caviglie erano legate agli angoli della pediera. Una all’angolo destro, l’altra all’angolo sinistro. Non poteva piegare le gambe. Poteva inarcarsi, tutto qua. Era più o meno l’ultima cosa che volesse fare. Quel tizio la toccò. Al buio, ansimando. Le tastò il petto e le strinse le tette. Un sospiro. Poi più giù, al cavallo dei pantaloni. La strinse, la massaggiò. Gli sfuggì persino un mugolio eccitato. Brooklyn restò ferma. Seguì i suoi movimenti, per quel che poteva. Non si divincolò. Anzi, cercò di rilassarsi. Resta calma. Resta in guardia. Sopporta. Sfrutta la prima occasione disponibile. Il tizio si stancò di palparla come un qualsiasi maniaco. Brooklyn percepì un movimento. Il riflesso di un coltello. Restò immobile. “Inizio io”, aveva detto. Non voleva ucciderla. Probabilmente voleva solo toglierle i vestiti. Altrimenti non avrebbe “iniziato” lui, no? L’avrebbe “fatto” lui. Non puoi uccidere una donna tre volte, e quei tizi erano in tre. L’uomo iniziò dalla maglia. La tagliò dal basso verso l’alto, fino a sfiorarle il mento con il coltello. La aprì. Le palpò ancora le tette, senza disturbarsi a mollare il coltello. Emise un “aah” soddisfatto. Brooklyn lo seguì con lo sguardo, attenta. Era sudato fradicio e puzzava di alcool, ma le sue mani non tremavano. Sembrava tirato a lucido, il tipo che fa palestra e magari prende steroidi. Le tagliò i pantaloni partendo dalla caviglia della gamba destra. Su. Su, la lama fredda a contatto con la pelle, ma senza farle un graffio. Su fino alla vita. Poi l’altra gamba, come prima. Alla fine le tirò via i pantaloni e li buttò per terra. Brooklyn vide che si chinava. Sentì la sua lingua sulla pelle di una gamba e la trovò la cosa più disgustosa in assoluto. Ancora più disgustosa dell’idea di trovarselo sopra. O dentro. La sua bocca, il modo in cui la leccava e la mordicchiava... ansimando eccitato... prendendosi tutto il tempo in quell’oscena caricatura di preliminari. Risollevò la testa. Per un attimo Brooklyn vide i suoi occhi. Occhi verdi e trasparenti, dalle pupille piccole e nere. Per qualche motivo la spaventarono. Non che non avesse paura in partenza, è chiaro, ma quegli occhi avevano qualcosa di diverso. Una freddezza. Una lucidità. Gli occhi e le mani di quel tizio parlavano di uno che ha il pieno controllo di quello che sta facendo. L’alito e il sudore no. Il modo in cui ansimava e a volte mugolava raccontavano una storia diversa. Brooklyn non sapeva di quale fidarsi. Una diceva che l’avrebbe violentata e avrebbe lasciato il turno ai suoi compari. L’altra parlava di uno psicopatico organizzato e freddo che avrebbe potuto farle qualsiasi cosa e non aveva alcuna intenzione di lasciarla in vita. Lui riprese il coltello. Era seduto sul letto, ora. Un fianco attaccato alla sua vita. Portava dei jeans o qualcosa del genere. Forse dei pantaloni cargo. Le tagliò il reggiseno proprio al centro, liberando le sue tette. Brooklyn non si sentiva più le mani. Sapeva di non potere sciogliere i nodi. Non sprecò energie preziose per divincolarsi, si limitò a seguire con gli occhi tutti i suoi movimenti. La toccò ancora, sulla pelle nuda dei seni. Le sue mani non erano sudate. Perché non erano sudate? Brooklyn aggrottò la fronte. Erano mani ruvide e asciutte. Stringevano, manipolavano. Lui ansimava e gemeva. Sembrava folle di eccitazione, ma c’era qualcosa di così strano, di così sbagliato. La toccò tutta, le mani che la percorrevano in modo sbrigativo, ora, affrettato. Come se non potesse più aspettare. Le tagliò la fettuccia degli slip e li buttò più in là. Le sue mani sull’interno delle cosce, che tiravano per farle allargare di più le gambe. Cosa che Brooklyn avrebbe anche fatto, se non avesse avuto le caviglie legate. Sperò che le liberasse una caviglia. Con una caviglia libera avrebbe avuto più possibilità. Non con lui, probabilmente, ma con quello dopo. Con quello dopo avrebbe potuto fingersi semi-svenuta e... «Voglio sentirti» disse l’uomo. Le liberò la bocca, una delle