Nota del traduttore
Nota del traduttore
Questo non lungo racconto, che uscì la prima volta nel 1855, e venne compreso l’anno dopo nei ‘Piazza Tales’, è uno degli ultimi guizzi creativi tentati dalla fantasia di Herman Melville. Volgeva alla fine il prodigioso decennio (1845-55), che vide uscire, un anno dopo l’altro, quasi tutta la sua opera. Dopo il 1857 Melville entrerà nel suo lungo silenzio che, appena increspato da uno stanco tentativo poetico cui l’autore sarà il primo a non credere, durerà fino alla morte, avvenuta a settantadue anni nel ’91. Un’eccezione, la novella Billy Budd, composta qualche mese prima della fine, è una felice incongruenza, un frutto fuori stagione.
A una a una le opere più ambiziose di Melville – ‘Mardi’, ‘Moby d**k’, ‘Pierre’ – erano cadute in un lago d’indifferenza suscitando tutt’al più qualche sdegnata stroncatura e dissipando quella prima atmosfera di curiosità che aveva circondato il protagonista delle avventure polinesiane, ‘l’uomo che aveva vissuto coi cannibali’. La ricchezza pregnante del suo nuovo stile e dei mondi da lui evocati, dove sempre più s’accentuava la tendenza a uscire dalla battuta strada del sensibile per smarrirsi nella foresta delle corrispondenza e dei simboli, indisponeva e offendeva un pubblico assai più provinciale e vittoriano di quello contemporaneo inglese. Quanto più Melville si sforzava a scavare e trasfigurare in simboli spirituali le sue esotiche esperienze, tanto più lettori e critici si sentivano mancare il fiato e gli facevano una colpa di sacrificare alle metafisicherie tanta materia pittoresca. Si aggiunga che Melville aveva sperato cominciando a scrivere, di guadagnarsi il pane per sé e per la famiglia, e di qui era nata la sua attività frenetica del decennio, frenesia che non fu senza effetto sulla sua salute fisica e interiore. Ma, siccome ogni nuovo libro era un più accanito tentativo di dar fondo all’universo, abbracciando materia sempre più vasta e inesplorata e, insieme, complicando sempre più i meandri dell’espressione (per quella legge d’analogia che vuole che la struttura della singola frase ripeta quella del tutto), accadeva che toccasse ai lettori e ai recensori il compito di ricordargli che la società non dà nulla per nulla e chi vuole esserne acclamato deve in sostanza divertirla o viziarla. Era, tutto sommato, un semplice equivoco, tuttavia già al tempo di ‘Moby d**k’ (1851) Melville sembra aver perduto ogni illusione e, mentre da un lato comincia a ventilare di seppellirsi in un impiego, dall’altro ha ormai preso il partito di affrontare nei suoi ultimi libri i motivi più impossibili nel più impossibile degli stili.
Ma qualunque sia il giudizio da pronunciare sulle opere di questo febbrile crepuscolo, ‘Benito Cereno’ appartiene, per consenso ormai comune, alla sua vena migliore. Anzitutto, è una storia di mare, e mai il mare tradisce la fantasia di Melville. È curioso come una esperienza durata poco più di quattro anni e conclusa quand’egli ne aveva ventisei, gli abbia invaso tutta l’anima, filtrando a interessarne le radici più segrete. Le più eterogenee esperienze prendono nel suo cervello il sapore e il campo dell’oceano. Non c’è scatto della sua sensibilità che non vibri fantasticamente, e talvolta per richiami sottilissimi, in quella salsa atmosfera. L’introduzione ai ‘Piazza Tales’ (I ‘Racconti della Veranda’) che descrive il ritiro campestre di Arrowhead fra le colline del Berkshire, dove Melville si ridusse a vivere gli ultimi anni ironici e febbrili della sua carriera di scrittore, contiene di questi passi: «Non vi è luce dalla montagna. Passeggio irrequieto la coperta della veranda… In dicembre… passeggio la coperta nevicata, doppiando il Capo Horn… D’estate… gli aerei bioccoli delle bocche di leone dondolano come spuma e le montagne violacee hanno il violaceo dei flutti, e un pacato meriggio dorme sui prati fondi, come bonaccia all’Equatore; ma l’immensità e la solitudine sono tanto oceaniche, e così il silenzio e l’immobilità, che il primo apparire di una casa ignota, oltre le cime degli alberi, è in tutto e per tutto come l’avvistare, sulla costa della Barberia, di una vela sconosciuta». Come già nell’enorme ‘Moby d**k’, anche in questo breve e perfetto ‘Benito Cereno’ il mare è assai più che un ambiente: è il volto visibile, infinitamente ricco d’analogia, dell’arcana realtà delle cose. E ciò è vero non soltanto nel noto senso che, facendosi poesia, qualunque ambiente perde la sua limitatezza documentaria e diventa creazione fantastica, ma nel senso, più raro, che il mare è qui la sola forma sensibile che agli occhi di Melville possa degnamente incarnare il cupo e ironico nocciolo demoniaco dell’universo. Oserei dire che le marine, gli interni, i batticuori, le voci, tutto ciò che compone lo sfondo della singolare giornata trascorsa da Capitan Delano sul San Dominique, sono tecnicamente analoghi allo sfondo di certi episodi del ‘Purgatorio’ dantesco – la scalata, il dormiveglia, i crepuscoli primaverili e le visioni – simbolo, oltreché immagine, di un’opposta concezione delle cose: la possibile spiritualizzazione angelica.
