Capitolo III
Una serata nella capanna dello zio Tom
La capanna dello zio Tom, tutta fatta di tronchi d’albero, era annessa alla ‘casa’, come i negri chiamavano l’abitazione dei loro padroni, e si affacciava su un piccolo giardino che era amorevolmente curato. La facciata della capanna era coperta di rose rampicanti che riuscivano a nascondere completamente la vista dei grossi tronchi. In un angolo, riparato dal vento e dai violenti raggi del sole, durante l’estate, spuntavano fiori di stagione, come margheritine e campanule, ed erano la felicità e l’orgoglio di zia Cloe, la moglie di Tom.
Nella casa dei padroni la cena era terminata, e la zia Cloe, che in qualità di capo-cuoca aveva assistito ai preparativi, era tornata nella sua capanna per preparare “un boccone da mangiare per il suo uomo”.
Lei era là, davanti al focolare, mentre sorvegliava con occhi attenti quello che stava cuocendo in una grossa pentola, che emanava un vapore che prometteva “qualcosa di buono”. La sua facciona tonda e nera era così liscia che sembrava l’avessero spalmata di chiara d’uovo, per farla assomigliare ai dolci squisiti che ella sapeva preparare. Il suo viso paffuto esprimeva una continua contentezza, e forse anche un po’ di compiacimento per l’essere ritenuta la cuoca più rinomata dei dintorni.
In un angolo della capanna stava un letto con una coperta bianca come la neve. Vicino al letto un tappeto piuttosto grande indicava a tutti coloro che entravano nella capanna che zia Cloe apparteneva ad una elevata classe sociale. Quell’angolo era, per così dire, il salotto, e i bambini osavano appena guardarlo da una certa distanza. Il muro sopra il focolare era ornato di incisioni che rappresentavano scene della Bibbia e vi era appeso anche un ritratto a colori del generale Washington.
Su una panca rustica erano seduti due bambini dai capelli crespi e dal volto nero e lucido che assistevano ai primi passi della loro sorellina. Zia Cloe apparecchiò la tavola davanti al focolare e Zio Tom, il braccio destro del signor Shelby, si mise a tavola.
Egli era un uomo alto e ben piantato. Aveva la pelle nerissima e i suoi lineamenti rivelavano il vero africano. L’espressione del volto denotava gentilezza, benevolenza e buon senso.
In quel momento, egli appariva molto concentrato. Teneva in mano una lavagna sulla quale stava copiando, con linee incerte, alcune lettere. Vicino a lui stava Giorgio Shelby, un ragazzo di tredici anni, simpatico e intelligente, che sembrava tutto compreso del suo ruolo di maestro.
“Non è così, zio Tom, avete sbagliato.” diceva Giorgio, attento all’esercizio di Tom.
“Davvero?” disse lo zio Tom guardando ammirato il suo giovane maestro che scriveva sulla lavagna. Poi riprese nella sua mano rozza il sottile pezzo di gesso e continuò a scrivere con diligenza.
“Con quanta facilità fanno le cose gli uomini bianchi!” disse zia Cloe, e smise per un attimo di sollevare i coperchi delle pentole per guardare con ammirazione il piccolo maestro, il signorino Giorgio. “Come sa leggere e scrivere correntemente! E che piacere ci procura quando la sera legge ad alta voce.”
“Zia Cloe, ho una fame da lupo; non è ancora pronta la torta?”
“Quasi fatta, padroncino Giorgio.” rispose zia Cloe e alzò di nuovo il coperchio, gettando un’occhiata nel recipiente. “Oh, che colore magnifico prende! Lasciate fare a me, deve essere buonissima.”
Infatti, pochi istanti dopo, apparve una bella torta dorata, degna del migliore pasticcere della città.
“Via, via, Mosè, Pietro; fuori dai piedi voi, negretti! Via anche tu, dolcezza mia! Mamma darà qualcosa di buono alla sua bambina. E voi, padroncino, levate quei libri dalla tavola e sedetevi accanto al mio vecchio.”
“Per dire la verità, - disse Giorgio - mi avevano detto di tornare a casa per la cena. Ma io sapevo già dove si mangia bene!”
