Prologo
PROLOGO
Tabitha, 18 anni
L’aria gelida mi brucia la pelle lasciata nuda dalla canottiera. A un’ora dall’inizio della passeggiata mi sono già levata la giacca – sono una strana combinazione di freddo e sudore. Strana, però si sta bene.
Sulle cime che incombono su di me, c’è la neve. È primavera, ma indugia ancora nelle lunghe ombre del fitto pineto.
Alle prime ore del mattino, per il campo gelato dove, al di sopra dell’erba opaca, fanno capolino pochi anemoni gialli, esalo nuvolette di fiato. Sono l’unica turista abbastanza pazza da uscire così presto in questa stagione. Per strada non ho visto nessuno.
Le montagne dell’Italia settentrionale tecnicamente sono le Alpi, ma la gente del posto le chiama Dolomiti. L’escursione che ho scelto di fare non è difficile come quelle che mi porterebbero sul picco più alto, ma la fissa pendenza mi fa bruciare le cosce. Sempre meglio che sculettare in passerella su tacco dodici con uno strambo abito vaporoso che mi scopre quasi completamente schiena e sedere. Quando facevo la modella avrei fatto qualunque cosa per la moda, ma adesso basta. La modella è ufficialmente uscita dal giro.
“Non capisco,” si è lagnata la mamma quando l’ho chiamata per dirglielo. “Andavi benissimo. Stavi stringendo delle conoscenze incredibili.” Da tradursi con: ‘uomini incredibili’. Ricconi che avrebbero adorato tenere a braccetto una modella. Tipi che la mamma sperava mi prendessero in braccio, mi dessero un anello di diamanti e mi chiedessero di sposarli, o almeno che mi dessero un orologio di diamanti e che mi accogliessero a tempo pressoché indeterminato nel loro attico privato. Forse persino un’auto e qualche viaggetto in Costa Azzurra o alle Seychelles.
Il tipo di uomo cui ha sempre dato la caccia lei.
Non le ho detto che è stato proprio un appuntamento con uno del genere a farmi crollare. Mi trovavo all’ennesimo after-party noioso a braccetto di un basso intermediario finanziario di nome Paul. Uno carinissimo, ma solo perché io facevo la modella e mi arrivava appena alla spalla non significa che avesse il diritto di palpeggiarmi il culo.
Attraverso il prato e risalgo il sentiero che sta sparendo fra i pini grigio azzurro prima di accorgermi che sto borbottando sottovoce. Un uccellino cinguetta su un ramo sempreverde sopra la mia testa, e ogni rabbia svanisce.
Mi prendo un attimo per liberare i polmoni. L’aria è fresca e migliore di qualsiasi colonia costosa. Lo scroscio dell’acqua giù dalla montagna è pura neve sciolta, e probabilmente ha un sapore paradisiaco. Minuscoli fiorellini viola sbucano dalle crepe delle rocce grigie, e l’uccellino sopra di me gorgheggia come ne andasse della sua vita sessuale.
Sono lontana dal giro della moda milanese. Basta eventi affollati che mi soverchiano i sensi. Basta scontri di aure o energie tossiche che mi lasciano col mal di testa e preda di una voglia matta di scappare.
Basta professionisti dalle mani lunghe che mi trattano come un sigaro – un possesso, un’indulgenza, un arredo di scena. Basta convivenze con altre sei giovani sull’orlo della morte per inedia il cui consumo alimentare quotidiano ammonta a malapena a un mezzo panino. La prima cosa che ho fatto dopo aver detto del licenziamento all’agente è stato mangiarmi una gigantesca porzione di pasta al formaggio.
Adesso ho lo zaino pieno delle migliori provvigioni: buon formaggio, un vino rosso di qui e parecchie confezioni di biscotti italiani.
Avrò anche deluso la mamma, però mi sento meglio di quanto mi sia mai sentita in un anno. Come se mi fossi levata un peso dal petto.
Sono passati quasi tre mesi da quando mi sono licenziata per mettermi a vagabondare. Ho speso una piccola parte dei guadagni della settimana della moda per un paio di scarponi da escursione e uno zaino. Il resto del gruzzoletto è finito nella prenotazione dei piccoli rifugi italiani e di un bel posticino vicino al Lago di Como, dove sono rimasta per un po’ in attesa che la neve si sciogliesse.
