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2375 Words
2Città del Vaticano, ore 09.30 L’auto si aprì un varco tra la folla. L’abilità dell’autista, il lampeggiante e la sirena intimavano alla gente di spostarsi e, senza intoppi, la macchina si fermò ai piedi della scalinata principale della Basilica. Di scatto l’autista scese dall’auto e aprì la portiera a Tommaso Santini che emerse con tutta la sua imponente figura, alta oltre un metro e novanta. Gli occhi color ghiaccio ben si sposavano con i capelli brizzolati del cinquantenne che doveva all’assidua pratica sportiva la sua forma perfetta. Nella Basilica erano rimasti solo la sicurezza della Santa Sede e la Polizia di Stato Italiana che, per accordi fra i due Stati, offriva il supporto e la collaborazione che le veniva richiesta, di volta in volta, dagli inquirenti Vaticani. Tutti i fedeli, invece, erano ancora raccolti in piazza San Pietro, anche se gli altoparlanti ripetevano, ossessivamente, che quella mattina non avrebbe avuto luogo alcuna funzione e nessuna visita sarebbe stata permessa all’interno della Basilica. Nonostante la situazione fosse anomala, nessuno si lamentava o commentava l’accaduto, di contro, il Museo Vaticano e ogni altro settore della Città erano accessibili così che i visitatori potessero appagare la propria voglia di turismo cristiano. Santini passò indenne i primi controlli, ma venne fermato poco dopo il portone d’ingresso che consentiva l’accesso alla navata centrale della Basilica. Una vera e propria scena del delitto: Polizia e gendarmi ovunque, gli uomini della sicurezza vaticana e della Polizia scientifica italiana perlustravano ogni centimetro della Basilica, in cerca di qualsiasi dettaglio. Aleggiava una strana atmosfera: quella Basilica, centro della cristianità mondiale, non era mai stata così vuota e proprio nel giorno dedicato al ricordo e in onore della beatificazione di Papa Giovanni Paolo II che, quindi, prevedeva il massimo di affluenza. Un poliziotto si avvicinò a Santini chiedendogli i documenti che lui presentò con fare distratto. L’agente scrutò la foto che poco somigliava al suo possessore e il nome riportato era quanto di più anonimo potesse esistere per un italiano: Mario Rossi, come il John Smith americano. Ma fu la sigla dell’organizzazione di appartenenza che lasciò dubbioso l’agente: I.S.R.C. «Signor Rossi» disse l’agente, «questo documento non indica che siete autorizzato a entrare, la zona è circoscritta alla sicurezza vaticana e alla Polizia. Qui c’è scritto che lei fa parte dell’ISRC. Mi perdoni, ma non conosco quest’agenzia.» «La sigla sta per Investigazioni per la Santa Romana Chiesa, anche se la traduzione non è del tutto fedele, agente» rispose il Rossi della situazione «ma chiami pure l’Ispettore Generale Wolfang della Gendarmeria Vaticana. Non è certo a lei che devo spiegare il mio grado poiché ci troviamo sul suolo del mio Stato.» Il poliziotto si rigirò il documento tra le mani, era evidente che era indeciso su come comportarsi. Nel dubbio fece per chiamare qualcuno alla radio, ma la scena era stata seguita dall’Ispettore Generale, Aaron Wolfang, che lo fermò. Con un marcato accenno tedesco si rivolse a Santini. «Ti stavamo aspettando, Tom. Agente, lo lasci passare.» La stretta di mano che si scambiarono avrebbe stritolato chiunque. «Che è successo, Aaron?» chiese Santini, «mi avete fatto venire qui pubblicamente e in violazione del protocollo con il rischio di bruciare la mia copertura.» «Lo so!» rispose Wolfang portandosi l’indice alle labbra, come per zittirlo, mentre s’incamminavano lungo la navata. «È una dannata emergenza, amico mio, eccezionale emergenza. Tu sai che devo chiedere l’autorizzazione diretta del Santo Padre per condurre indagini di omicidio all’interno dello Stato ed è stato proprio Lui che mi ha chiesto di chiamarti. Non ho avuto scelta.» «Un