Mi depone delicatamente sopra a una vecchia poltrona sbrindellata, arricchita con due sottili cuscini a fiori sbiaditi; continua a ripetere quella frase, sembra quasi che sia convinto che io possa capirlo, ma io capisco solo quel suo intercalare che vorrebbe essere rassicurante.
«Okay Ericu, trankilo, trankilo».
Cosa vorrà farmi? Se ci fosse Felipe potrei almeno provare a fermarlo.
Mi fa cenno di chiudere gli occhi, li chiude lui ripetutamente, poi comincia a premere le sue mani aperte sul mio petto, in maniera lenta e con forza ben dosata. Così sta, e mi fa stare, per diversi minuti.
«Trankilo».
Sposta la pressione sui fianchi, sul ventre, sul collo e sulla testa. Passano lunghi attimi di silenzio e arriva un dolce desiderio di dormire.
Alla fine mi stringe come in una morsa calibrata, mettendomi una mano dietro la schiena e una davanti, tra il petto e il ventre.
Ci vuole molta forza per stare così, in quella posizione, e premere con regolarità. Eppure è così magro!
«Trankilo».
L’ultima postura è stata conquistata dopo una lunga e inutile serie di miei rifiuti.
«Visto che non c’è verso di capirci, tanto vale che io parlo nella mia lingua così come tu parli nella tua; lo vuoi capire che non ci riesco a mettermi come vuoi tu, lo capisci che è pericoloso, mi farai venire una valanga di emartri ed ematomi!»
Lentamente mi piega le gambe verso il mento e poi mi invita a tenerle abbracciate.
Raccolto a forma di uovo, con la testa che lui mi spinge tra le ginocchia leggermente divaricate, torno a sorridere.
Com’è che queste cose io non le ho mai potute fare, com’è che me le hanno sempre proibite e segnalate come uno dei massimi pericoli?
Servivano 18. 000 chilometri per avere il permesso di farle?
La spilungona antipatica, sempre lei, mi ha detto che fra poco atterreremo all’Aeroporto di Bankok, quindi di bere se ne riparlerà allora. Se fosse possibile vorrei non scendere, la manovra per salire è stata molto difficile e lunga, sarebbe meglio non doverla ripetere.
Quando arrivammo a Manila ci fu un ragazzo che mi aiutò in modo veramente abile, era molto giovane, non particolarmente robusto ma decisamente forte. Mentre scendevamo dalla scaletta mi sembrava di scontrarmi contro un muro invisibile; erano il calore e l’umidità con le quali la capitale ci accoglieva.
Lì, in quel momento, è cominciata questa sete tormentosa che ancora non mi abbandona. Anche Juanito mi ha ripetuto più volte di bere molto.
Si è accesa la scritta che segnala l’inizio delle manovre d’atterraggio, si sono svegliati tutti, fra poco dovranno per forza parlarmi. Nessuno ne ha voglia, lo so. Ognuno di loro vorrebbe soltanto potersi trovare di colpo nella propria casa e nella propria stanza invece che qui, a dover fare buon viso a cattivo gioco.
Forse la Vita è davvero un gioco cattivo, un gioco che sembra dominato da un invisibile senso di sadismo.
Tiziana non mi saluterà, ne sono sicuro, forse pianterà una grana da qualche parte.
Il signore lombardo manterrà intatte le sue maniere perfette, e la moglie toscana sarà affettuosa come sempre.
Speravano tutti di lasciare il loro cancro nelle Filippine e invece se lo riportano a Roma, e da Roma nelle loro province e nelle loro città.
La mia prima visita si è conclusa con Juanito che si è messo a fumare alla menta vicino a me, seduto su di una sedia sgangherata. Mi diceva: «Okay, okay, finished!» Siamo stati alcuni minuti lì, fermi e silenziosi, come due vecchi amici liberi dall’obbligo di dover parlare. Io non riuscivo più ad alzare un dito, la poltrona mi aveva risucchiato come dovrebbe essere con le sabbie mobili.
Dopo la sigaretta si è sporto sulla soglia e ha chiamato qualcuno, ha chiesto qualcosa ad alta voce, sembrava proprio che dentro la capanna non volesse tornarci.
Un ridere muto saliva dalla mia totale ipotonia.
Sarebbe questa l’essenza del mio viaggio della speranza?
È questo starmene qui, nel salottino primitivo del mio presunto guaritore, seduto sulla sua poltrona, pezzo forte dell’arredamento di casa Flores?
