1.
Quando arrivai alla Midtown Data il caos stava raggiungendo il suo culmine. Per esperienza sapevo che ci sarebbero stati degli altri momenti folli, ma che pian-piano tutto sarebbe tornato alla normalità. Entro l’ora di cena la situazione sarebbe stata quasi tranquilla. Ma in quel momento tutti dovevano essere sotto shock, pronti perché noi gli spremessimo il massimo delle informazioni con il minimo sforzo.
Il problema era arrivare fin lì. La stretta Thames Street era stata transennata e per qualche motivo questo aveva completamente bloccato il traffico sulla Broadway. I curiosi si accalcavano all’imboccatura della strada, tenuti a distanza dagli agenti in divisa.
Thompson spense il lampeggiante, guardò verso la gente che scattava foto con il cellulare e sospirò. Mollò la macchina sul marciapiede della Broadway in corrispondenza dell’incrocio, subito dietro a due auto di pattuglia.
«Dovevamo prendere la signora fatta a pezzi dal figlio» disse, in tono fatalista, aprendo la portiera.
Non sapevo come dargli torto. Un morto in pieno distretto finanziario sembrava superiore alla capacità di sopportazione di chiunque. La settimana non stava iniziando benissimo.
Mi allacciai bene il cappotto e lo seguii verso le transenne. Gli alti palazzi di pietra grigia, gotici e severi, toglievano quasi tutta la luce a Thames Street. Il che probabilmente era un bene, dato che l’unica cosa che c’era da vedere in Thames Street era una larga macchia rossa e appiccicaticcia sull’asfalto, un po’ più vicina al marciapiede destro. Attorno a quella macchia si affollavano gli agenti della scientifica, coperti dalle loro tutine bianche. Dato che eravamo vicini allo zero, molti di loro avevano una strana forma, perché sotto alla tuta portavano la giacca.
Thompson mostrò il suo distintivo a un agente in divisa e io feci lo stesso. Il classico gesto veloce, pro-forma, con cui fai baluginare davanti agli occhi del tuo interlocutore le tue credenziali senza mostrargliele veramente. Non ce n’era bisogno: gli agenti sapevano benissimo che eravamo due detective della Sezione Omicidi.
L’agente fece allontanare a sufficienza i curiosi da lasciarci passare. Sentii una ragazza che diceva a qualcuno «...qualche promoter finanziario, la pressione...».
Io e Thompson ci avvicinammo alla macchia che era tutto quello che restava del “promoter finanziario” o qualunque fosse il suo vero mestiere.
«Detective Stone, detective Thompson...» ci salutò il detective Kyle, che coordinava la squadra CSU che si stava occupando della macchia.
Thompson guardò verso l’alto. «Non che ci sia molto da vedere, mh? Da quale finestra...»
Kyle ci indicò una finestra a ghigliottina al settimo o all’ottavo piano, l’unica aperta. «Di lì. È venuto giù come un sacco... fine della storia. O meglio, no» concluse, con una smorfia.
Quella era, in effetti, una scena del crimine senza un corpo. Quando il signor Mendel era atterrato era ancora vivo. Era stato prelevato da un’ambulanza ed era morto prima di raggiungere l’ospedale, ma ovviamente il suo corpo non era più lì.
Sbuffai e sbattei i piedi per terra. L’aria era fredda, come ho già detto, fredda e umidissima. «Davies... non credo che ci sia nient’altro da vedere, qua. A meno che anche tu non voglia fare una foto alla macchia con il cellulare...» suggerii, facendogli segno con le mani di andarcene – senza togliere le mani dalle tasche del cappotto.
Thompson grugnì e mi seguì di nuovo verso le transenne. Passammo tra i curiosi e andammo verso l’ingresso dell’edificio alla nostra sinistra, ovvero l’alto palazzo gotico, art decò o quel che era da cui era piovuto il signor Mendel. Il portone era un gigantesco arco lavorato e al piano terra c’era un ristorante di quelli costosi, con delle grandi tende bordeaux che spiovevano sopra alle finestre. Purtroppo spiovevano solo sulla Broadway, non su Thames Street, altrimenti il signor Mendel ci sarebbe passato attraverso e forse, chissà, con un po’ di fortuna non avremmo proprio avuto quel caso.
