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HARPER
«Sei in debito con me,» sbottò Cam.
Sentire la voce di mio fratello mi fece rabbrividire. Mi salì la bile in gola. Aveva cominciato a telefonarmi due settimane prima, ribadendomi il giorno in cui sarebbe stato rilasciato. Non avevo bisogno che mi venisse ricordato. Quella data era impressa nella mia mente e, ogni volta che guardavo il calendario, la vedevo avvicinarsi sempre di più.
In debito? Gli dovevo dei soldi per ciò che aveva fatto? La mia mano tremava nel tenermi il telefono all’orecchio. Non mi sorprendeva che mi avesse trovata. Di nuovo. Perfino con un numero di cellulare nuovo. Ero stata stupida a pensare che sarebbe bastato a tenerlo alla larga.
«Per cosa?» gli chiesi, la voce stridula. Cercai di sembrare calma perché lui adorava turbarmi. Sfruttava quella cosa, la prendeva di mira, proprio come prendeva di mira me, perfino da dietro le sbarre.
«Tutti i soldi che hai, li hai grazie a me.»
Avanzai a grandi passi fino alla finestra che dava sulla via trafficata. Mi ero appena trasferita in quell’appartamento, per cui c’erano solamente delle veneziane bianche di base per un po’ di privacy, ma le tenevo sollevate per lasciar entrare i deboli raggi del sole di dicembre. Col buio che calava in fretta e la consapevolezza che Cam fosse là fuori, seppur in galera, strattonai il cordino e ne tirai giù una. Poi l’altra e l’altra ancora lungo tutta la parete fino a quando non riuscii più a vedere fuori, fino a quando non mi trovai nel mio piccolo bozzolo dove nulla poteva raggiungermi. Già, come no. Mi strinsi un braccio attorno alla vita, sentendo improvvisamente freddo. Sentendomi sola.
«Mi hai consegnata a due criminali in cambio dell’annullamento dei tuoi debiti di gioco,» protestai, passandomi una mano in viso e tra i capelli. Me li ero raccolti quella mattina in maniera piuttosto artistica per lavorare, ma con una passata del palmo, li avevo scombinati tutti.
Non volevo discutere ancora di ciò che aveva fatto perché ne era ben consapevole, ma lui non pensava avesse importanza. Tesa, girai i tacchi e andai ad una scatola del trasloco aperta poggiata sulla mia scrivania. Una pianta era poggiata in bilico sopra una pila di prodotti da ufficio ed io la posai con un forte tonfo sulla superficie libera. Aveva bisogno d’acqua dopo essere stata trascurata per più di una settimana.
«Già, e non ti è successo nulla a parte l’aver ricevuto un sacco di soldi da mammina e papino.»
Non mi era successo nulla? Mi scostai il cellulare dall’orecchio e lo fissai. Avevo i palmi sudati e provai un dolore sordo sulla nuca.
«Mi hanno aggredita in un ascensore.»
«Non ti hanno violentata né niente del genere.»
Lo stupro era la sua linea guida per stabilire se fosse successo qualcosa. E la cosa mi dava il voltastomaco. Tutto di Cameron mi dava il voltastomaco. In quanto mio fratello maggiore, avrebbe dovuto essere il mio protettore, avrebbe dovuto tenermi al sicuro da roba come dei fidanzati troppo insistenti. Era stato uno stronzo sin forse dall’età dei terribili due anni e non aveva mai smesso nemmeno crescendo. Non avevamo mai giocato insieme una volta da piccoli, non eravamo nemmeno andati alla stessa scuola privata. Non avevamo mai stretto un legame con i videogiochi o nelle ore passate insieme sul sedile posteriore durante un lungo viaggio in macchina.
Invece, lui mi considerava più che altro un oggetto. Un oggetto che aveva consegnato a due uomini. Io vi ero sfuggita fisicamente illesa, ma non li avevano mai arrestati. Il caso era ancora aperto e loro erano ancora là fuori. Mio fratello non aveva intenzione di rivelare i loro nomi, sapendo che sarebbe morto se avesse parlato. Avrei dovuto far arrestare anche Cam, per via del suo coinvolgimento, e invece no.
