Book 2 CAPITOLO UNO

1771 Words
CAPITOLO UNO Re MacGil tornò incespicando fino alla propria stanza: aveva bevuto un po’ troppo. La stanza girava e la testa gli esplodeva per gli esagerati festeggiamenti della serata. Una donna di cui non conosceva il nome gli stava appesa al fianco, avvinghiata con un braccio attorno alla sua vita, mezza svestita, e lo conduceva ridacchiando verso il letto. Due servitori chiusero la porta alle loro spalle e si dileguarono con discrezione. MacGil non sapeva dove fosse la sua regina, e per quella notte non gli importava. Ormai da tempo era raro che condividessero il letto: lei si ritirava spesso nella propria stanza, soprattutto in serate di festa, quando la cena durava troppo. Era al corrente delle debolezze di suo marito, ma non sembrava curarsene. Del resto era un Re, e i Re del ceppo MacGil avevano sempre comandata di diritto. Ma mentre MacGil si dirigeva verso il letto la stanza continuava a ruotare troppo violentemente, e lui di colpo si scrollò la donna di dosso. Non era più dell’umore giusto per cose del genere. “Vattene!” le ordinò, e la spinse via. La donna rimase lì in piedi, stupefatta e ferita. La porta si aprì e i servitori tornarono, ognuno la afferrò per un braccio e insieme la condussero fuori. Lei protestò, ma le sue grida si smorzarono quando la porta venne richiusa dietro di lei. MacGil si sedette sul bordo del letto e appoggiò la testa fra le mani, cercando di frenare quell’emicrania. Era insolito che gli venisse mal di testa così presto, prima ancora che le bevande fossero esaurite, ma quella sera era diverso. Era cambiato tutto così in fretta. La festa stava andando così bene: si era sistemato con della buona carne di prima scelta nel piatto e un vino forte, quando quel ragazzo, Thor, era arrivato a rovinare tutto. Prima la sua intromissione con quello stupido sogno; poi la sua audacia nel fargli cadere il calice dalle mani con un colpo. Poi era arrivato quel cane che aveva leccato tutto dal pavimento, cadendo poi morto di fronte a tutti. MacGil ne era ancora scosso. La consapevolezza di ciò che era accaduto lo aveva colpito come una martellata: qualcuno aveva tentato di avvelenarlo. Di assassinarlo. Riusciva a malapena a farsene una ragione. Qualcuno aveva eluso la sorveglianza delle guardie e dei suoi assaggiatori di cibo e vino. Era stato ad un soffio dalla morte e la cosa lo scioccava ancora. Ricordò come Thor era stato portato alle segrete e si stava ancora chiedendo se fosse stato l’ordine giusto da dare. Da una parte, ovviamente, non c’era modo che il ragazzo potesse sapere che il calice conteneva del veleno, a meno che non ve l’avesse messo lui stesso o fosse in qualche modo coinvolto nel crimine. Dall’altra parte sapeva che Thor possedeva profondi e misteriosi poteri – troppo misteriosi – e forse aveva detto la verità: forse aveva effettivamente avuto una visione nel suo sogno. Forse Thor gli aveva veramente salvato la vita e quindi MacGil aveva mandato in prigione l’unica persona realmente leale. La testa di MacGil iniziò a battere ancora più forte a quel pensiero, mentre stava lì seduto strofinandosi la fronte troppo segnata dalle rughe e cercando di trovare una soluzione a tutto. Ma aveva bevuto troppo quella sera, la sua mente era troppo annebbiata, i suoi pensieri vorticavano e non riusciva a trovare una via d’uscita da quell’intricata situazione. Là dentro faceva troppo caldo, era un’afosa notte estiva, aveva il corpo surriscaldato da ore spese a mangiare e a bere e stava sudando. Si tolse il mantello e lo gettò, poi si levò la tunica e rimase con nient’altro che la camicia addosso. Si asciugò il sudore dalla fronte e poi dalla barba. Si chinò e si tirò via i grandi e pesanti stivali, uno alla volta, sgranchendo le dita dei piedi quando le sentì libere a contatto con l’aria. Rimase lì seduto e respirò a fondo, cercando di recuperare l’equilibrio. La pancia gli si era gonfiata e gli pesava. Buttò le gambe in avanti e si lasciò cadere sulla schiena, appoggiando la testa sul cuscino. Sospirò e sollevò lo sguardo oltre il baldacchino, verso il soffitto, desiderando che la stanza smettesse di ruotare. Chi potrebbe volermi morto? continuava a chiedersi. Aveva amato Thor come un figlio e una parte di sé sentiva che non poteva essere lui. Si chiese di chi altri si potesse trattare, che motivo ci potesse essere, e soprattutto se avrebbero ritentato. Era al sicuro? Era vero quello che gli aveva detto Argon? MacGil sentì che le palpebre gli si stavano facendo pesanti e percepiva che la risposta si trovava appena fuori dal raggio d’azione della sua mente. Se i suoi pensieri fossero stati giusto un po’ più chiari, forse avrebbe capito tutto. Ma avrebbe dovuto aspettare la luce del giorno per convocare i suoi consiglieri, per aprire un’indagine. La domanda che aveva in mente non era chi lo volesse morto, piuttosto chi non lo volesse morto. La corte era piena zeppa di persone che bramavano il suo trono. Generali ambiziosi, membri del consiglio che agivano da abili manovratori, nobili e lord assetati di potere, spie, vecchi rivali, assassini mandati dai McCloud, e forse anche dalle Terre Selvagge. O forse qualcuno di ancora più vicino. MacGil sbatté gli occhi mentre iniziava ad addormentarsi, ma qualcosa colpì la sua attenzione