Entrammo nel portone, che era alto e cupo come il resto del palazzo. Finiture di mogano lucido, pavimenti di marmo... avete capito. Il portiere ci indirizzò all’ottavo piano.
«Che cos’è che fanno, questi della Midtown Data?» mi chiese Thompson, mentre salivamo in ascensore. «E perché si chiama Midtown Data, visto che non è Midtown?».
«Ti sembrò la loro addetta stampa?» replicai io, di malumore.
Thompson ridacchiò. «Cristo, Lou, come sei acida».
«Ho freddo. Mi sono coperta troppo poco» spiegai io.
L’ascensore si fermò all’ottavo piano e di lì in poi capire dove andare fu semplice. C’era solo una porta aperta, sul grande pianerottolo, e da quella porta provenivano delle grida attutite.
Alzai gli occhi al cielo, entrando per prima. L’interno della sede della compagnia era intonato al palazzo. Spessa moquette, finiture di legno lucido, un piccolo atrio lussuoso e degli uffici altrettanto piccoli e lussuosi, a giudicare da quello che si vedeva dalle porte aperte. Quel posto aveva conservato la struttura di un appartamento, anche se chiaramente non lo era da moltissimo tempo.
Le grida adesso si sentivano molto bene. Era la voce di un uomo evidentemente furioso.
«C’è un freddo fottuto, ecco perché! Milton è già saltato, okay? Mi sa spiegare per quale cazzo di motivo dobbiamo crepare anche noi?».
Entrai nella stanza da cui provenivano gli strepiti e mi feci un’idea della loro motivazione. Mentre il resto degli uffici era piacevolmente tiepido, quello era freddissimo. All’interno della stanza c’erano due agenti in divisa, un uomo in completo grigio (quello che urlava) e una giovane donna in lacrime, su una poltrona. La finestra a ghigliottina dietro alla scrivania era aperta.
Uno degli agenti si voltò e lanciò a me e a Thompson un’occhiata interrogativa.
Noi facemmo baluginare davanti ai suoi occhi il distintivo. Mi voltai verso l’uomo che urlava (che ora non urlava più) e dissi: «Detective Thompson e Stone, Omicidi. Lei è?».
«Nicholas Bryant» disse l’uomo, passandosi una mano tra i capelli in segno di stanchezza. «Sono il direttore. Questo è il mio ufficio. So che è una cosa orribile e tutto quanto, ma non si potrebbe chiudere la dannata finestra?».
«La CSU ha già fatto i rilievi?» chiesi all’agente.
«Sì, signora» rispose lui. Sembrava sul punto di tirare fuori la pistola e sparare a casaccio. Anch’io ero sul punto di farlo, quindi lo capivo benissimo. In quel caso tutto l’incasinabile era stato incasinato.
Tornai a rivolgermi a Bryant. «Ho una notizia buona e una cattiva, signore» sospirai. «Quella buona è che la finestra si può chiudere. Quella cattiva è che questo non è più il suo ufficio. Se potessimo spostarci... il mio collega metterà i sigilli».
Incontrai lo sguardo di Thompson e capii che stava pensando esattamente quello che pensavo io: di quando in qua si lasciano tranquillamente dei civili su una scena del crimine?
Mi aspettavo che il direttore protestasse, ma invece sembrò sollevato. Si chinò sulla giovane in lacrime e le mormorò: «Forza, Rose... dobbiamo spostarci, okay?». La aiutò ad alzarsi e la pilotò fuori dalla stanza, usando un’altra porta rispetto a quella da cui eravamo entrati io e Thompson.
«Lei sarebbe?» chiesi alla giovane.
«Rosalyn Hughes... sono la segretaria di N- del signor Bryant».
L’altro sospirò, ma non disse niente. Accompagnò la segretaria fino a una scrivania e la fece sedere sulla poltroncina.