cose migliori che potesse fare. Brooklyn deglutì. Aveva la bocca secca, si leccò le labbra. «Chi sei?» chiese, con voce roca. Lui si slacciò la cintura. «Ora ti faccio sentire». «Sì, certo, l’avevo capito. Non sono d’accordo, eh. Se vuoi farlo lo stesso non posso fermarti, ma chi sei? Perché?». Calma, misurata. L’uomo ridacchiò e si riallacciò la cintura. Ora non ansimava più, notò Brooklyn. Prese qualcosa da un armadio e glielo buttò addosso. Una coperta. Si tolse il passamontagna. «Buona domanda. Sono il tenente Rico Cruz e la sua richiesta è stata accettata. Questa era l’ultima prova della selezione, caporale Wilson». Brooklyn deglutì. Si rese conto che il suo corpo era scosso da un leggero tremito. Ora, non prima. Il calo di tensione. «Signore». Cruz tagliò la corda che le legava una caviglia. Poi l’altra. Si chinò per liberarle i polsi con un’espressione cauta in viso. All’erta. Non aveva tutti i torti, perché Brooklyn aveva voglia di spaccargli la faccia, ne aveva davvero voglia. Si dominò. Si alzò a sedere senza curarsi di coprirsi con la coperta. Cruz prese qualcos’altro nell’armadio. Una pila di vestiti. Li posò sul letto accanto a lei. «Quello che aveva addosso glielo rimborseremo, se era roba di valore». «Non era roba di valore» disse lei. «Meglio così». Mentre lei iniziava a rivestirsi, Cruz andò alla porta. «Scott... abbiamo per caso un altro pacco di magliette? Questa fa schifo». «Sissignore» rispose una voce femminile. «Quella che portava può darla a me, la metterò all’asta su e-ba... la porterò in lavanderia, tenente». Brooklyn sentì una specie di grugnito. «Che linguaccia, Scott». «Ma no, è solo per alleggerire la tensione. Abbiamo una nuova compagna di squadra?». «Già. Caporale, è pronta?». Brooklyn si tirò su i pantaloni da ginnastica. Le mutande che le avevano procurato erano troppo larghe, come anche il reggiseno sportivo. «Sissignore». Si alzò in piedi. Aveva le gambe molli, ma riusciva a camminare. Sfoggiando indifferenza, andò fino alla porta. Erano sottoterra come pensava, in un seminterrato. Oltre la porta c’era un’altra stanza, illuminata da una lampadina nuda. Un tavolo a cui era seduto un tizio tra i venti e i trenta, afroamericano, in borghese. Era in borghese anche la donna che aveva parlato, Scott. Il tenente non si vedeva. E lei era... Brooklyn restò impressionata, perché nei marines non aveva mai visto una ragazza tanto bella. Capelli corti e riccioli, rosso-dorato. Labbra morbide, gambe lunghe, fisico perfetto – o così sembrava. Fu lei a rompere il ghiaccio. «Piacere, sergente Lynn Scott. Sarei la seconda in comando. Questo è il soldato di prima classe Bradley Cole». Brooklyn le strinse la mano. «Maggiore Wilson, piacere. Sono stati così tutti i test finali?». Cole emise un sospiro rassegnato. «A me mi hanno legato a faccia in giù». Scott ridacchiò. «Sembra irresistibile». «Perché non c’eri quando è toccato a Daniels» replicò Cole, impassibile. «Si sentiva solo il rumore del letto che sbatteva contro il muro. Fuori io e Fisher, agghiacciati. Finché Fisher non ha sussurrato: oddio, pensi che se lo stia sbattendo sul serio?». «Cole» giunse la voce di Cruz, in tono di rimprovero. Un attimo dopo rientrava nella stanza, con addosso una maglietta pulita. «Possiamo andare. La riportiamo alla sua macchina, maggiore. Si sente bene, sì?». «Sissignore». +++ Ricevette la lettera di trasferimento il mattino dopo. Prese la sua roba, chiuse la casa e mise tutto in macchina. L’addestramento si sarebbe tenuto da qualche parte sulle montagne, ma per il momento avrebbe alloggiato con il resto della squadra nella base di Quantico. Quello che era successo la sera precedente la lasciava ancora un po’ sconcertata. Che cavolo di sistema di selezione. Ma la sua volontà di far parte di una squadra di élite di marines destinati alle operazioni segrete era forte come non mai. Dopo la morte di suo fratello tutto le era sembrato senza senso per un pezzo. Ora sarebbe stata utile sul serio al suo