Prologo
Al funerale di Mark piovigginava. L’erba del cimitero era di un verde brillante, tutto il resto grigio-azzurro. I convenuti, chiusi nei loro cappotti di lana nera; i loro visi pallidi, invernali, messi in ombra dagli ombrelli scuri.
Charlotte non era distrutta dal dolore. Aveva avuto sei mesi per elaborare il lutto prima ancora che il lutto ci fosse. No, Charlotte era sollevata che Mark fosse morto. Finalmente.
Ma la sua assenza l’aveva lasciata intontita. Aveva rotto il ritmo della sua esistenza.
Due giorni prima si era alzata per la prima volta senza che lui fosse in casa. Si era infilata la vestaglia ed era andata di là, come faceva sempre al mattino. Per accarezzargli la fronte e assicurarsi che fosse ancora sedato. Per guardare i suoi occhi che la seguivano dal pozzo delle loro orbite senza riconoscerla e per stringergli la punta delle dita.
Il dolore le aveva scavato un canyon dentro per tutto l’ultimo periodo della malattia. Dolore e dolore e dolore senza un attimo di tregua. Ma due giorni prima, svegliandosi ed entrando in una stanza vuota, per la prima volta aveva provato smarrimento.
Mark non c’era più e lei non aveva più nulla da fare. Non poteva neppure più vegliare sulla sua lenta morte. Era del tutto inutile.
Al funerale di Mark Charlotte ricevette le condoglianze dei loro amici con in viso un’espressione un po’ vaga, ma relativamente tranquilla.
«Tieni duro, piccola» le disse Andie, stringendole un braccio. «Manca solo il rinfresco, poi ci metteremo davanti alla TV e ci guarderemo un bel film, okay?».
«Okay» mormorò Charlotte, grata.
Andie le era stata vicina come aveva potuto. Non l’aveva lasciata mai sola. Senza di lei sarebbe impazzita.
Si avvicinò Victor. Era livido. Lui sì sembrava devastato dal dolore.
Lui e Mark erano stati amici come solo gli uomini sanno esserlo. Anni e anni di amicizia basata sull’andare insieme a bere una pinta, parlare delle donne che si erano portati a letto e criticare i propri superiori. Vedere insieme la partita, ogni tanto andare a pescare. Legami così superficiali, all’apparenza, ma così profondi da non aver bisogno di confidenze.
Anche se poi le confidenze c’erano state. Mark aveva detto a Victor di essere ammalato prima di dirlo a lei. Victor aveva mantenuto il segreto.
«Non è possibile, sai» le disse, quel pomeriggio. «Non può essere successo. Ci sveglieremo tutti da un momento all’altro».
«Sarebbe bello».
Ebbe la chiara sensazione che avrebbe dovuto abbracciarlo. Avrebbe dovuto tenerlo stretto come un bambino e consolarlo. Victor ne avrebbe avuto bisogno.
Non lo fece.
Era sempre stato amico di Mark, mai suo. Anzi, l’aveva sempre guardata con una certa antipatia. Probabilmente l’aveva sempre considerata un po’ scema.
Ora non aveva importanza. Charlotte non aveva nulla da rimproverargli, anzi. L’aveva visto venire a trovare Mark, settimana dopo settimana, anche se era evidentissimo che si sarebbe tagliato una gamba piuttosto di essere lì.
E ora, in quel cimitero bagnato da una pioggia sottile e scomoda, Charlotte provò l’impulso di abbracciarlo, ma si astenne per mancanza di familiarità.
Poi arrivarono i genitori di Mark. Poi i suoi.
Poi le sembrò di venire sommersa dalle persone che volevano starle vicine.
Lei non voleva vicino nessuno. L’amore della sua vita era morto e non voleva nessuno tra i piedi.