omicidio proprio in Vaticano, incredibile!» Santini era perplesso. «Ma perché il Santo Padre ha chiesto qui la mia presenza, con tutta questa gente? Lui conosce la mia posizione e, a dirla tutta, non credo abbia avuto una grande idea.» «E invece vuole che tu sia presente e questo vale anche per me e, tanto per ricordartelo, il Papa non può essere messo in discussione. A proposito» proseguì il tedesco, «che storia è quella dell’I.S.R.C.?» «Ah! Ho con me solo quella tessera e l’unica cosa che mi è venuta in mente è stata quella di inventare un’agenzia investigativa del Vaticano. Di solito funziona. O avresti voluto che gli dicessi chi sono?» Wolfang rise a denti stretti. «No, certo! Ma che diavolo significa quella sigla?» «Istituto Superiore Ricerche Comunitarie! Non ho trovato una spiegazione diversa dell’acronimo. A quanto pare, però, ha funzionato.» Wolfang si lasciò andare a una sana risata. «Hahaha! No che non ha funzionato, quello stava per chiamare rinforzi.» Giunsero alla scalinata che portava alle tombe vaticane e Wolfang si fermò prendendo sotto braccio l’amico, sussurrandogli all’orecchio. «Da questo momento tu sei della Gendarmeria. Inventati un nome di fantasia, uno qualsiasi e che non dia nell’occhio. Evita di chiamarti Mario Rossi, non ci crederebbe nessuno e, mi raccomando, non fare o dire cazzate, intesi? Qui c’è mezza Polizia di Roma e anche alcuni Magistrati italiani.» Santini era scettico. «Ma qui siamo nella nostra giurisdizione, perché questo intervento massiccio di esterni? Ce la possiamo cavare benissimo da soli e tu lo sai. Digli che prendiamo noi in mano l’indagine e che vadano per la loro strada.» «No, Tom» riprese Wolfang. «La legge vaticana prevede che i casi di omicidio siano di competenza della magistratura italiana. Abbiamo meno di ottocento abitanti su cui cade la nostra giurisdizione, su qualsiasi reato che non comprenda l’omicidio. È il terzo caso di omicidio in tutta la storia dello Stato, ma questo è un omicidio eccellente, Tom, che rischia di destare sospetti interni. Dobbiamo collaborare con gli inquirenti italiani per fare in modo che non ficchino troppo il naso. Se pensano che chi ha commesso tutto questo possa essere qualcuno all’interno del Vaticano, qui mettono le tende e il Segretario di Stato mi ha già fatto intendere che, questo, è meglio evitarlo.» «Capisco» rispose. «Ho ricevuto il messaggio, forte e chiaro.» I due presero a scendere le scale, la zona della lapide incriminata si trovava alla fine della scalinata e all’inizio del corridoio. Anche lì c’erano almeno una ventina di poliziotti, Polizia scientifica e gendarmi, tutti intenti a fotografare la scena e cercare indizi. Di fronte alla lapide due persone discutevano animatamente. Santini ne riconobbe una, era il Commissario Giorgio Ayala, l’ufficiale della Polizia italiana autorizzato al collegamento con la Gendarmeria vaticana, l’altro era certo un magistrato, anzi, una magistrata. E proprio la donna suscitò in lui maggiore curiosità. Capelli neri e corti; come la gonna, corta abbastanza da far risaltare le gambe da urlo sostenute da un tacco di media altezza che contribuiva a renderla così sexy. Poi riuscì a ritornare in sé ma, soprattutto, riprese coscienza del luogo Santo in cui si trovavano e dell’occasione che non poteva certo definirsi la più adatta ad alimentare idee strampalate che, per un attimo, gli avevano sfiorato la mente. Wolfang lo presentò ai due. «Questi signori sono il Commissario Giorgio Ayala della Questura di Roma e la dottoressa Sonia Casoni, Sostituto Procuratore, della Procura del Tribunale di Roma. Lui è…» «Giovanni Rana, della Gendarmeria Vaticana» intervenne Santini, «piacere di conoscervi.» Wolfang fece un gesto di stizza e, congedandosi cortesemente dai due, prese sotto braccio l’amico portandoselo in disparte. «Ma che cazzo hai intenzione di