Faccia di Luna

2087 Words
Faccia di Luna John Claverhouse aveva la faccia di luna. Avete presente il tipo: zigomi ampi, mento e fronte che si fondono con le guance a formare un cerchio perfetto, e il naso, grosso e tracagnotto, equidistante dalla circonferenza, appiattito al centro del volto come una palla di impasto sul soffitto. Forse è questo il motivo per cui lo odiavo, per cui era diventato un insulto ai miei occhi, e pensavo che la terra fosse funestata dalla sua presenza. Forse mia madre era superstiziosa nei confronti della luna e la guardava nel punto sbagliato al momento sbagliato. Ma comunque sia, odiavo John Claverhouse. Non che avesse fatto nei miei confronti quello che la società potrebbe considerare un torto o un insulto. Tutt’altro. Il male era di un tipo più profondo e sottile; tanto elusivo, tanto intangibile da sfidare una chiara e definita analisi a parole. Noi tutti sperimentiamo cose del genere a un certo punto della nostra vita. Vediamo per la prima volta un certo individuo, uno di cui l’istante prima non sognavamo neppure l’esistenza; eppure il primo momento in cui lo incontriamo diciamo: “Non mi piace”. Perché non ci piace? Ah, non sappiamo perché; sappiamo solo che non ci piace. Lo abbiamo preso in antipatia, ecco tutto. E così io con John Claverhouse. Che diritto aveva un uomo simile di essere felice? Eppure era un ottimista. Era sempre allegro e sorridente. Gli andava sempre tutto bene, accidenti a lui! E quanto mi dava fastidio che fosse così felice! Altri uomini potevano ridere senza che questo mi disturbasse. Persino io ridevo un tempo – prima di incontrare John Claverhouse. Ma la sua risata! Mi irritava, mi faceva infuriare, come nient’altro al mondo poteva irritarmi o farmi infuriare. Mi perseguitava, mi afferrava e non mi lasciava andare. Era una risata enorme, gargantuesca. Sonno o veglia, era sempre con me, ronzando e stridendo sulle corde del mio cuore come un’enorme raspa. Allo spuntar del giorno arrivava fischiettando attraverso i campi per rovinare le mie piacevoli fantasticherie mattutine. Sotto il doloroso bagliore di mezzogiorno, quando le cose verdi si ripiegavano e gli uccelli si ritiravano nelle profondità della foresta, e tutta la natura si assopiva, i suoi grandi “Ha! Ha!” e “Ho! Ho!” si levavano al cielo e sfidavano il sole. E nella nera mezzanotte, dall’incrocio solitario che attraversava per tornare dalla città a casa sua, giungevano le sue cachinnate pestilenziali a svegliarmi dal sonno e a farmi fremere e serrare le unghie nei palmi delle mani. Uscii di nascosto di notte, e portai il suo bestiame nei campi, e la mattina sentii la sua risata fragorosa mentre li riportava fuori di nuovo. «Non è niente», disse, «queste povere, stupide bestie non sono da biasimare se si sono allontanate in pascoli più ricchi». Aveva un cane che chiamava Mars, una bestia grossa e splendida, in parte segugio e in parte mastino, e simile a entrambi. Mars gli era infinitamente caro, ed erano sempre insieme, quei due. Ma aspettai il momento giusto, e un giorno, quando ritenni fosse il momento opportuno, attirai l’animale lontano da lui e gli diedi una bistecca piena di stricnina. Questo non fece alcuna impressione a John Claverhouse. La sua risata rimase cordiale e frequente come sempre, e la sua faccia di luna quella di sempre. Poi diedi fuoco al suo fienile e ai covoni. Ma la mattina dopo, domenica, uscì allegro e gioioso. «Dove vai?» gli chiesi, mentre si avvicinava all’incrocio. «Trote», disse, e la faccia brillava come una luna piena. «Vado pazzo per le trote». C’è mai stato un uomo così impossibile! Tutto il suo raccolto era andato in fumo con i covoni e il fienile. Non era assicurato, lo sapevo. Eppure, di fronte alla prospettiva della carestia e di un rigido inverno, usciva allegramente alla ricerca di un mucchio di trote, perché “ne andava pazzo”, davvero! Se solo la tristezza si fosse posata, non importa quanto leggermente, sulla sua fronte, o se il suo aspetto bovino si fosse fatto serio e meno simile alla luna, o se si fosse tolto anche solo una volta