e questo bastò a non farglieli chiudere. Scorse del movimento, quindi si guardò in giro e si accorse che i suoi servitori non erano lì. Sbatté le palpebre confuso. I suoi servitori non lo lasciavano mai. In effetti non ricordava l’ultima volta che era rimasto solo in quella stanza. Non ricordava di aver ordinato loro di andarsene. Addirittura più strano: la porta era spalancata. Proprio in quell’istante MacGil udì un rumore provenire dall’estremità opposta della stanza e si voltò a guardare. Lì qualcuno strisciava contro la parete fino ad emergere dall’ombra avanzando nella luce delle torce: era un uomo alto e magro che indossava un mantello nero con un cappuccio che gli copriva il volto. MacGil sbatté le palpebre diverse volte, chiedendosi se lo stesse veramente vedendo. All’inizio fu certo che si trattasse semplicemente delle ombre e della tremolante luce delle torce che giocava degli scherzi ai suoi occhi. Ma un attimo dopo quella figura si era avvicinata di diversi passi e si stava dirigendo velocemente verso il suo letto. MacGil cercò di mettere a fuoco l’immagine in quella poca luce per capire di cosa si trattasse; iniziò istintivamente a tirarsi su a sedere e da esperto guerriero portò subito la mano alla vita cercando una spada, o almeno un pugnale. Ma si era spogliato e non c’erano armi da impugnare. Rimase seduto sul suo letto, disarmato. La figura ora si muoveva rapidamente, come un serpente nella notte, avvicinandosi sempre di più, e mentre MacGil si sedeva, riuscì a dare un’occhiata al suo volto. La stanza stava ancora ruotando e l’oscurità gli impediva di capire chiaramente, ma per un momento avrebbe potuto giurare che sotto quel cappuccio ci fosse il volto di suo figlio. Gareth? Il cuore di MacGil venne sommerso da un’improvvisa ondata di panico mentre si chiedeva cosa diavolo ci facesse lì, senza essersi fatto annunciare, così tardi nella notte. “Figlio?” chiamò. MacGil vide l’intento di morte nei suoi occhi e questo gli bastò: si preparò a balzare dal letto. Ma l’altro si muoveva troppo velocemente. Scattò in azione, e prima che MacGil potesse alzare una mano per difendersi, alla luce della torcia baluginò un riflesso metallico e subito, troppo in fretta, una lama fendette l’aria e gli affondò nel cuore. MacGil gridò, un profondo e lugubre grido d’angoscia, e il suono della sua voce sorprese lui stesso. Era un grido di battaglia, del genere che aveva udito troppe volte. Era il grido di un guerriero ferito a morte. MacGil sentì il metallo freddo che gli si infilava tra le costole, trapassandogli il muscolo e mescolandosi con il suo sangue. La lama veniva spinta a fondo, sempre più a fondo. Era il dolore più intenso che avesse mai immaginato: sembrava penetrargli nel corpo all’infinito. Sussultò con forza e sentì il sangue caldo e salato che gli riempiva la bocca, sentì l’intensità del proprio respiro che accelerava. Si sforzò di sollevare lo sguardo davanti a quel volto che si nascondeva sotto il cappuccio. Si sorprese: si era sbagliato. Non era il viso di suo figlio. Era qualcun altro. Qualcuno che riconobbe. Non riuscì a ricordare chi fosse, ma era qualcuno della sua cerchia. Qualcuno che assomigliava a suo figlio. La sua mente brancolò nella confusione mentre tentava di dare un nome a quella faccia. Mentre quella figura stava in piedi sopra di lui, tenendo saldo il pugnale, MacGil in qualche modo riuscì a sollevare una mano e premerla sulla spalla dell’uomo, nel tentativo di fermarlo. Sentì esplodere in sé la forza del vecchio guerriero, la forza dei suoi antenati. Percepì quella parte di sé per cui era Re e per cui non si sarebbe arreso. Con una spinta fortissima riuscì a spingere indietro il suo assassino. L’uomo era magro, più fragile di quanto MacGil pensasse, e incespicò indietro con un grido, attraversando la stanza. MacGil riuscì ad alzarsi e, con sforzo estremo, si estrasse il coltello dal petto. Lo gettò attraverso la stanza mandandolo a colpire il pavimento di pietra con un clangore metallico: l’arma scivolò sul pavimento fino ad andare a sbattere contro la parete lontana. L’uomo, il cui cappuccio era ricaduto sulle spalle, balzò in piedi e lo fissò con gli occhi sgranati per la paura mentre MacGil avanzava verso di lui. L’uomo si voltò e iniziò a correre, fermandosi solo per recuperare il coltello prima di darsela a gambe. MacGil tentò di inseguirlo, ma l’uomo era troppo veloce e improvvisamente il dolore crebbe, trafiggendogli il petto. Si sentì debole. Rimase lì in piedi, solo nella stanza, e guardò in basso il sangue che gli usciva dal petto bagnadogli il palmo della mano. Crollò in ginocchio. Sentiva freddo, si chinò in avanti e cercò di chiamare aiuto. “Guardie,” disse debolmente. Fece un respiro profondo e con suprema agonia riuscì a raccogliere la sua voce più profonda. La voce del Re di un tempo. “GUARDIE!” gridò. Udì dei passi che provenivano da qualche lontano corridoio e che lentamente si avvicinavano. Sentì una porta che si apriva in lontananza, percepì dei corpi che gli si avvicinavano. Ma la stanza iniziò di nuovo a ruotare, e questa volta non certo per il bere. L’ultima cosa che vide fu il freddo pavimento di pietra che saliva verso di lui per schiantarsi contro il suo volto.
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