I miei genitori avevano pensato solamente a lui e alla loro reputazione—il che non faceva che supportare le sue abitudini da drogato. Mi avevano costretta a tacere riguardo tutta quella “svendita fraterna” ed io avevo un’enorme riserva di soldi in banca come incentivo extra per farmi stare zitta a dimostrarlo.
Ero stata troppo traumatizzata all’epoca per oppormi. Avrei consegnato Cam alla polizia una volta che avessi smesso di avere costantemente gli incubi e non avessi più avuto tanta a ad uscire, ma lui era stato abbastanza stupido da farsi beccare poche settimane dopo come spacciatore ed era finito in galera lo stesso. Tutto da solo. I cari vecchi mamma e papà non avevano potuto fare niente al riguardo.
«Lasciami in pace,» dissi in tono piatto.
Il suo rilascio imminente era stato il motivo per cui mi ero trasferita. Di nuovo. Lui aveva saputo dove vivevo e, visto che sarebbe uscito, non mi ero sentita al sicuro. Presto sarebbe riuscito a presentarsi con chiunque. In qualunque momento.
No, quel luogo era più sicuro della mia vecchia casa più vicina al campus. Mi guardai attorno. Un edificio moderno e lussuoso. Tre piani, solamente tre appartamenti con un sistema di sicurezza efficace. Non solo il mio padrone di casa, Grayson Green—uno dei lottatori di arti marziali miste più famosi e di successo—viveva all’ultimo piano, ma c’era anche un altro ragazzo che lui allenava che possedeva l’unità di fronte alla mia al secondo. Al piano terra c’era un’intera palestra piena di uomini che non avrebbero esitato a pareggiare i conti per me. Se non altro era ciò che la mia amica, Emory, mi aveva detto. Avevo vissuto nel suo stesso isolato prima che lei si fosse trasferita da Gray, il suo fidanzato.
«Lasciarti in pace? Trasferiscimi i soldi e lo farò,» sbottò Cam. «E Harper--»
«Fottiti.» Terminai la chiamata, lanciando il telefono sul divano non volendo più sentire nulla da parte sua. Aveva trascorso quasi due anni a prepararsi a distruggermi di nuovo. Ora che il giorno del suo rilascio era imminente, sapevo che le telefonate erano solamente l’inizio. Perfino dopo aver cambiato numero, mi aveva comunque trovata.
Feci avanti e indietro per la stanza, aggirando scatoloni e pezzi di arredamento lasciati a caso dove li avevano posati i traslocatori. L’appartamento era open space, un’unica grossa stanza a parte la toilette, la camera da letto e il bagno principale. I soffitti erano alti, le finestre ampie che occupavano tutta la parete. Era moderno con un sacco di elettrodomestici in acciaio inox in cucina, ma era accogliente. Sicuro.
Mi ero trasferita una settimana prima e non mi ero ancora sistemata. Avevo messo insieme solamente il letto, gettato gli abiti in camera e trovato la macchinetta del caffè. Diamine, a giudicare da quella maledetta telefonata, dovevo chiedermi quanto sarei potuta restare. Avevo facilmente evitato i miei genitori dall’incidente, ma non bazzicavamo nella stessa sfera sociale. Io non passavo il mio tempo al circolo del country club. Ero troppo accademica, troppo pedante nel mio campo di studi per loro. Invece di fare l’avvocato, mi ero rifiutata di seguire la solita tradizione di famiglia dei Lane ed ero diventata una professoressa. Per loro, nonostante il mio dottorato di ricerca, non ero tanti gradini più in alto di una commessa del supermercato.
Quando Cam fosse uscito, sarebbe venuto a bussare alla mia porta per tormentarmi? O peggio, per strada? Nel cortile della scuola? Potevo restare a Brant Valley? Invece di sistemarmi in quel bellissimo appartamento, mi chiedevo quanto a lungo sarei stata in grado di vivere in città. Diamine, in quello stato.
