2.
Martedì.
Alle sei di sera al bancone dell’Hugo Palace c’era un altro concierge. Questo riuscì a capire da solo che Lenny e Leona erano l’uno l’abbreviativo dell’altro e la indirizzò verso l’ascensore per casa Kelsey senza fare storie.
Questa volta Byron le andò ad aprire nella sua tuta personale del Chelsea. Doveva essere rientrato da poco dagli allenamenti e sapeva ancora di doccia schiuma.
«Ciao. Sono un po’ in ritardo, stavo finendo di mangiare. Ti va dell’insalata con noci?».
Lenny non trattenne un’espressione scettica.
«Non è male come sembra» aggiunse Byron.
«Ma per fortuna ho già cenato, così non dovrò mai scoprirlo».
Byron la precedette in una cucina tutta tecnologica dai pensili rosso fuoco. Azzerò l’audio di una TV appesa al muro e si risedette all’isola, su uno sgabello nero e cromato. Davanti aveva una tovaglietta con un piatto pieno di un’insalata colorata, con dentro diverse noci sgusciate e pulite. Da bere, acqua.
Lenny si arrampicò su un altro sgabello cromato e posò sul ripiano la propria borsa da postino.
«È sempre così?» gli chiese.
Byron si strinse nelle spalle. «Mangio anche molta carne magra, pesce, un po’ di frutta, molta verdura verde... per il dolce, cioccolato amaro e yogurt senza zucchero».
«Non voglio girare il coltello nella piaga, ma se il cioccolato è amaro e lo yogurt è senza zucchero non sono dolci».
Lui la guardò male. «Seh, lo so».
Lenny tirò fuori il registratore e lo accese.
«Quindi la dieta che cos’è? Fa parte della fatica?».
Lui si strinse di nuovo nelle spalle. «Non so. Ormai è un’abitudine. Sai, una volta era diverso. Fino a una quindicina di anni fa trovavi calciatori un po’ troppo magri, o addirittura con una certa buzzetta. Ma ora si gioca un calcio più veloce, più muscolare».
«L’ho sentito dire. E, intendiamoci, suppongo che sia lo stesso per un maratoneta, e oltretutto guadagna molto meno».
Lo vide finire di ingurgitare l’insalata, per poi tagliare in quattro una mela e iniziare a sbucciarla.
«Vero».
«Resti a dieta anche d’estate?».
Le rivolse un lieve sorriso. «Non dovevamo volare alto?».
Sorrise anche Lenny.
«Marcel Mauss, uno dei padri dell’etnologia francese, nel ’34 ha scritto un libro poi diventato un classico dell’antropologia e della sociologia: Le tecniche del corpo. In questo e in altri libri viene elucidata l’idea di “incorporazione”. L’incorporazione è uno dei concetti che possiamo usare per descrivere il nostro “essere nel mondo”. La società cerca di imprimere nel corpo dei suoi componenti i segni della propria presenza. Il corpo, infatti, è culturalmente disciplinato».
«Ora me lo spieghi, giusto?».
«Aspetta. Secondo questa visione, tutte le società plasmerebbero i loro membri secondo un proprio modello ideale di umanità. Tatuaggi, perforazioni, pitture, circoncisioni… sarebbero tutte pratiche finalizzate all’antropopoiesi, cioè “fabbricazione dell’essere umano” da parte della società».
«Che cosa c’entra con la mia dieta?».
«Tutto. Quello che sto cercando di dire è: il tuo corpo è scolpito dalle aspettative sociali, cioè dalla funzione che è chiamato a ricoprire anche a livello simbolico, e a sua volta plasma l’immaginario collettivo. Vedi le ripercussioni?».
«Cristo, no. Non sto capendo un cazzo».
Lenny si mise a ridere e, dopo un istante, rise anche Byron per l’assurdità della loro conversazione monodirezionale.
«Finisci la mela. Dopo, se me lo permetti, ti spoglio un po’».
Lui le lanciò un’occhiata infelice. «Ho come l’impressione che non mi ricambierai il favore».
Lenny rise di nuovo. «Dovresti esserne grato, fidati. Per fortuna la cellulite non è contagiosa».
Byron avrebbe anche ribattuto, ma lei gli indicò la mela con espressione severa e lui finì di mangiare.
Bevve un po’ d’acqua, si pulì le mani al lavandino e se le asciugò su uno strofinaccio.
«Quindi... mi vuoi spogliare. Non dovremmo andare in un posto più comodo?».