Cosa sta veramente accadendo?
Mentre cominciavo a sentire il primo imbarazzo per tutto quel fumoso silenzio, sono arrivati la madre, Felipe e Tiziana, che però si è fermata prima della porta. Evidentemente erano questi i suoi ordini.
Ha parlato veloce con la vecchia che subito dopo è sparita in direzione della capanna.
Tiziana l’ha seguita, come se volesse scappare via da una visita troppo intima, soprattutto se fatta dentro quella specie di casa.
Juanito le ha gridato qualcosa dietro, ma Felipe non ha tradotto.
Nel salottino si è così aggiunto un terzo ospite; Juanito ha preso un’altra sedia e l’ha avvicinata alla sua, invitando Felipe a sedersi.
Ho capito subito che sarebbe arrivata una nuova predica.
«Il signor Flores dice lei deve muovere, tanto, non fermare mai. Non avere paura, non ascoltare paura».
Parlano quasi uno sopra all’altro, adesso mi accorgo della bravura e della pazienza di Felipe, sempre solerte e disponibile.
«Dice di non più pensare ai compagni di scuola perduti, e anni perduti. Pensare domani».
Adesso che succede? Una lacrima sfuggita al calore tropicale e alla sete mi annuncia la tempesta.
Sta per accadere qualcosa di inguardabile, vergognoso, da nascondere a tutti i costi.
Cerco di oppormi, ma so già che sarò sconfitto.
Juanito ora si è messo a ripetere la frase di prima, la dice più velocemente e con più energia.
Perché si è accovacciato davanti a me? Perché mi tiene dolcemente entrambe le mani? Ripete, ripete, ripete quelle parole in continuazione.
Credo di averne oramai imparato il suono: «Indi tisamaari naia nosarili mo. Indi ito ai pagacasala mo».
«No, ti prego Juanito, non farmi piangere! Ti prego, ti prego!»
«Il signor Flores dice, non avere vergogna, mai vergogna. Non avere colpa, mai colpa. Dice Erico no vergogna di Erico, signor Erico no colpa, no colpa!»
L’acqua che ha lavato tutte le ferite del mondo scende dai miei occhi; una cascata inarrestabile di onde marine mi fa sobbalzare e guaire come un cane che ha perso per sempre il suo amato padrone.
L’intera mia Vita prende la forma e la voce del mio pianto, scorrendo veloce tra gli alberi di tutte le sofferenze trascorse.
«Okay Ericu, okay». Mi accarezza le mani e ride.
Lui se la ride e alla fine fa ridere anche me, ci guardiamo dritti negli occhi, tra i singhiozzi e le risate riesco perfino a dirgli: «Uinito, ma che ridi? Hai visto cosa mi hai combinato?»
Può esser bello non avere più forze, può essere piacevole accorgersi che il pianto non ti fa sentire né il caldo né la sete.
La pista d’atterraggio è bella lunga, non c’è pericolo. A Karachi sarà diverso, non so chi me lo ha detto, ma so che lì la lunghezza è al limite della praticabilità.
Mi piace sentire l’aereo che vira e volteggia avvicinandosi all’aeroporto, ci si sente l’abilità del pilota, le sue manovre, la sua capacità di guidare la grande macchina volante.
Quanti anni sono passati dall’ultima volta che ho guidato un’auto! Tanti, troppi.
Non mi sarei aspettato di vedere la vecchietta tornare da noi spingendo la mia carrozzina. Sbraitava qualcosa come se fosse arrabbiata o dovesse giustificarsi. Felipe ha subito tradotto che la signorina Tiziana rifiutava di farsi visitare.
Juanito mi ha ripreso in braccio e mi ha messo seduto sulla Scafoletti, poi siamo tornati alla capanna, spingeva lui. Nel breve tragitto ho cercato di asciugarmi velocemente gli occhi.
«Okay Ericu, okay».
Diverse persone si sono avvicinate a me, ma non ero molto lucido, la voglia di parlare e salutare era davvero scarsa.
Ciò che invece mi premeva era osservare cosa sarebbe accaduto tra Flores e Tiziana, forse volevo verificare se anche la ragazza romana sarebbe stata sconvolta, e che effetto le avrebbe fatto. Ero un pò preoccupato per lei.
Il signore lombardo mi aveva appoggiato una mano sulla spalla, sentivo intorno a me molti “come stai?” “Cosa ti ha fatto?”