paese. Ora avrebbe potuto fare davvero la differenza. La prima parte della giornata passò in pratiche burocratiche e visite mediche. Per entrare in quella squadra l’avevano esaminata così tante volte che ormai aveva perso il conto. A pranzo prese un tramezzino a un distributore automatico, poi andò a portare le sue cose nella stanza che avrebbe diviso con Scott. Infine a rapporto da Cruz. Anche il suo ufficio era provvisorio, dato che si sarebbero spostati di lì a un paio di giorni al massimo. In precedenza doveva essere stato usato come deposito temporaneo e una buona metà era ancora piena di casse. Nell’altra metà era stato piazzato un tavolino da campeggio con sopra un laptop. «Maggiore Wilson, si accomodi» le disse lui, sollevando lo sguardo dal monitor. Occhi verde chiaro, trasparenti come l’acqua dei Caraibi. Anche le parti restanti dovevano provenire da quelle parti, almeno a giudicare dal nome e dall’aspetto: capelli scuri rasati, pelle ambrata, faccia spigolosa e labbra carnose. Doveva aver superato i trentacinque, ma forse non aveva ancora doppiato la boa dei quaranta. Ora che lo vedeva in piena luce Brooklyn iniziò a capire lo scherzo di Scott sul rivendersi la sua maglietta sudata su e-bay: non era esattamente bello, ma era maschio da far paura. «Prego, si sieda». Brooklyn obbedì in silenzio. Non era una di molte parole, le chiacchiere non le venivano naturali. Era un’osservatrice. «Con lei la squadra è completa, quindi domani dovremmo partire per quindici giorni di addestramento al MWTC, California. Mi hanno già trasmesso tutta la documentazione relativa al suo stato di servizio, i test attitudinali, le cartelle mediche e le interviste fatte durante il processo di selezione, ma vorrei ancora parlarle un attimo». Brooklyn annuì. «Non credo nella psicologia, credo alle prove dei fatti. E non c’è bisogno di girarci attorno: la nostra squadra non andrà a raccogliere fiorellini di campo. Non posso spararvi addosso, quindi per capire come reagite a un’estrema pressione fisica e mentale ho usato lo stesso test che hanno usato con me prima del mio addestramento alle missioni speciali. Ieri sera lei è rimasta calma, maggiore Wilson. Vorrei che mi spiegasse che cosa ha pensato e qual era il suo piano, se ne aveva uno». Brooklyn si prese qualche secondo per riflettere. «Non avevo proprio un piano. Pensavo di aspettare finché non avessi avuto una possibilità di fare qualcosa. Se la avessi avuta, ecco. Altrimenti sarei stata tranquilla e avrei sopportato per diminuire... i danni collaterali». Entrambi rimasero in silenzio, così Brooklyn capì che avrebbe dovuto aggiungere qualcosa. «La possibilità più promettente era che l’aggressore mi slegasse una caviglia». Non riusciva a dire “che lei mi slegasse una caviglia”, le sembrava maleducato. «Perché, data la posizione in cui ero, forse avrebbe dovuto liberarmi almeno una gamba. Con una gamba avrei potuto mettere fuori combattimento un uomo meno in forma, presumo. E comunque sarebbero accorsi i due complici nell’altra stanza. Era solo... un vago piano, che consideravo irrealizzabile al novanta percento». «È una situazione in cui capisci di non poter vincere» confermò Cruz. «All’inizio pensavo di sopravvivere» considerò lei. «Ma poi ho visto gli occhi... mmm, i suoi occhi, in pratica». Cruz sbatté le palpebre. «Che cos’hanno i miei occhi?». Sembrava perplesso e forse anche un po’ seccato. «Le pupille erano strette, non larghe come avrebbero dovuto. E le sue mani non erano sudate». «Ah». «Quindi ho iniziato a pensare che ci fosse qualcosa di parecchio sbagliato. Più sbagliato, ecco. Però poi mi ha tolto il bavaglio e mi è tornato un po’ di ottimismo». Lui le rivolse un veloce sorriso. «Capisco. Grazie, maggiore. Può staccare fino a domattina». Brooklyn si alzò. «Grazie, tenente». Lui le fece segno che poteva andare, ancora pensieroso.
Free reading for new users
Scan code to download app
Facebookexpand_more
  • author-avatar
    Writer
  • chap_listContents
  • likeADD