Lei rise e scosse la testa. «Ti giuro che non ti spoglierò così tanto, ma se vuoi possiamo spostarci in salotto. Poi potresti toglierti la casacca della tuta».
Se la tolse mentre cambiavano stanza, per poi lanciarla appunto sul divano.
«Tutto qua?».
«Okay, guarda. Ci basta anche solo un braccio. Incorporazione, tecniche del corpo, antropopoiesi. Iniziamo dall’incorporazione: la muscolatura, i tatuaggi, persino... mmm... la depilazione?».
Byron mise su un’aria un po’ offesa. «È per motivi sportivi».
Lei sorrise. «E per mostrare i tatuaggi».
«Insomma, cioè... okay, anche per quello».
«Non ti sto giudicando, ti sto studiando. La nostra società propone un modello: lo sportivo. È un modello quasi inumano, che pochi hanno la perseveranza e la genetica per raggiungere. Non un grammo di grasso, vene che spiccano come corde su una muscolatura perfettamente armonica. E i tatuaggi, che sono un costrutto sociale, una decorazione alla moda e sottolineano questa perfezione, rimarcando nel contempo un messaggio: volontà, resistenza, abnegazione».
«Sarebbero maori» specificò lui, un po’ intimidito.
«Sono maori quanto lo sono io. Ma non conta, perché è l’idea, no? Tatuaggi da guerriero per un guerriero del campo da calcio. Aggressivo, dominante, eccetera, eccetera».
«Sapevo che mi avresti dato del coglione, prima o poi».
Lenny rise e lui, un po’ controvoglia, sbuffò.
«Non prendertela. Li trovo molto belli, sul serio. Ma stavamo parlando dell’incorporazione. La società che ti spinge a voler essere in un certo modo, per motivi pratici, ma anche per motivi estetici... che poi sono pratici anche quelli, in un’ottica darwiniana».
«Ossia? Non mi estinguerò?».
«Sei perfettamente attrezzato per trasmettere il tuo patrimonio genetico. Che tu ti stia estinguendo è un altro argomento interessante, ma ora ci porterebbe fuori strada».
«Ma certo. Posso abbassare il braccio?».
«Nessuno ti ha detto di alzarlo, tra l’altro».
«Che antipatia».
Lenny gli rivolse un sorriso di scuse e gli girò attorno. «Le tecniche del corpo. Il tuo corpo ha uno scopo. Immaginiamo di esaminare le tue gambe come abbiamo esaminato le tue braccia. Sarebbe ancora più evidente. Ma poi è tutto, no?».
«In pratica vuoi vedermi nudo».
Lenny rise. Gli piaceva il suo spirito. Gli piaceva come contrattaccava sotto stress. D’altronde era un campione, anche quello faceva parte del pacchetto: saper reagire alle avversità.
«Ogni parte di te è... lavorata, non saprei come altro definirla».
«Noi calciatori cafoni diciamo “allenata”».
«Sì, giusto. Allenata. Se tiri un calcio a una palla sviluppi una certa forza, riesci a correre per novanta minuti... non so. Non voglio sminuire, voglio solo riassumere. Il modo in cui tiri calci... tutti i modi in cui sai farlo... è una tecnica mediata dal tuo corpo. Se fossi flaccido e deboluccio non lo faresti con la stessa efficienza».
«Okay, su questo ti do ragione».
«E arriviamo all’antropopoiesi. Il ragazzo che vede questo corpo, il tuo corpo, sul cartellone di... che cos’è, la Nike?».
«Mh-mh».
«E pensa: è così che voglio diventare. La ragazza che ti vede su quel cartellone e pensa: è così il tizio che voglio farmi, e alza un po’ l’asticella dei suoi standard, inguaiando una legione di magrolini, pallidini e con la buzzetta».
«No, guarda, non è colpa mia se...»
«Sh-sh. Non dire banalità».
«Ma invece le dico!» insorse lui. «Mi alleno costantemente, mi sono rotto ogni legamento, non mangio un budino dall’85... un budino, mica un hamburger di McDonald! Sto pagando per quello che ho!».
Lei rise, era impossibile evitarlo. Byron la guardò male, riprese la propria felpa con un gesto sdegnoso e se la rimise.
Lenny si sedette sul divano e gli fece segno di farle compagnia. «Non metto in dubbio che tu stia pagando. Credo che lo spirito di sacrificio faccia parte dei motivi per cui sei dove sei. Anzi, per cui sei chi sei. Ma il mio libro parla delle icone del nostro tempo, parla delle ossessioni del nostro paese, e l’ossessione per il corpo è uno degli elementi caratteristici della nostra epoca».