quel sorriso dalla faccia, sono sicuro che lo avrei perdonato per il fatto di esistere. Ma no, diventava sempre più allegro nonostante le disgrazie. Lo insultai. Mi guardò con lenta e sorridente sorpresa. «Picchiarti? Perché?» chiese lentamente. E poi rise. «Sei proprio divertente! Ho! Ho! Mi farai morire! He! He! He! Oh! Ho! Ho!» Cosa avreste fatto? Ero oltre ogni sopportazione. Per il sangue di Giuda, quanto lo odiavo! Poi c’era quel nome – Claverhouse! Che nome! Non è assurdo? Claverhouse! Santo Cielo, perché Claverhouse? Mi ripetevo di continuo quella domanda. Non mi avrebbe dato fastidio Smith, o Brown, o Jones – ma Claverhouse! Provateci voi. Provate a ripeterlo… Claverhouse. Sentite quanto suona ridicolo – Claverhouse! Può vivere un uomo con un nome simile? Lo chiedo a voi. “No”, dite voi. E “No” dico io. Ma ripensai alla sua ipoteca. Con i suoi raccolti e il fienile distrutti, sapevo che non sarebbe stato in grado di pagarla. Perciò trovai un finanziatore scaltro, di poche parole, implacabile, per farsi trasferire l’ipoteca. Io rimasi nell’ombra, ma attraverso questo agente forzai il pignoramento, e a John Claverhouse vennero dati pochi giorni (niente di più, credetemi, di quelli permessi dalla legge) per portare via i suoi beni e togliersi dai piedi. Poi feci un giro per vedere come l’aveva presa, visto che viveva lì da venti anni. Ma lui mi accolse con i suoi occhioni tondi che scintillavano, e la luce si irradiava e brillava sulla sua faccia come una luna piena. «Ha! Ha! Ha!», rise. «È proprio una sagoma, il mio figlio piccolo! Hai mai sentito una cosa del genere? Ti racconto. Stava giocando sulla riva del fiume quando un pezzo del bordo si è staccato e l’ha schizzato. “Oh, papà” ha urlato, “mi è caduta addosso una grande pozzanghera”». Si interruppe e attese che mi unissi alla sua risata infernale. «Non vedo cosa ci sia di divertente», dissi brusco, e sapevo che la mia espressione era diventata livida. Mi guardò con stupore, e poi arrivò quella luce maledetta, che splendeva e si diffondeva, come l’ho descritta, fino a che la sua faccia brillò calda e soffice, come la luna d’estate, e poi la risata: «Ha! Ha! Divertente! Non hai capito, eh? He! He! Ho! Ho! Non l’ha capita! Ti spiego. Sai una pozzanghera…» Ma girai sui tacchi e me ne andai. Era il colmo. Non potevo sopportare oltre. La faccenda doveva finire, pensai, maledetto lui! Doveva lasciare questa terra. E mentre salivo sulla collina, sentivo la sua mostruosa risata che rimbombava contro il cielo. Ora, mi faccio vanto di fare le cose per bene, perciò quando decisi di uccidere John Claverhouse avevo in mente di farlo in modo tale da non guardarmi indietro e provare vergogna. Odio i pasticci e odio la brutalità. C’è qualcosa di ripugnante nel colpire qualcuno a mani nude – è nauseante! Perciò sparare, o accoltellare, o uccidere a bastonate John Claverhouse (ah, quel nome!) non mi attirava. E non solo mi sentivo obbligato a farlo in maniera ordinata e artistica, ma anche in un modo che non potesse portare su di me il benché minimo sospetto. A questo scopo sforzai il mio intelletto, e dopo una settimana di profonde elucubrazioni, elaborai il piano. Poi mi misi al lavoro. Comprai una cucciola di cinque mesi di razza water spaniel, e dedicai tutta la mia attenzione ad addestrarla. Se qualcuno mi avesse spiato, si sarebbe accorto che questo addestramento consisteva solo in una cosa: il riporto. Insegnai al cane, che chiamai “Bellona”, a riportare i bastoni che lanciavo in acqua, e non solo a riportarli, ma a riportarli immediatamente, senza morderli o giocarci. Lo scopo era che non si doveva fermare per nessun motivo, ma solo riportarmi il bastone nel minor tempo possibile. Mi allenavo a correre via mentre lei mi inseguiva, con il bastone in bocca, finché non mi raggiungeva. Era un animale intelligente, e accettò il gioco con tale foga che ben presto fui soddisfatto. Successivamente, alla prima occasione, presentai Bellona a John Claverhouse. Sapevo il fatto mio, perché conoscevo una sua piccola debolezza, e un piccolo peccatuccio di