PROLOGO
L’uomo sedeva nella propria auto, in preda alla preoccupazione. Sapeva di dover fare presto. Quella notte era importante mantenere tutto sotto controllo. Ma la donna sarebbe comparsa lungo quella strada alla sua solita ora?
Erano le undici di sera e gli rimaneva poco tempo.
Ricordò la voce che aveva sentito rimbombare nella testa, prima di arrivare lì. Era quella del nonno.
“Sarà meglio che non ti sia sbagliato sui suoi piani, Scratch.”
Scratch. All’uomo nell’auto non piaceva quel nomignolo. Non era il suo vero nome. Era quello dato al diavolo, secondo un racconto popolare. Per il nonno, lui era sempre stato un “seme cattivo.”
L’uomo l’aveva chiamato Scratch più a lungo di quanto riuscisse a ricordare. Sebbene tutti gli altri lo chiamassero col suo vero nome, Scratch era rimasto impresso nella sua mente. Odiava suo nonno. Ma non riusciva a scacciarlo dalla propria testa.
Scratch si allungò e si schiaffeggiò il cranio per diverse volte, provando a cancellare quella voce.
Alla fine si fece male e, per un istante, riuscì a provare un senso di calma.
Poi udì la risata soffocata del nonno riecheggiare lì da qualche parte. Ora era un po’ più debole, quantomeno.
L'uomo tornò a guardare ansiosamente l'orologio: le undici erano passate da pochi minuti. Sarebbe stata in ritardo stasera? Sarebbe andata altrove? No, non era affatto da lei. Aveva registrato i suoi movimenti per giorni. Era sempre stata una donna puntuale, molto legata alla propria routine.
Se solo lei avesse compreso quanto ci fosse in ballo. Il nonno lo avrebbe punito in caso di fallimento. Ma c’era molto di più. Per il mondo intero stava scadendo il tempo e lui aveva un’enorme responsabilità, che gli pesava enormemente.
Apparve la luce dei fari di un'auto, in lontananza, lungo la strada, e l'uomo sospirò di sollievo. Era certamente lei.
Quella strada di campagna conduceva soltanto a poche abitazioni. Era spesso deserta a quell’ora, fatta eccezione per la donna che tornava dal lavoro alla casa, in cui era in affitto.
Scratch aveva fatto inversione con l’auto, per trovarsi di fronte a quella della donna, e si era fermato proprio nel bel mezzo di quella piccola strada sterrata. Era fuori, con mani tremanti, e fingeva di controllare nel cofano dell'auto con una torcia, sperando che l'inganno funzionasse.
Il cuore batté forte, mentre l’altro veicolo incrociava il suo.
Fermati! implorò silenziosamente. Per favore, fermati!
Pochi istanti dopo l’altra auto si arrestò a breve distanza.
Trattenne un sorriso.
Scratch si voltò e guardò verso le luci. Sì, era la sua piccola auto trasandata, proprio come aveva sperato.
Ora, doveva soltanto attirarla verso di lui.
La donna abbassò il finestrino; l'uomo guardò nella sua direzione, sfoggiando il suo sorriso più gradevole.
“Credo di essere rimasto bloccato” esclamò.
Puntò brevemente i fari sul volto dell'interlocutore. Sì, era senz’altro lei.
Scratch notò che la donna aveva un'espressione aperta e ricca di fascino. Ma soprattutto, era molto magra, il che si sposava alla perfezione con il suo scopo.
Era un peccato, quello che stava per farle. Ma come il nonno diceva sempre: “E’ per un bene più grande.”
Era vero, e Scratch lo sapeva. Se solo la donna avesse potuto comprendere, forse si sarebbe persino sacrificata. Dopotutto, il sacrificio era una delle migliori caratteristiche della natura umana. Lei doveva essere contenta di servire a tale scopo.
Ma l’uomo sapeva che non poteva attendersi tanto. Le cose sarebbero diventate violente e caotiche, proprio come accadeva sempre.
“Che problema ha?” la donna chiese.
L'uomo notò qualcosa di affascinante nel suo modo di parlare, senza riuscire ad individuarlo compiutamente.
“Non lo so” rispose laconicamente. “Si è appena spenta.”
La donna sporse la testa fuori dal finestrino, consentendogli di guardarla dritto negli occhi. Il suo volto lentigginoso era incorniciato da riccioli rossi, vivace e sorridente. Non sembrava turbata da quell'imprevisto.
Ma si sarebbe fidata abbastanza da scendere dall’auto? Probabilmente si, almeno stando a come si erano comportate le altre donne.
Il nonno gli ripeteva sempre quanto lui fosse orribilmente brutto ed aveva finito per essere d'accordo. Ma sapeva che gli altri—specialmente le donne—lo trovavano piuttosto gradevole da guardare.
Poi, gesticolò verso il cappuccio aperto. “Non so nulla di auto” gridò.
“Nemmeno io” la donna rispose.
“Ecco, forse insieme possiamo cercare di capire che cosa c’è che non va” le disse. “Le dispiace, se facciamo un tentativo?”