Si strofinò le mani per riscaldarle.
«Cerchiamo di ridurre gli inconvenienti per tutti» disse Thompson, con aria da bravo sbirro educato. «Qualcuno ha visto il signor Mendel, come dire... cadere?».
Sia Bryant che Hughes scossero la testa. La ragazza, tuttavia, riprese a piangere. «Io... io l’ho visto entrare...» singhiozzò.
Thompson mi lanciò un’occhiata. «Prenderò la sua dichiarazione tra qualche minuto, signorina. Intendevo se qualcuno... nell’intero ufficio...»
«No, no» lo prevenne Bryant. Sembrava molto più tranquillo di prima. «L’ha fatto durante la pausa pranzo. Rose è stata l’unica a vederlo entrare, per quel che ne so».
«Okay» dissi io «signor Bryant, ci servirebbe la sua collaborazione. Un posto dove prendere le dichiarazioni di tutti i dipendenti. Due posti, se è possibile, in modo che possiamo dividerci i compiti».
«Mh-mh» fece lui. «Sì, ehm, qua, direi... e, prego, mi segua, possiamo usare anche la cucina, non credo che qualcuno abbia voglia di...»
Si interruppe a metà della frase, un po’ confuso. «In realtà, io avrei voglia di una tazza di tè caldo. L’ufficio di Milton è fuori questione, suppongo... butterò fuori Chester».
Presa questa decisione, mi precedette fuori dalla stanza, lungo un corridoio. Si affacciò a una porta aperta. «Chester? Ci serve il tuo ufficio, mi dispiace».
Un uomo grosso, in giacca anche lui, si alzò da dietro una scrivania e annuì compostamente. «È pazzesco» mormorò.
«Già» concordò Bryant, dandogli una pacca su un braccio mentre usciva. Andò verso la scrivania dell’altro, ma poi si voltò di nuovo. «Senti... saresti mica così gentile da fare un po’ di tè? Per me e... detective?».
Annuii. «Volentieri».
«E anche per Rose, magari... è sconvolta» concluse lui, lasciandosi cadere sulla poltrona dell’altro. Chiusi la porta. «Anche se in realtà dovrebbe essere lei a preparare il tè per tutti. Be’...» alzò lo sguardo su di me. «Si accomodi, prego. O voleva sedersi qua?».
Sorrisi. «Non importa».
Bryant sembrò vagamente imbarazzato per il fatto di essersi seduto dietro alla scrivania e non davanti, ma accantonò la cosa con una scrollata di spalle. Mi sedetti davanti a lui e tirai il taccuino fuori dalla borsa.
«Mi scusi se glielo chiedo così, a bruciapelo, ma lei e la signorina Hughes avete una relazione?» iniziai.
Bryant mi lanciò un’occhiata perplessa e un po’ seccata. «E che cosa c’entra?» fece. Poi alzò una mano e sbuffò. «No, non abbiamo una relazione». Non dovetti sembrargli molto convinta, perché si decise ad aggiungere: «Non più».
Gli rivolsi un sottile sorriso. «Non capita molto spesso di vedere un datore di lavoro partecipe come lei. E, no, probabilmente non c’entra niente».
«Guardi che non sono un mostro, se non mi tengono chiuso in una ghiacciaia per mezz’ora. Oh, grazie, Chester, sei impagabile».
Il tizio grosso che avevo visto prima era entrato e aveva posato sulla scrivania un vassoio con due tazze di tè e delle bustine di zucchero. Borbottò un vago ringraziamento e uscì di nuovo. Bryant mi fece segno di servirmi.
Per inciso, pensavo che fosse un uomo bellissimo. Era stata più o meno la prima cosa che avevo pensato, entrando e trovandolo che sbraitava. Doveva essere sulla cinquantina, snello, con dei folti capelli di un grigio fin troppo chiaro per la sua età e un viso dall’ossatura magnifica, su cui spiccavano due occhi color smeraldo, sottili e seducenti. Anche così, doveva avere una venticinquina di anni più della piangente Rosalyn.
«Milton Mendel» dissi, bevendo il primo sorso di tè.