“È vero, dolcezza, - disse la zia, riempiendo il piatto di Giorgio - e sapete che zia Cloe tiene per voi il boccone migliore.”
“Voglio la torta.” esclamò il ragazzo e afferrò un grosso coltello.
“Che Dio vi benedica, - esclamò zia Cloe, afferrandogli il braccio - non vorrete adoperare questo coltello! Mi potreste rovinare tutto. Prendete questo vecchio e bene affilato. Ecco, vedete, viene via sottile come una piuma.”
“Tom Lincoln dice - disse Giorgio a bocca piena - che la loro Jenny è una cuoca migliore di voi.”
“I Lincoln, che cosa contano in queste cose? - affermò in tono sprezzante la donna - Sono persone rispettabili, ma quando si tratta di fare le cose con gusto, non sanno neppure da che parte cominciare. Mettete il signor Lincoln con il signor Shelby. Santo cielo!”
“Ma se avete detto voi stessa, zia Cloe, che Jenny è una cuoca molto brava.” continuò Giorgio.
“Può darsi che l’abbia detto… Oddio, per una cucina semplice, di tutti i giorni, Jenny può anche andare; sa fare il suo pane, cuocere le sue patate, sa fare anche la torta, …ma che torta! Sono stata da loro, quando la signorina Mary si è sposata e Jenny mi ha mostrato ciò che aveva preparato per l’occasione. Intendiamoci, io e Jenny siamo state buone amiche, perciò non vorrei parlar male di lei, ma a voi, padroncino mio, posso confessare che se io avessi fatto una torta come la sua, non avrei potuto chiudere gli occhi per una settimana intera: non valeva niente!”
“E Jenny l’avrà certamente creduta buona - disse Giorgio - Comunque vi assicuro, zia Cloe, che io apprezzo molto la bontà delle vostre torte. E se non mi credete, domandate a Tom Lincoln che cosa gli dico ogni volta che l’incontro. Gli riempio le orecchie di lodi sulla vostra cucina... e, naturalmente, chi si sente imbarazzato è lui!”
A questo punto zia Cloe si gettò indietro sulla sedia e scoppiò a ridere tanto di gusto che gli occhi le si riempirono di lacrime. E continuava a ridere, mentre batteva la sua manona sulle spalle del padroncino e lo pregava di stare zitto, altrimenti avrebbe finito di scoppiare dalle risate.
“Caspita! Avete detto questo a Tom Lincoln?”
“Ma sì! Figuratevelo un po’ quando gli dico: «Tom, vedessi che torte fa zia Cloe. Una vera bontà! Non può farle che lei! ».”
“Peccato che non possa nemmeno giudicarle.” disse zia Cloe.
Il pensiero che c’era della gente che non sapeva che cosa volesse dire mangiare bene, la rattristava visibilmente. Intanto era giunto il momento che deve giungere, sia pure in circostanze eccezionali, anche per un ragazzo di tredici anni. Nemmeno con la massima buona volontà Giorgio riuscì ad ingoiare altri bocconi. Perciò ebbe tempo e modo d’accorgersi delle piccole teste arruffate e degli occhi lucenti che osservavano con ardente curiosità, dall’angolo opposto della stanza, il suo formidabile appetito.
“Qua, Mosè, Pietro! - esclamò - Questa piace anche a voi.” E gettò loro dei grandi pezzi di torta. “Zia Cloe, fate anche a loro un po’ di posto.” Così dicendo, Giorgio si alzò dal tavolo, subito imitato dallo zio Tom. Essi portarono due sedie comode vicino al fuoco e si rimisero a sedere. Zia Cloe invece, cominciò a distribuire la seconda cena a Polly, Mosè e Pietro ai quali piaceva se potevano mangiarla mentre si rotolavano per terra e si facevano il solletico.
“Oh, state un po’ tranquilli! - diceva la madre, tirando qualche botta alla cieca sotto la tavola, quando la confusione diventava troppa - Non potete stare un po’ fermi quando un bianco viene a trovarvi? Finitela!”