fare?» gli chiese. «Non capisco!» rispose Santini. «Non capisci?» tuonò infuriato Wolfang. «Non sai che Giovanni Rana è quello dei tortellini?» «Certo che lo so» rispose Santini con la faccia da ingenuo, «mi hai detto tu di usare un nome di fantasia e Giovanni Rana mi sembrava adatto per sviare qualsiasi sospetto.» «Ah sì? Bravo!» gli fece eco l’amico. «Immagino che nessuno faccia caso che ti chiami come un produttore di tortellini famoso in tutto il mondo. Dai, non fare lo stronzo e lascia stare i nomi, evita che è meglio.» Tornarono dai due mentre il Commissario Ayala si era allontanato dal gruppo per dare disposizione ai propri uomini. Wolfang prese in mano la discussione. «Il corpo è stato trovato verso le ore nove, dopo che un bambino e sua madre avevano notato che la lapide era spostata fuori dalla sua sede. Abbiamo provveduto subito a isolare il settore e, aprendola, ci siamo trovati di fronte a questo scenario.» Il corpo ben conservato dell’antico Papa appariva nella posizione classica: ben vestito con le mani incrociate e avvolte da una collana d’oro con un antico crocefisso in cui vi erano incastonate pietre di valore inestimabile. Ai piedi di quel Santo eminente, l’altrettanto eminente Monsignor Angelo Paolini giaceva sul fianco sinistro in posizione fetale. I due cadaveri trovavano agevolmente posto all’interno della grande tomba, abbastanza lunga da contenerli entrambi per via della loro piccola statura. Sembravano quasi addormentati: uno appariva ben conservato per l’imbalsamazione e l’altro non presentava alcun segno particolare o ferita. Il colore roseo del volto del Monsignore poteva indicare che il rigor mortis non era ancora iniziato, ma poteva anche essere causato da quell’ambiente freddo e assai scarso di umidità. Per conoscere la causa della morte, però, andava eseguita un’autopsia. Lo Stato Vaticano odiava le autopsie sui propri membri illustri e Santini era certo che la Chiesa si sarebbe opposta con tutte le forze. «Sua Eminenza è morto altrove» proseguì Wolfang indicando una macchia scura sulla parte alta del volto, «questa ecchimosi dimostra che ha battuto la parte destra della testa sul pavimento mentre ora è stato riposto sul fianco sinistro, in ordine e con gli abiti puliti.» «Tracce?» chiese Santini. «Nessuna!» rispose la magistrata con voce ferma e il chiaro intento di riprendere il controllo dell’indagine. «Abbiamo fatto setacciare dalla scientifica ogni zona della Basilica. Non abbiamo trovato nulla, a parte i segni lasciati da almeno qualche milione di scarpe; non è certo facile isolare eventuali tracce utili in un posto come questo. Chi ha fatto questo sapeva il fatto suo. Questo posto immagino non sia mai completamente deserto? Non si comprende come abbiano fatto a muoversi senza essere scoperti e nemmeno come è morto e dove.» «Non qui!» sentenziò Santini. «Non l’hanno ucciso qui, ma lo hanno portato percorrendo, tra l’altro, un sacco di strada.» «Che vuoi dire?» chiese Wolfang. «Sua Eminenza era uno studioso, uno scienziato» proseguì Santini, «patito del suo lavoro ed era uno dei custodi della Biblioteca Vaticana.» Pensò un attimo, poi chiese: «Dov’è il Bibliotecario?» Wolfang rispose che immaginava fosse, come al solito, presso l’archivio della Biblioteca. Le caratteristiche e l’incarico dei custodi prevedevano che potessero uscire raramente dal perimetro di loro competenza, vivendo quasi sempre nell’archivio. Tutti e tre i custodi avevano le loro stanze all’interno di quell’area, inoltre il loro giuramento imponeva di non parlare con nessuno del proprio lavoro. Solo il Bibliotecario della Santa Romana Chiesa, il Cardinale Joseph Mhouza, era autorizzato a condurre rapporti esterni. «Rintracciamolo, dobbiamo ispezionare la Biblioteca!» fu la richiesta perentoria della dottoressa Casoni. «Non è possibile» precisò Wolfang, «per entrare nell’archivio