La telefonata faceva tutta parte del piano di Cam di tormentarmi. Era un riscaldamento. Lo sapevo, ma non potevo fare a meno di dare di matto.
Mi ritrovai con la pianta in mano sotto il rubinetto del lavandino prima di rendermi conto di cosa stessi facendo. Non mi ricordavo nemmeno di averla presa e di essermi diretta in cucina. Chiusi gli occhi e respirai.
Non volevo i soldi di mammina e papino. Non volevo che i miei genitori facessero parte della mia vita più di quanto non volessi mio fratello, per cui avevo relegato quei soldi in banca dove nessuno avrebbe potuto toccarli. I miei genitori non avrebbero potuto riprenderseli e Cam non avrebbe potuto metterci le mani.
Avevano scelto loro figlio, con le sue azioni crudeli e pericolose, invece della loro figlia. E i soldi? Li avrei dati via tutti solamente per sbarazzarmi per sempre di Cam, ma non volevo arrendermi. Non avevo intenzione di cedergli quei soldi che mi avevano dato per tacere. Ed erano soldi consegnati solamente per farmi tacere.
Nessuno poteva sapere che Cameron Lane il Terzo aveva un problema di droga e che aveva consegnato la sua stessa sorella a degli spacciatori in cambio dell’annullamento dei suoi debiti. Quel genere di cose non capitava al country club e di sicuro non capitava ai miei genitori.
Ma era capitato a me.
Rendendomi conto di star annegando la pianta, chiusi l’acqua e mi allontanai dal lavandino. Chiusi gli occhi e gemetti ad alta voce. Stavo emanando ondate di frustrazione. Avevo chiuso con l’infilarmi nel letto e tirarmi le coperte sopra la testa. Avevo chiuso con le lacrime. Non ne avevo più. Avevo smesso di piangere due anni prima.
Entrando in camera da letto, scalciai via le scarpe col tacco, mi tolsi la gonna e la camicetta e recuperai gli abiti da ginnastica dalla pila nell’angolo. Di solito aspettavo fino a tarda serata per allentarmi, tornando prima a casa da lavoro per mangiare, ma avevo dell’energia in eccesso da bruciare. Avevo bisogno di eliminare l’angoscia correndo. Avevo cominciato a correre dopo l’incidente, la mia terapista aveva detto che allenarsi era come una valvola di sfogo su una pentola a pressione.
Non mi era piaciuto sentirmi paragonare ad un utensile da cucina, ma lo capivo. Ero stata pronta ad esplodere e correre mi aveva aiutata. Inizialmente non ero andata tanto lontano, più che altro camminando, ma ora, ora ero in grado di correre per delle ore, specialmente quando ero turbata. Dopo essermi infilata un elastico per capelli al polso, trovai le mie scarpe da corsa accanto alla porta, mi sedetti sul pavimento in legno e me ne infilai una allacciandomela con fin troppo vigore.
Ero al sicuro. Lo sapevo. Cameron era ancora in galera. Gli uomini che mi avevano attaccata avrebbero potuto tornare a cercarmi ben prima di allora se mi avessero ancora voluta. Per come la vedevo io, e per come la pensava anche la polizia, loro volevano Cam. Se così fosse stato, potevano prenderselo. Potevo solamente immaginare quanto gli sarebbe piaciuto venire aggredito da loro.
Il mio appartamento era sicuro. Gray mi aveva rassicurata di persona. C’era bisogno di carte magnetiche per l’accesso all’ascensore e alle scale di emergenza e solamente i quattro residenti le avevano. A Gray piaceva la sicurezza. Per quanto sapesse combattere, e combattere bene, gli piaceva usare i pugni solamente nel ring. Quelle erano state le sue parole quando mi aveva consegnato il mio pass, il che era stato rassicurante. E poi, non avrebbe mai messo a rischio la sicurezza di Emory. Io avevo vissuto in fondo alla sua via, eravamo state vicine di casa per tre anni quando avevo insegnato e portato a termine la mia tesi per il dottorato. Dopo l’incidente, non mi ero mai davvero sentita al sicuro. Emory aveva pensato a me per l’appartamento libero e mi aveva assicurato che fosse a prova di intrusi.