Juanito si è avvicinato lentamente alle ultime panche in fondo. Lì stava Tiziana, seduta accovacciata con la testa tra le mani; si dondolava ossessivamente.
L’ha presa per un braccio facendola sollevare in piedi, poi ha cominciato a trascinarla lungo il corridoio tra le panche, fino al famoso tavolaccio dei sacrifici.
Lei si opponeva appena, trascinando un poco i piedi, ogni tanto sembrava inciampare. Mi aspettavo una scenata, un’esplosione d’ira della mia amica, invece si era quasi del tutto arresa alle circostanze.
In piedi di fianco al tavolo Flores le ha preso la testa tenendola con tutte e due le mani, spostandole lentamente, ora sulla fronte, ora dietro o sulla sommità.
A quel punto Tiziana lo ha quasi abbracciato; forse aveva bisogno di reggersi per non cadere, o forse stavano ballando qualcosa. Li guardavo perplesso.
Juanito rideva, mi ha cercato con lo sguardo. Anch’io ho risposto con un sorriso.
Mezz’ora di questa terapia e poi se n’è andato via, col volto stanco, frettolosamente. La madre ci ha liquidato in maniera altrettanto veloce, Felipe traduceva come al solito: «Tornate tra due giorni alla stessa ora, ricordatevi di avere fede».
Molti erano insoddisfatti per non essere stati visitati, alcuni hanno alzato la voce.
Io ho cercato di salire velocemente sul taxi del ritorno, prenotato all’ultimo momento; mi sentivo in imbarazzo. Poi siamo partiti, eravamo in sei, Alessio si è messo davanti con me, dietro due padri e una madre.
Arrivati all’hotel ho aperto lo sportello e mi sono messo in piedi, erano più di cinque anni che non lo facevo.
In camera, mezz’ora dopo, ho bevuto un’intera bottiglia d’acqua.
Caro diario che non ci sei, meglio di così non ti so raccontare quella giornata, spero di essere più bravo con il racconto delle altre due visite. Ora ti lascio, il DC-8 è fermo e stanno per aprirsi gli sportelli, siamo in Tailandia, ma da qui non si vede.
Di nuovo in volo verso Karachi, sugli oblò si percepisce un pò di luce che si spande.
La signora toscana mi è passata vicino senza neanche rivolgermi un sorriso, aveva lo sguardo scuro; almeno da lei un segno di saluto me lo sarei aspettato. Gli altri sono usciti e rientrati molto velocemente.
Non è stato facile convincere le Hostess a farmi rimanere dentro l’aereo durante la sosta, dicevano che era un problema di sicurezza.
Devono aver consultato il pilota, poi mi hanno dato il consenso.
Ero completamente solo mentre un uomo e una donna facevano le pulizie, lui mi ha salutato con le mani giunte e un leggero inchino.
Il grande tubo vuoto, con tutte quelle poltrone senza nessuno sopra, sembrava pieno di fantasmi, allora ho provato ad accordare il banjo.
Ho creato a orecchio diverse combinazioni e gradazioni di suoni, ho cercato anche di impostare con la sinistra qualche accordo. È venuta fuori un’armonizzazione dissonante, comunque piacevole. L’acustica qui dentro è perfetta.
Anche la donna si è girata verso di me e ha sorriso. Un arpeggio tenero e obliquo è uscito dalle mie dita e dalla pancia del banjo, ha volteggiato per un pò nell’aria ancora pesante dell’abitacolo, poi si è posato sulle poltrone deserte.
Allora mi è sembrato di vedere schiarirsi l’ombra di alcune invisibili anime ancora sedute.
Con mia sorpresa, al ritorno a bordo, Tiziana mi ha parlato: «A Ggentì te sei fatto ‘na sonata?» Secondo me la favella le si è sciolta grazie a qualche superalcolico. Forse ha pure quel problema.
È una stronza, non le ho risposto. Sotto gli ampi e vaporosi vestiti leggeri si intravedono le sue forme forti. Ha una piccola bocca a forma di cuoricino. Testa da marionetta, occhi di cane; sembra venire da un lontano e surreale altrove.
Ora sono tutti di nuovo al loro posto, in un silenzio ancora più pesante di prima, perché senza sonno. Pensano a come affrontare il proprio domani.
Io cerco ancora di raccontarmi ciò che è accaduto ieri.
Caro invisibile diario, quei due giorni d’attesa li ho passati pensando alla poltrona strappata, ai maiali neri davanti alla porta della capanna, e ai miei muscoli che non si contraevano più.