Il piano consiste nel raggiungere a piedi l’Alta Via 1 e proseguire. Trascorrere l’estate in montagna. E dopo, chi lo sa. Ho diciotto anni, posso fare qualunque cosa. La primavera è l’inizio della mia nuova vita.
Quindici minuti di salita e mi tremano le cosce, ma ne vale assolutamente la pena quando giro l’angolo e incappo in un bellissimo lago di montagna. L’acqua è di un blu brillante, un colore etereo luccicante e sconvolgente come un pagliaccetto di Lilly Pulitzer.
Non resisto più: scendo fino all’orlo e immergo una mano, solo che invece di un freddo bruciante l’acqua è calda come un bagno appena preparato. Al centro del lago dalla superficie sale del vapore.
Che sia una sorgente termale? Nel caso, la guida non lo dice.
Mollo giacca e zaino. Di fronte al limpido specchio d’acqua, mi sento ancora più sudicia. La tentazione di levarmi tutto e buttarmi è immensa.
Ma non sono sola.
Dentro c’è un uomo. La testa scura è a livello di una protuberanza rocciosa, ecco perché non l’avevo visto.
Quando lo vedo, non riesco a distogliere lo sguardo. Non nuota, ma cammina nell’acqua poco profonda, che gli scivola giù per le spalle scultoree, che gli lambisce meravigliosamente i massicci pettorali.
Qualche altro passo verso la spiaggia e l’acqua gli defluisce dagli addominali duri come il diamante, tagliati e incisi con la precisione di un gioielliere. Ha altezza e stazza da bodybuilder, ma qualcosa nelle guance scavate e nei muscoli snelli delle braccia mi dice che gli mancano dai tredici ai diciotto chili.
Oddio. A Milano mi sono trovata intorno alcuni fra i più sexy modelli del mondo, e vicino a lui sembrano figurine Play-Doh. Sopracciglia scure. Lunghe ciglia setose, folti capelli mori. La barba ribelle è un tantino fuori controllo, ma non importa. Come sarebbe sentirmela fra le gambe?
Si volta, e la luce del sole gli cattura gli occhi. Sono di un ambra incredibile. Poi ricadono su di me e si accendono di oro fuso.
“Oh, scusi.” Indietreggio. “Non volevo darle fastidio.”
Mi osserva e gli sfugge un verso che sta fra un borbottio e un ringhio, e la terra risponde con un rombo. Al tremore, sbando.
È un terremoto? O la terra si è mossa quando abbiamo incrociato lo sguardo? Mi esplode la pelle d’oca su tutto il corpo. Lui mi fissa ancora, e io non riesco a staccargli gli occhi di dosso.
Sta uscendo dal lago. L’acqua gli fuma sul corpo perfetto, scorrendo in rivoli giù per la cintura di Adone – i muscoli a V che puntano dritti all’inguine. Se riemerge ancora un pochino, gli vedrò il…
Ah, eccolo, sì. Notevole, eh…
E invece non era niente! Più gli fisso l’uccello, più s’ingrossa.
“Cavolaccio,” borbotto. Questo selvaticone da natura selvaggia con una barba come quella di Giovanni Battista mi sta più che mai infiammando e bagnando fra le gambe. Forse sono solo in secca. A Milano non ho subito tentazioni. I modelli erano bellissimi, ma anche troie cocainomani. Questo qui li metterebbe tutti in ombra – e mi sta accendendo dentro come mai mi sarei aspettata.
Apre la bocca e dice qualcosa con un forte accento che il mio cervello tenta invano di decifrare.
“Cosa?” gli chiedo in italiano. Mi scervello per cercare di ricordare due parole di francese o spagnolo, o comunque di qualsiasi lingua. Il suono musicale non somiglia per nulla all’italiano che ho imparato in città. Che sia un dialetto?
Parla di nuovo, un’altra lunga serie di bellissime sillabe che gli rotolano fuori dalla bocca come poesia. Ha la voce ricca e profonda.
Attorno alla testa gli lampeggia una luce dorata che poi sparisce. Batto le ciglia. Non ha l’aura. Di solito vedo le auree come un lieve bagliore attorno alla persona, e a volte persino agli oggetti di sua proprietà. Mi accorgo anche dell’energia emotiva altrui – agli eventi di moda la cacofonia di sentimenti riusciva addirittura a farmi venire la nausea.