cui si rendeva colpevole regolarmente e inveteratamente. «No», disse, quando gli misi in mano l’estremità del guinzaglio. «No, non dici sul serio». E la sua bocca si spalancò e la sua dannata faccia di luna divenne tutta un sorriso. «Pensavo, sai, che non ti fossi simpatico», spiegò. «Non è curioso?» E al pensiero si tenne i fianchi dal ridere. «Come si chiama?» riuscì a chiedere tra i parossismi. «Bellona», dissi. «He! He!», ridacchiò. «Che nome buffo». Digrignai i denti, perché la sua allegria li metteva a dura prova, e sibilai tra essi: «Era la moglie di Mars, sai». E la luce della luna piena cominciò a soffondersi sulla sua faccia, finché esplose in un: «Era il mio vecchio cane. Bè, quindi ora è una vedova. Oh! Ho! Eh! He! Ho!» strillò, e io mi girai e mi incamminai rapidamente sulla collina. Passò una settimana, e sabato sera gli dissi: «Parti lunedì, non è vero?» Lui annuì e sorrise. «Allora non avrai un’altra occasione di prendere quelle trote di cui vai tanto “pazzo”». Non notò il mio ghigno. «Oh, non lo so», ridacchiò. «Domani vado su a provarci con tutte le mie forze». Così la rassicurazione fu doppiamente sicura, e io tornai a casa congratulandomi con me stesso. Il giorno dopo, di buon mattino, lo vidi passare con una rete e un sacco da pesca, e Bellona che gli trotterellava alle caviglie. Sapevo dove era diretto, e tagliai per i campi e mi arrampicai per il sottobosco fino alla cima della montagna. Restando sempre fuori dalla sua visuale, seguii la cresta per un paio di miglia fino a un anfiteatro naturale tra le montagne, dove il fiumiciattolo correva giù da una gola e riprendeva fiato in una pozza larga e placida. Quello era il posto! Mi sedetti sulla groppa della montagna, dove potevo vedere tutto ciò che accadeva, e accesi la pipa. Prima che fossero passati molti minuti, John Claverhouse si avvicinò risalendo il letto del fiume. Bellona trotterellava accanto a lui, ed erano pieni di brio, con i brevi e acuti abbai della cagnetta che si mescolavano alle note di petto di lui. Arrivati alla pozza, lui mise a terra la rete e il sacco e tirò fuori dalla tasca quella che sembrava una grossa e spessa candela. Ma io sapevo che era un candelotto di “gigante”: perché questo era il suo metodo di prendere le trote. Con la dinamite. Attaccò la miccia avvolgendo il candelotto in un pezzo di stoffa. Poi accese la miccia e lanciò l’esplosivo in acqua. Come un lampo, Bellona era in acqua a inseguirlo. Avrei strillato di gioia. Claverhouse urlò al cane, ma invano. La bersagliò con zolle e rocce, ma lei nuotò indefessa finché non prese il candelotto in bocca, solo allora si girò su sé stessa e si diresse a riva. Poi, per la prima volta, lui capì il pericolo che correva, e cominciò a correre. Come avevo previsto e programmato, lei raggiunse la riva e cominciò a inseguirlo. Oh, vi assicuro, è stato fantastico! Come ho detto, la pozza si trovava in una specie di anfiteatro. Sopra e sotto, il ruscello poteva essere attraversato su dei gradini di roccia. E intorno, su e giù e attorno alle pietre, correvano Claverhouse e Bellona. Non avrei mai creduto che un uomo tanto sgraziato potesse correre così veloce. Ma correva, e Bellona velocissima dietro di lui, a guadagnare terreno. E poi, proprio mentre lo raggiungeva, lui in piena corsa, e lei con il muso sulle ginocchia dell’uomo, ci fu un lampo improvviso, uno sbuffo di fumo, una terribile detonazione, e dove un istante prima c’erano l’uomo e il cane non rimase nient’altro che un grosso buco nel terreno. «Morte per incidente dovuto a pesca illegale». Questo fu il verdetto del coroner; ed è per questo che mi faccio vanto del modo artistico e pulito con cui ho fatto fuori John Claverhouse. Nessuno spargimento di sangue, nessuna brutalità; niente di cui vergognarmi in tutta la faccenda, sono sicuro che concorderete. Non più la sua risata infernale riecheggerà tra le colline, e non più la sua grassa faccia di luna si alzerà per tormentarmi. I miei giorni sono pacifici ora, e il sonno notturno è profondo.
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