Lui si rigirò la tazza tra le mani, pensando. «Credo di essere scioccato, alla fine» mormorò. «Milton... Milton era l’uomo più tranquillo del mondo. Era il capo del personale, qua. E... bah, in realtà non ho molto da dire su Milton. Credo che fosse sposato. Mi dispiace, non credo di conoscerlo molto bene... mi vengono in mente solo cose stupide, tipo che il lunedì arrivava sempre in ritardo e usciva sempre un po’ dopo per recuperare. Non era un problema, ma confesso di non avergli mai chiesto il motivo. Lavorava con noi da... sei, sette anni. Era stato assunto quando eravamo ancora nella vecchia sede».
«A Midtown» dissi io.
Lui sorrise appena. «Già. Tutto ha una spiegazione». Sospirò lievemente. «Anche se riguardo a Milton non saprei proprio dirle quale potrebbe essere. Non avrei mai pensato che potesse fare una cosa del genere. Non mi è mai sembrato depresso o... non so. Non so come dovrebbe essere uno che sta per buttarsi dall’ottavo piano».
«E ha qualche idea del perché abbia scelto il suo ufficio?».
«Ecco, brava, perché?» fece lui, con un gesto estenuato. «O meglio, il suo ufficio dava su un cortile interno. Forse è stato per questo, non lo so. Ma perché proprio il mio? Non penso di avergli fatto niente di male».
Presi un piccolo appunto e tornai a guardarlo. «No?».
Lui sembrò quasi risvegliarsi, come se si fosse dimenticato che quella che stava rendendo era una dichiarazione a un pubblico ufficiale.
«Mh, non penso. Voglio dire, sono il direttore. Probabilmente prima o poi ho fatto qualche carognata a tutti i dipendenti, ma gli altri non sono venuti a buttarsi giù dalla finestra del mio ufficio».
«E che razza di carognata ha fatto al signor Mendel?».
Lui mi mostrò il palmo delle mani, impotente. «Ecco, non lo so. Potrei avergli rifiutato un giorno di vacanza, o potrei averlo caricato di lavoro quando proprio non gli ci voleva, o... boh. Non abbiamo mai avuto discussioni, non abbiamo mai litigato. È anche vero che Milton non era un tipo litigioso. Non cercava il confronto, se capisce quello che intendo. E forse non mi sarei accorto se mi avesse detestato per qualche motivo. Non sono un datore di lavoro poi così partecipe, temo».
«Di che cosa si occupa la Data Midtown?».
Bryant sbatté le palpebre, sorpreso che non lo sapessi. «Statistica, no? Analizziamo i dati di mercato per diverse società quotate in borsa».
«E il signor Mendel... ha detto che era il capo del personale?».
«Sì, esatto».
«Quindi lui non era direttamente in contatto con queste società, giusto?».
Di nuovo, Bryant mi sembrò stupito che non lo sapessi. «Be’, no. Quello è il mio lavoro».
Sospirai. «Capisco» dissi. «Potrebbe dirmi come si è svolta la sua giornata?».
Lui si grattò il mento. «Mh, dunque... mi sono alzato alle otto. Alle nove ero qua. Ho incontrato due clienti, uno alle nove e mezza, uno alle dieci. Alle undici sono andato al centro benessere qua di fronte. Sarò tornato intorno a mezzogiorno meno un quarto, più o meno. All’una dovevo vedermi con un’altra cliente da Masa, al Warner Center, ma prima sono passato da Vuitton, qua in Greene Street, per comprare un foulard – per la cliente, non per me. Poi ho preso un taxi per il Warner Center, ma mi hanno chiamato dall’ufficio prima che arrivassi e quindi sono tornato qua».
«Dovrebbe dirmi i nomi dei suoi clienti. E se ha una ricevuta del foulard mi piacerebbe vederla» dissi, preparandomi a scrivere.
Bryant mi dettò tutti i nomi e aggiunse che pensava di avere una ricevuta, nella tasca del cappotto.
«Quando è arrivato...»