Ma l’energia dello sconosciuto non è intrusiva. Ha l’aura pulita – oppure nascosta. Ha una presenza emotiva nulla o così sottile da mescolarsi totalmente alla mia energia. Non avevo mai provato nulla del genere.
Lo rende stranamente attraente. Peccato che qualunque altra sua caratteristica gridi psicopatico!
Attorno a lui il lago ribolle, il vapore si leva in una tenda fra noi.
L’acqua bolle attorno a lui?
La terra si muove e romba di nuovo. Dev’essere un terremoto.
Indietreggio e mi lecco le labbra per parlare. “Mi sa che devo andare…”
Avanza. Ripete la stessa frase a ripetizione.
Rinculo. Non perché percepisca vibrazioni psicopaticissime, non perché sembri sul punto di assassinarmi per lasciare il mio corpo sul fianco della montagna, ma perché mi osserva come se stesse morendo e io fossi la sua salvatrice.
Tende una grossa mano bronzea. Persino da lontano percepisco il calore emanato dal palmo, come se sotto la pelle avesse ardenti braci.
Che assurdità.
La terra trema e quasi perdo l’equilibrio. Zaino e giacca sono a qualche metro di distanza, ma ho già raggiunto gli alberi. Sopra la mia testa, tronchi e rami scricchiolano.
Sulla cima sovrastante il lago, il calcare si crepa. Massi delle dimensioni del mio zaino rovinano giù in fiumi di polvere. È una specie di valanga, e dovrei scappare a mettermi in salvo.
Invece rispondo allo sguardo del meraviglioso dio bronzeo che esce dal lago. Ha cambiato tono, la voce si fa meno musicale e più gutturale. Un ringhio che echeggia per il lago e che sembra spingere giù altri massi.
Il ramo di un albero mi sferza il viso e interrompe il contatto visivo, ed è come se mi avessero tolto un peso dai piedi. Mi giro per levarmi di lì.
Un ruggito primordiale scuote gli alberi e quasi finisco a terra. Volo giù per il sentiero, le gambe che pompano e le braccia che sventolano, il corpo che quasi cade e perde il controllo. Il cuore mi sbanda per il petto, esplodendo di dolorosa adrenalina. Non riesco a levarmi dalla testa i suoi occhi. Mi sembra di averlo alle calcagna, ormai pronto a prendermi.
Un’enorme folata di vento mi soffia addosso mandandomi contro a dei mughi. Mi aggrappo ai tronchi. Massi rotolano sul terreno. La terra si scuote come se la gravità stesse per spazzarmi via.
I rami più alti sferzano l’aria come se fosse esploso un uragano pazzesco. Un vento assurdo, un terremoto e un tornado tutti in uno. L’aria, lassù, s’increspa, e un altro ruggito spacca gli alberi e fa correre giù altri massi.
Abbraccio la terra e striscio fino a dei fitti pini rossi. Il terremoto è scemato, ma le forti folate di vento percorrono il bosco, dividendo gli alberi e sbattendo i fiori e l’alta erba del prato. Compare una grandiosa ombra, scivola su di me oscurandomi il sole e sparendo tanto veloce quanto è arrivata.
Non so come riesco a scendere dalla montagna. Quando arrivo in paese tremo ancora. Ho perso lo zaino e la giacca. Quando cerco di spiegare l’accaduto in italiano smozzicato, le persone mi guardano come fossi una matta. Nessuno ha sentito terremoti o uragani.
Non parlo con nessuno di lui. La sua presenza rimane un segreto mio.
Abbandono il progetto di scalare le Dolomiti per puntare invece a sud, alla Toscana. Dopo due settimane sul chi va là, mi sono convinta che non sia accaduto nulla. È stato un sogno. Una specie di visione, la pazzia dei miei sensi psichici. Sono incappata in uno strambo fungo, ho inalato delle spore psichedeliche… e bum! Ho visto un tipetto pazzoide ma molto sexy condito da strane condizioni atmosferiche.
Nel corso degli anni però a volte di notte mi sveglio di soprassalto, il petto arrossato e il centro che pulsa per un sogno ricorrente. Viene da me nel sonno, l’uomo che cerco di dimenticare. Capelli scompigliati, occhi d’ambra, una bellissima cascata poetica come lingua, che capisce solo il mio cuore.
E, ogni volta, mi sveglio con la strana sensazione che l’unica cosa reale sia lui, e che il resto della mia vita sia sogno.