Byron si sedette pesantemente sul divano, spostandolo indietro di qualche centimetro. Quanto poteva pesare? Un’ottantina di chili? Probabilmente di più.
«Ho capito quello che intendi» disse, ancora un po’ offeso. «Ma, scusa, non vale per tutti? Quella cosa dell’incorporare? Non vale per tutti i mestieri?».
«Certo».
«Fai vedere la mano. Le tue dita. Scriverai veloce al computer, no?».
Lei sorrise. «Direi. E la società ha pure la pretesa che io sfoggi una perfetta manicure».
Byron osservò meglio. «In effetti. È smalto trasparente, eh? E anche la forma delle unghie è studiata». Le fece scorrere l’indice sul dorso della mano. «E la pelle è tutta morbida e liscia, ma forse quello è naturale».
Il sorriso di lei si allargò. «Non crederci mai».
«Sempre pensato. Quindi, insomma, anche tu sei incorporata, no?».
«Indubbiamente. Ma non sono un’icona del mio tempo. Piuttosto, mi conformo, consapevolmente o inconsciamente, a un modello. Il mio modello può avere la cellulite e mangiare tutto il budino che vuole, e in effetti nessuno mi impedirebbe di aderire a un modello ancora più comodo: diventare grassa, non andare più dal parrucchiere e non farmi più la manicure».
«Questa cosa della cellulite un po’ ti rode».
Lenny rise sottovoce. «Eh, un po’ sì. Dovrei andare in palestra e mangiare più sano, ma non ne ho né il tempo, né la forza».
«La cellulite, poi, è per sempre».
«L’ho sentito dire anch’io. Inutile sbattersi, quindi».
«Volevo vedere se ti offendevi».
Lei rise ancora. «Ma perché dovrei, è un dato di fatto».
«Senti questa: se dovessi scegliere l’uomo più sexy del mondo, no? Non il più bello, il più sexy. Cioè, sei etero, giusto?».
«Più o meno».
Lui emise un lungo sospiro. «Non dire così. Ma se dovessi scegliere l’uomo più sexy del mondo. Chi sarebbe?».
Lenny ci pensò per diversi secondi. Era dalle superiori che nessuno le faceva una domanda del genere, probabilmente.
«Ah, dunque... vediamo. Forse Bernard-Henri Lévy?».
«Aspetta».
Byron prese il cellulare. Iniziò a digitare, ma si interruppe. «Come si scrive?».
Lei glielo sillabò.
«Ecco. Questo». Byron le mostrò una foto sul telefono. In quella foto Bernard-Henri Lévy aveva l’espressione imbronciata, la pelle abbronzata, la camicia slacciata sotto una giacca elegante e i capelli argentei e folti un po’ arruffati. E sapeva di essere ancora sexy come la morte, questo era sicuro. «Ecco l’uomo più affascinante del mondo per la tizia più intelligente che abbia mai conosciuto». Si mise il cellulare accanto alla faccia, lo schermo voltato verso di lei. «Lui, non lui».
«Ha scritto dei gran libri, sai».
«E, tanto per curiosità, vediamo com’è sua moglie...»
«Non credo che resterai deluso».
Byron aggrottò la fronte. «Be’, no, dai. È una figa, ma ha solo cinque anni meno di lui. Ma la cosa buffa è che lui ne avrà una quarantina più di te».
«Trentaquattro, veramente».
«Perché tu ne hai trentasei».
«Ed è un’attrazione platonica. Se dovessi incontrarlo probabilmente resterei paralizzata».
Byron scosse la testa. «Certo, così è meglio».
«Ma tu sei il secondo, okay?».
Quello lo fece ridere e mettere via il cellulare. «Che vipera. Poi c’è chi si chiede come venga fuori l’accoppiata modelle-calciatori».
«Oh, sto per mettermi a piangere... vi dovete accontentare degli scarti degli intellettuali, eh? Poveri, poveri ragazzi...»
Byron le lanciò un’occhiata di disapprovazione, scuotendo la testa. «Sei la peggiore».
Poi guardò l’orologio.
Lo guardò anche Lenny. «Ops. Scusa».
«Stavo giusto controllando quanto mi restava, ma a quanto pare abbiamo già sforato di mezz’ora».
«Possiamo sottrarla all’appuntamento di domani».
«Ho controllato, sono quattro in tutto».
«Lo so».
«Sono un po’ pochi, per convincerti che sono meglio di Bertrand, lì».
«Bernard-Henri».
«Lui. E non sottrarre niente, per carità».
«Bene. Grazie».