serve l’autorizzazione diretta del Papa, poi quella della Commissione e del Bibliotecario. Inoltre, ci si deve dotare di un abbigliamento particolare, per via dell’aria rarefatta e le condizioni ambientali sfavorevoli, altrimenti si rischia di contaminare il suo contenuto.» «Beh, ora ci sono le condizioni per chiedere che le regole vengano accantonate, almeno per il momento.» Fece notare Santini indicando il cadavere del Vice Prefetto. «Capisco le vostre leggi e regole, signor Wolfang» riprese la dottoressa Casoni, «ma qui siamo in presenza di un omicidio di un eminente esponente del vostro Stato con giurisdizione del caso in capo alla magistratura italiana. Potrei emettere un mandato…» «Non mi faccia ridere, dottoressa» tuonò Wolfang alterandosi non poco, tanto che pareva Hitler in persona, «lo Stato Vaticano è sovrano e nessun mandato potrà mai esservi concesso, tanto meno per entrare in un luogo così importante.» «Calma, Aaron! La dottoressa ha ragione.» Intervenne Santini sedando gli animi. «Dobbiamo capire se Monsignor Paolini è stato in Biblioteca, cosa ha fatto e dove è andato, dobbiamo ricostruire tutti i movimenti delle sue ultime ore di vita. Chiamiamo il Bibliotecario, lui saprà agevolarci per ottenere le autorizzazioni necessarie senza infrangere alcuna regola. Siamo in una situazione eccezionale, l’hai detto anche tu e dobbiamo ottenere queste informazioni. Per fare questo» rivolgendosi alla magistrata, «non sarà necessario alcun mandato.» Wolfang si calmò acconsentendo, dando così l’impressione di dover obbedire a un ordine, piuttosto che a una convinzione personale. Avvicinò il microfono al viso e diede disposizioni sussurrandole in una lingua incomprensibile. Qualcuno, dall’altro capo, rispose in tedesco. La magistrata assunse un’aria interrogativa. Santini puntualizzò. «È tedesco! La Gendarmeria e le guardie svizzere parlano solamente in tedesco. Però quando ci si rivolge ai monsignori, ai cardinali o al Papa, si deve usare il latino. È la regola!» Alla Casoni non sembrò importare di quella breve lezione, ma per la prima volta, da quando l’aveva incontrato, gli rivolse un sorriso. Santini sapeva che la sua stazza e lo sguardo erano inquietanti, per non parlare degli occhi color ghiaccio. Gli davano un’aura quasi spettrale e misteriosa, per cui prese quel sorriso come un segno di simpatia. Certo, però, il nome di Giovanni Rana era talmente falso da suonare come una presa in giro che di certo a lei non sarebbe andata a genio. Quasi gli avesse letto il pensiero, la magistrata gli chiese. «Il suo nome è molto conosciuto, signor Rana, tratta anche prodotti alimentari?» «Hahaha! A lei non la si fa, vero?» rispose lui sorridendo con più denti di quanti avesse mai pensato di possedere, quasi fosse stato scoperto nel compiere chissà quale marachella. Quindi, ammise: «Avrei dovuto immaginare che alla magistratura italiana non si possono raccontare le bugie.» Santini guardò Wolfang in faccia e rise, mentre proseguiva. «In realtà mi chiamo Tommaso Santini e sono… no! Questo proprio non glielo posso dire. Comunque non volevo mentirle, è stato l’Ispettore Generale che mi ha detto di fornire un nome falso.» Wolfang lanciò a Santini una di quelle occhiate che avrebbero incenerito chiunque e si accinse a precisare. «Le chiedo scusa dottoressa, il mio collega è alquanto bizzarro, per non usare un’altra definizione. Però si dovrà accontentare di questo. Come dicono tutti: questioni di sicurezza nazionale!» La Casoni fece una smorfia, come a dire: Non c’è niente di meglio che la sicurezza nazionale per destare immediatamente la mia curiosità. Stava per ribattere quando la radio riprese a parlare tedesco. «Hanno trovato il Bibliotecario e il Prefetto» comunicò sconvolto Wolfang quasi balbettando, «nelle loro stanze… anche loro morti!»
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