«Quando sono arrivato avevano portato via Milton da pochi minuti. La strada era tutta sporca di sangue e c’era pieno di gente che si accalcava per guardare. Sono salito e Rose mi ha detto che Milton si era buttato giù da una delle finestre del mio ufficio. Erano tutti nel panico. Quegli agenti hanno detto di non toccare la finestra e aveva anche un senso... per i primi dieci minuti. Poi ho capito che la scientifica aveva già fatto i suoi rilievi e che ci stavano tenendo lì al gelo senza una ragione comprensibile...»
Gli rivolsi un sorriso accomodante. «Lo capisco. Mi dispiace, evidentemente hanno interpretato male gli ordini. Va meglio, dopo il tè?».
Lui guardò la tazza che aveva davanti. Sospirò. «Mi sono dimenticato di berlo» ammise. «Lo sa? Mi sento davvero strano. Non mi era mai successa una cosa del genere. È sconvolgente pensare che...» Si interruppe. Mi guardò. Sembrava davvero un po’ perso. «No, scusi. Non voglio ammorbarla con le mie banali riflessioni. In che modo posso...»
«Spero di poterla aiutare io» sorrisi. «Le dico che cosa succederà ora. Questo la aiuta?».
«Credo di sì».
«Adesso prenderemo le dichiarazioni di tutti i dipendenti. Nei prossimi giorni la CSU e l’ufficio di medicina legale ci faranno sapere i dettagli della morte del signor Mendel e noi decideremo se si tratta di un caso di suicidio, di morte accidentale o altro. Fino a quel momento il suo ufficio e quello di Mendel dovranno restare sigillati... lo capisce, vero?».
Bryant annuì. «Sì, okay. Tanto i dati sono in condivisione. Non bloccherete i computer, vero?».
Scossi la testa. «Per il momento non c’è motivo di farlo. Ma potrebbe doverli esaminare un nostro esperto informatico».
Lui annuì di nuovo.
Gli feci segno che poteva andare e mi presi il suo posto dietro alla scrivania per il resto delle dichiarazioni.
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Tornammo al 1° Distretto che era ormai buio. Dovete capire che il triste volo di Milton Mendel non ci avrebbe turbato il sonno. Succedeva abbastanza spesso che la gente della finanza si buttasse giù dalla finestra del suo ufficio (o dell’ufficio del capo). Dopo il fallimento di Lehman Brothers ne avevamo visti un bel po’.
Mendel era entrato nell’ufficio di Bryant verso mezzogiorno e mezza, quando tutti erano in pausa pranzo. Rosalyn l’aveva visto entrare, ma dato che aveva una cartelletta in mano e che l’ufficio era vuoto non ci aveva fatto caso. Anche lei stava mangiando, il tramezzino che aveva comprato quella mattina prima di entrare. Dopo pochi secondi aveva iniziato a sentire le urla della gente, giù in strada.
Insomma, quel caso non aveva proprio niente di speciale, se si escludeva la speciale bellezza di Nicholas Bryant. O meglio, la sua bellezza secondo me, perché mi rendevo conto che a qualcun altro avrebbe potuto fare un’impressione diversa. Ma era esattamente il mio tipo.
Accantonai la questione, consapevole che comunque non sarebbe mai successo niente, e accantonai anche il caso Mendel.
«Non restare a spulciare i fascicoli» mi ammonì Thompson, prima di andarsene.
«No, no» lo rassicurai. Quella sera non ce la facevo proprio.
Ci stavamo occupando di un caso dai contorni ancora incerti. Avevamo quattro corpi – non belle ragazze fotogeniche, per fortuna, ma anziani operatori finanziari – tutte persone morte in circostanze oscure. I miei superiori avevano lasciato intendere che non era il primo dei nostri pensieri, ma avevo delle difficoltà a lasciare perdere. Mi piacciono le cose spiegabili, ordinate, e quelle morti non lo erano.