Ciò è necessariamente generico e interessa non solo il presente racconto ma tutta l’opera maggiore di Melville, gettando luce sul fatto che, ogni qualvolta egli cercò – come in ‘Pierre’ – di esprimere la sua amara convinzione altrimenti che rievocando l’oceano, riuscì assai meno composto e convincente. Intorno a ‘Benito Cereno’ basta osservare come l’oceano nella sua quiete immobile sia lo specchio – uno specchio senza fondo – dei crescenti sospetti di Capitan Delano. C’è qualcosa di pauroso nella calma stessa del mare e nel fare compassato dell’ospite; e la notizia, tante volte ripetuta, che le disgrazie del San Dominique erano culminate nelle bonacce – i giorni dell’immobile angoscia – in mezzo al Pacifico, fa presentire che appunto nell’altissima quiete attuale e nelle vaghe apprensioni che l’accompagnano, Melville va accumulando la carica dei suoi orrori e delle sue demoniache negazioni. Come pure l’onestà e la semplicità tutte marinare dello scandolezzato Capitan Delano, sono un’altra di quelle tragiche bonacce che si frappongono al finale scoppio di ferocia degli uomini e delle cose. Perché, come già in ‘Moby d**k’, neanche qui ci deve ingannare quel timbro di virile virtù che tutti i gesti, e specialmente la chiusa, rendono. Il trionfo della giustizia è in ‘Benito Cereno’ soltanto illusorio: il demoniaco Babo trova la sua vittoria proprio nella condanna, e per convincersene basterà ripensare alle ultime frasi del racconto: «…la sua testa, quel nido di malizia, infissa a un palo… fissava attraverso la Plaza… fissava… quel monastero sul Monte Agonia».
Posti questi capisaldi, tutto il resto ne consegue. E sarà facile rilevare come un giuoco continuo di immagini, di richiami e di allusioni, vada di pagina in pagina componendo la patetica e conventuale figura di Don Benito, l’eroe accidioso del tedio e della nobiltà sventurata. A lui si riconnette quello sfondo vecchia-Spagna che lo stile pregnante sa evocare con immagini di tale intensità da parere talvolta una sottostruttura simbolica. Passi come la similitudine della ‘saya-y-manta’ o la descrizione della bandiera di Spagna adoperata per tovagliolo, saltano agli occhi come funzionali nella struttura del mondo fantastico cui appartengono. Il discorso di Melville tende a seguire attentamente la realtà interiore in ogni sua più capillare diramazione e nello stesso tempo a sollevare questi fuggitivi movimenti dell’anima in un fantastico cielo di mito – nel caso di Benito Cereno, in un’intensa atmosfera di bonaccia che non è pace ma presentimento dell’abisso. Accade quindi che in questo perfettissimo tra i suoi racconti, come del resto in ogni capolavoro di poesia, la ricchezza dell’invenzione va anzitutto goduta nella singola frase. In altre parole, ogni singola immagine di questa fantasia rifrange in se stessa, come l’idolo nell’occhio, il panorama di tutta l’opera.
Cesare Pavese
1940