“No, affatto. Ma non si aspetti che io sia di grande aiuto.”
Lei aprì lo sportello, scese dall’auto e si diresse verso di lui. Sì, tutto stava procedendo alla perfezione. L’aveva attirata fuori dalla propria auto. Ma il tempo era ancora un fattore essenziale.
“Diamo un'occhiata” gli disse, avvicinandosi e guardando il motore.
In quell'istante lui capì che cosa apprezzava della sua voce.
“Ha un accento interessante” osservò. “E’ scozzese?”
“Irlandese” fu la gentile risposta. “Sono qui da soltanto due mesi, ho ottenuto la carta verde, così da poter lavorare qui con una famiglia.”
Le sorrise. “Benvenuta in America”.
“Grazie. L’adoro già.”
Lui indicò verso il motore.
“Aspetti un attimo” disse. “Di che cosa pensa si tratti?”
La donna si abbassò per dare un’occhiata più approfondita e l'uomo ne approfittò per lasciare cadere il cofano sulla sua testa con un colpo.
Lo sollevò poi, sperando di non doverla colpire di nuovo. Per fortuna, era svenuta e giaceva inerte distesa sul motore, a faccia in giú.
Si guardò intorno. Non c’era nessuno nei paraggi. Nessuno aveva assistito alla scena.
Tremò per la gioia.
La prese tra le braccia, notando che il volto e la parte anteriore del suo vestito ora erano impregnati di grasso.
La donna era leggera come una piuma.
Girò intorno alla sua auto, aprì lo sportello e la depose sul sedile posteriore.
Era certo che sarebbe ben servita al suo scopo.
*
Non appena Meara cominciò a riprendere conoscenza, si sentì quasi aggredita da dei rumori assordanti; sembrava che intorno a lei rimbombasse ogni sorta di suono che si potesse immaginare: gong, campanelli, cinguettii e melodie assortite, che parevano provenire da una dozzina di carillon. Tutti quei suoni sembravano ostili.
La donna aprì gli occhi, senza però riuscire a concentrare lo sguardo su qualcosa. La testa le scoppiava quasi per il dolore.
Dove mi trovo? si chiese.
Era da qualche parte a Dublino? No, era in grado di ricostruire un po’ di quadro cronologico. Era arrivata lì due mesi fa e aveva subito cominciato a lavorare. Era senz’altro in Delaware. Con uno sforzo, ricordò di essersi fermata ad aiutare un uomo con la sua auto. Poi, qualcosa era accaduto. Qualcosa di brutto.
Ma che cos’era quel posto, con tutti quegli orribili rumori?
Si rese conto consapevole del fatto che era trasportata come un pacco. Sentì la voce dell’uomo che la stava trasportando, che parlava al di sopra del frastuono.
“Non preoccuparti, siamo arrivati qui in tempo.”
Gli occhi cominciarono a mettere a fuoco la zona circostante. Vi era un’incredibile quantità di orologi di ogni grandezza, forma e stile concepibili: c'erano imponenti pendoli, altri orologi più piccoli, alcuni dei quali a cucù; ne notò altri dotati di piccole serie di uomini meccanici. Orologi ancora più piccoli erano stipati su delle mensole.
Tutti stanno scoccando l’ora, comprese.
Ma in tutto quel caos sonoro, non riusciva a decifrare l’esatto numero di gong e campanelli.
Voltò la testa, per vedere chi la stava trasportando. L'uomo la guardò. Sì, era quello che le aveva chiesto aiuto. Era stata una sciocca a fermarsi per lui. Era caduta nella sua trappola. Ma che cosa le avrebbe fatto?
Mentre il suono degli orologi cessava, si accorse che non riusciva a tenere gli occhi aperti. Si sentì svenire.
Devo restare sveglia, pensò.
Avvertì poi un tintinnio metallico, e si accorse di essere stata delicatamente deposta su una superficie rigida e fredda. Ci fu un altro tintinnio, seguito da passi, e infine una porta si aprì e si chiuse. La moltitudine di orologi continuava a ticchettare.
Poi, sentì un paio di voci femminili.
“E’ viva.”
“Male per lei.”
Le voci erano sommesse e roche. Meara riuscì ad aprire di nuovo gli occhi. Vide che il pavimento era solido e grigio. Si voltò dolorosamente, e vide tre forme umane sedute sul pavimento vicino a lei. O almeno, credeva che fossero umane. Sembravano giovani donne, adolescenti, ma erano magrissime, più che scheletriche: le loro ossa s’intravedevano chiaramente sotto la pelle. Una di loro pareva a malapena cosciente, con la testa pendente in avanti e gli occhi fissi sul pavimento grigio. Le rammentavano alcune foto di prigionieri nei campi di concentramento.
Erano ancora vive? Sì, dovevano esserlo. Le aveva appena sentite entrambe parlare.
“Dove siamo?” Meara chiese.
Riuscì a stento ad udire la risposta, debole come un sibilo.
“Benvenuta” una delle ragazze rispose, “all’inferno.”