I nostri operatori finanziari avevano avuto degli incidenti. Strani incidenti a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro. A uno era finita addosso una macchina mentre, alla guida anche lui, stava attraversando un incrocio. L’altro conducente era svanito, il veicolo rubato. Il secondo operatore era scivolato mentre passeggiava in Battery Park. Si era allontanato dal viottolo asfaltato e probabilmente aveva messo un piede su una foglia morta. Il terzo aveva avuto un incidente in casa, cioè, nel suo pied-à-terre di Manhattan. Aveva chiamato una ragazza da un sito di escort, si era imbottito di Viagra e ci aveva lasciato le penne. La cosa curiosa era che prendeva farmaci che rendevano il Viagra controindicato: poteva davvero non saperlo? Il quarto... sul quarto non ero sicura. Era morto due giorni prima e mi sembrava in qualche modo simile agli altri, ma poteva essere un caso. Aveva mangiato per sbaglio un sandwich con dei crostacei... a cui era gravemente allergico.
Ma quella sera ero troppo stanca per scavare nei fascicoli alla ricerca di un dettaglio sottovalutato. Anche perché, sebbene i casi rimanessero ufficialmente aperti, non erano una priorità per il distretto.
Mi allacciai bene quello stupido cappotto troppo leggero e andai a prendere la macchina.
Ora, tenete conto che abitavo nel Queens. Dal lavoro a casa, nei momenti migliori, ci mettevo quaranta minuti. Nei momenti normali ci mettevo un’ora. La sera, in orario di rientro, mi ci voleva tra l’ora e dieci e l’ora e mezza.
Al mio arrivo, quanto meno, scoprii che Claire aveva già lavato l’insalata e che mi restava solo da fare alla griglia la carne che avevo surgelato nel week-end.
Mi tolsi il completo-pantalone quasi-elegante che avevo portato al lavoro e mi infilai dei vestiti da casa.
«Quanti morti ammazzati, oggi?» scherzò mia figlia, dal divano.
Claire aveva quattordici anni, un taglio di capelli assurdo, un piercing nel naso e un visino che poteva stenderti.
«Naa, in realtà nessuno. Uno della finanza si è buttato di sotto, nient’altro» risposi io, tirando fuori dal freezer la bistecca. «Tu che cosa hai fatto?».
Claire sbuffò. «I compiti, di base. Venerdì abbiamo i test intermedi di matematica. Sabato, però, volevo andare al bowling».
La guardai con un sopracciglio inarcato. «Sai che quel posto non mi fa impazzire » dissi.
«Lo so, ma ci vanno tutti!» protestò lei.
«Il che non significa automaticamente che debba andarci anche tu, no?».
«Ma’, per favore!».
Davvero non mi piaceva quel posto. Potevi trovarci di tutto, dai pedofili agli spacciatori. Non che il resto del mondo fosse un bon-bon, ma lì le proporzioni erano più sfavorevoli alla normale gente perbene. Cosa che, ovviamente, lo rendeva irresistibile per mia figlia.
Sospirai. «Torni alle sette. Alle sette ti telefono al fisso e se non mi rispondi ti giuro che non esci fino all’anno prossimo – dopo capodanno. È chiaro?».
Claire venne a saltellare fino a me e mi abbracciò. Con quello finì di fregarmi, è chiaro.
«E se per caso dovessi venire a sapere che hai fumato o peggio... non esci più fino ai diciott’anni» la minacciai. Ma non ero più molto in parte.
La verità era che non potevo lamentarmi di Claire. Andava bene a scuola, era relativamente giudiziosa. L’avevo avuta a vent’anni da un uomo che non valeva una cicca e dai cinque anni in poi l’avevamo tirata su mia madre e io. Lavorare nella Omicidi e crescere una bambina non erano sempre state attività compatibili. Claire aveva sopportato e aveva capito, il che la rendeva la mia piccola eroina, per quanti tagli di capelli strani si facesse e orecchini sulla faccia portasse.
«Vuoi andare dal signor Kent, per la matematica?» le chiesi, mentre la bistecca iniziava a rosolare.
Lei si strinse nelle spalle. «Posso farcela da sola» disse. Poi mi rivolse uno dei suoi sorrisi irresistibili. «Credo».