I due bambini sbucarono da sotto la tavola e con le mani impiastricciate di torta cominciarono ad accarezzare la sorellina spaventata.
“Via di qua. - gridò la madre, cercando di allontanare le piccole teste nere dei bambini - Andate prima a lavarvi!” Le sue ultime parole furono accompagnate da un sonoro sculaccione che però non sortì un gran risultato. I due ragazzi, infatti, si allontanarono ridendo.
“Chi ha mai visto ragazzacci simili?” disse poi zia Cloe con una certa soddisfazione. Così dicendo, dopo aver inumidito l’angolo di un vecchio asciugamano con dell’acqua, pulì con cura il viso della bimba. Poi la mise sulle ginocchia di Tom e cominciò a sparecchiare. La bimba si divertiva a tirare il naso e graffiare con delicatezza la faccia di Tom; ma le piaceva soprattutto giocare con i suoi capelli lanosi.
“Non è bella la mia bambina?” disse soddisfatto lo zio Tom, sollevandola davanti a sé per bearsi della sua vista. Poi se la mise a cavalcioni sulle spalle larghe, si alzò e cominciò a ballare. Giorgio intanto faceva ridere la piccola agitandole vicino il fazzoletto.
Zia Cloe dichiarò che era giunta l’ora di coricarsi e così dicendo trasse da sotto il letto una cassa che fungeva da letto per i bambini, a cui ordinò: “Mosè, Pietro, a letto! Fra poco comincia la riunione religiosa!”
“Oh, mamma, non vogliamo andare a letto! Vogliamo vedere la riunione! È così bella, ci piace tanto!”
“Oh, zia Cloe, mettete via quella cassa, lasciate che stiano svegli anche loro.” disse Giorgio.
Zia Cloe fu ben contenta di poter accontentare i bambini su richiesta di Giorgio.
Tutti si adoperarono per dare alla capanna l’aspetto di una sala da riunione.
Zia Cloe pregò Giorgio di rimanere con loro: “Padroncino, voi leggete così bene; perché non vi fermate a leggere alla riunione?”
Giorgio fu contento di accettare l’invito.
La piccola capanna dello zio Tom in breve si riempì di una folla di negri di tutte le età: da vecchi di ottant’anni a giovinetti e fanciulle di quindici.
Poco dopo cominciò il canto e tutti vi parteciparono con visibile piacere. Nemmeno la voce nasale, tipica dei negri, poteva togliere fascino alla loro semplice devozione. Il testo dei canti era, o quello degli inni religiosi più conosciuti, o un miscuglio strano di parole che erano rimaste nella loro memoria e di quelle che scaturivano spontaneamente dalle loro anime.
Con voce potente, dove vibrava una profonda devozione, essi cantavano:
Morendo qui sul campo di battaglia
Sento che l’anima mia si fa beata.
In un altro canto, uno dei preferiti, ripetevano più volte:
Io vado verso il regno dei Beati:
non vedi l’Angel che mi fa dei cenni?
Non vuoi seguirmi nella città d’oro
che splende tutta nell’eterno sole?
I canti furono seguiti da esortazioni e dal racconto di vicende vissute. Una vecchia dai capelli candidi si alzò e, appoggiandosi al bastone, disse: “Figlioli miei, sono molto contenta d’avervi visti e sentiti una volta ancora. Non so quando mi incamminerò verso il paese della beatitudine. Io sono pronta, figlioli miei, come se avessi già fatto il mio fagotto, mi fossi messa la cuffia in testa e non aspettassi altro che l’arrivo del carro che mi condurrà al mio riposo. Siate preparati anche voi, perché io vi dico, - e così dicendo batté la terra con il suo bastone - il Regno dei Cieli deve essere meraviglioso! Voi non ne avete neppure l’idea.”
Quando la vecchia ebbe finito di parlare si sedette piangendo di commozione, mentre l’assemblea intonava un cantico.
A richiesta generale, Giorgio lesse gli ultimi capitoli dell’Apocalisse e la sua semplicità commovente e la serietà fanciullesca delle sue espressioni commossero profondamente tutto l’uditorio.