Ero al sicuro.
Ciò non significava che non fossi agitata, che non avessi gli incubi riguardo a ciò che era accaduto nell’ascensore. Di nuovo. Le poche telefonate di Cameron mi ci facevano sempre ripensare all’accaduto. L’ansia tornava sempre. Come in quel momento, quando avrei voluto correre fino a far cedere le gambe, fino a quando, speravo, non fossi stata troppo esausta anche solo per sognare.
Finendo di allacciarmi le scarpe, mi alzai, afferrai le chiavi della macchina, il pass dell’edificio e andai verso una delle pile di scatoloni. Un paio dovevano finire nel mio ufficio per la mia lezione di Arte Medievale del prossimo semestre, per cui avrei sfruttato la mia ansia per trascinarli fino alla mia auto per il giorno dopo. Ne impilai tre identici, carichi di libri, sul carrellino. Trascinandomelo dietro, uscii in corridoio e chiusi a chiave il mio appartamento. Guardai con desiderio la porta delle scale. Odiavo gli ascensori. Dopo ciò che era successo, mi ci erano voluti sei mesi per riuscire a prenderne di nuovo uno. Ora, riuscivo ad usarli, ma solo assieme ad altre persone, quelle di cui mi fidavo. O in spazi sicuri. Come quello che condividevo solamente con altre tre persone.
Non sarei mai riuscita a scendere le scale con le scatole e non avevo intenzione di fare tre giri. Tirandomi dietro il carrellino, trassi un respiro profondo e premetti il pulsante per il piano terra.
Ebbi comunque paura ad entrare quando le porte si aprirono. Ripensai ai due uomini che mi erano stati accanto, uno che mi premeva contro la parete, le sue mani che mi palpavano. L’altro aveva guardato, ridendo.
Scacciai i ricordi, entrai e premetti il pulsante per il piano terra. Cercai di allontanare la nausea. Avevo bisogno di calmarmi. Di rilassarmi. Di dimenticarmi di Cam. Di ciò che aveva fatto. Di ciò che voleva adesso. Avrei bruciato la mia rabbia sul tapis roulant nella palestra di Gray dal momento che faceva buio tanto presto. Non avevo intenzione di correre da sola fuori di sera. Non in quel periodo dell’anno.
Allenarsi funzionava sempre. Potevo farcela, potevo superare la telefonata di Cam, i pensieri viscidi di quegli uomini, di come uno mi avesse tenuta ferma mentre l’altro mi strappava la camicetta. Come avessi scalciato e lottato, rompendo il naso a qualcuno. Il sangue. Il panico. Il bisogno debilitante che le porte si aprissero per fuggire. La caduta sul terreno di marmo di fronte alla fila di ascensori. Il grido per attirare la sicurezza.
Mi ricordavo la sensazione delle loro mani rozze. Sentivo le loro voci dirmi che cosa avessero avuto intenzione di farmi. Sentivo il loro odore nauseante di acqua di colonia, di pessime sigarette.
Le porte dell’ascensore si aprirono. Io feci un passo e mi si mozzò il fiato quando vidi lui.
Lui.
Grande. Grosso. Coi tatuaggi. I muscoli spessi. La mascella squadrata. Lo sguardo arrabbiato. Emanava un’energia palpabile. Sembrava cattivo. Malvagio. Spietato. Aveva le mani strette a pugno e fece un passo verso di me, poi si immobilizzò quando mi vide. A quel punto la sua espressione cambiò, la sua rabbia che svaniva.
In ogni caso, mi fece paura da morire. Per un breve istante, pensai che avesse intenzione di farmi del male.
No. Quell’uomo non aveva in mente di trascinarmi in una stanza di albergo per violentarmi. Lui stava… cercando di andare al piano di sopra. Lo sapevo. Il mio cervello elaborò il fatto che vivesse nell’edificio o che se non altro avesse un pass per chiamare l’ascensore. Però no. Non aveva importanza. Scappa! Scappa! fu il mio unico pensiero.
No. Non potevo sembrare completamente pazza, non potevo lasciare che la mia paura mi controllasse. Lasciai andare un respiro profondo e mormorai, «Scusami.»
Lui indietreggiò, sollevando le mani di fronte a sé, ed io trainai il carrellino con le scatole nell’ingresso.
Sentii l’ascensore chiudersi, percepii quel tagliente senso di panico cominciare a svanire. Mi fermai sulla porta che dava all’esterno, fissando fuori attraverso il vetro. Guardando il nulla. Respirando. Cercando di placare il mio cuore impazzito. Era stato Cam a farmi quello. Mi faceva tremare, mi faceva avere paura di tutto. Perfino del mio vicino.
Ovviamente, quell’uomo intenso era il mio vicino. Avevo conosciuto Gray ed Emory. Mi avevano detto che il lottatore di Gray, Reed, viveva nell’altro appartamento al mio stesso piano, ma non l’avevo ancora incontrato. Ero stata due volte in palestra fino a quel momento—Gray offriva un abbonamento assieme all’affitto—e avevo visto diversi lottatori allenarsi nel ring mentre correvo sul tapis roulant, ma non sapevo quale di loro fosse lui. C’erano abbastanza ragazzi in forma, che tiravano pugni, calci e si rotolavano a terra nel tentativo di soffocarsi a vicenda da destare l’interesse delle ovaie di qualunque donna. Non avevo avuto idea che gli uomini sudati potessero essere tanto eccitanti.
Reed, però, non aveva nulla da invidiare a nessuno di loro. Perfino nonostante il panico, ne ero stata attratta. Forse era per quello che ero andata tanto nel panico. In quel breve istante, non avrei dovuto desiderare l’uomo che avrebbe potuto farmi del male. Se avessi eliminato i vari strati di paura, mi sarei ricordata la sua altezza, almeno dieci centimetri più di me. Capelli neri come la pece tagliati cortissimi, come se avesse usato lui stesso le forbici invece di andare dal barbiere. Aveva la pelle olivastra e un accenno di barba a increspargli la mascella squadrata.
E poi c’erano i tatuaggi. Sprazzi di colore e forme che gli salivano sulle braccia e non avevo dubbi che ce ne fossero stati altri nascosti sotto la maglietta. L’effetto generale era stato quello da cattivo ragazzo.
I suoi occhi scuri si erano spalancati di sorpresa nel vedermi, poi ancora un po’, probabilmente perché io l’avevo fissato con terrore. Con il naso storto e i segni a chiazze rosse sullo zigomo sinistro, sembrava aver combattuto vecchi e nuovi incontri. La maglietta bianca attillata gli si era appiccicata alla pelle per via del sudore, il colletto leggermente allentato come se qualcuno l’avesse strattonato un paio di volte, e indossava un paio di pantaloncini da allenamento neri a vita bassa. Era un lottatore, non uno stupratore.
Aprii la porta che dava all’esterno con più aggressività del necessario e strattonai il carrellino, trascinandolo fino al retro della mia auto. Senza dubbio Reed pensava che fossi pazza. Se non altro, che mi spaventasse a morte. Mi batteva ancora forte il cuore. Mi bruciava la gola dalla voglia di piangere, ma non c’erano lacrime. Era stato Cam a farmi quello. Perfino dopo due anni, perfino da una cella di prigione, aveva così tanto potere nei miei confronti. Mi stava ancora tormentando. Il mio lavoro, la mia vita, le mie relazioni. Quando fosse uscito…
Mentre infilavo le scatole nel bagagliaio della mia auto, dovetti chiedermi se sarei mai stata libera. E un tipo come Reed? Non ero una damigella in pericolo che valesse la pena salvare.