IL MIO PRIMO CASOIl luogo del delitto o la scena del crimine che dir si voglia è la piazza principale del quartiere. È piena zeppa di curiosi tenuti lontani dal perimetro mediante un cordone di sicurezza costituito da poliziotti e carabinieri. Sono le tre del pomeriggio, scendendo dall’auto sono trasportato all’istante da un ambiente confortevole e climatizzato a un forno crematorio. Se non mi uccide il caldo, lo farà certamente l’afa, mi viene il dubbio che non riuscirò a sopravvivere a lungo in questa città. I poliziotti conoscono Gianna e la fanno passare, indica loro che sono con lei e la seguo come un automa inanimato. C’è un’ampia chiazza di sangue per terra, un lenzuolo bianco per tre quarti, e per un quarto tinto di rosso. Intuisco che la vittima sia là sotto. Come intuisco che il motorino a terra è quello del morto, dato che ha una gamba sopra la ruota posteriore. È già un buon inizio come novello investigatore! In zona cadavere ci sono un maresciallo dei Carabinieri, un uomo in giacca e cravatta con indosso i guanti in lattice e una donna. Gianna mi presenta genericamente a tutti e tre.
«Ciao ragazzi. Lui è il commissario Matteo Alfonsi» fa una pausa e aggiunge: «Il pivello.»
Non si stringono le mani, si parlano dandosi del tu, in confidenza, è chiaro che si conoscono da un bel po’, com’è altrettanto assodato che nessuno di loro si presenta a me. Sembro invisibile, oltre che pivello. Ascolto, che altro posso fare? Metabolizzo ogni parola, anche la più insulsa e insignificante. Memorizzo tutto, sono un grande in questo, ho la memoria fotografica e posso archiviare dati a velocità supersonica. Da quei colloqui capisco che la donna è il Sostituto Procuratore, la dottoressa Manuela Annone, l’uomo in divisa è il Comandante della locale Stazione dei Carabinieri, maresciallo Cosimo – di cui, al momento, ignoro il nome – e il dottor Marco Beghetto, medico legale della nostra scientifica. Scientifica che non è ancora giunta sul posto al completo perché si attende di sapere su chi debba ricadere la competenza del caso: sull’Antimafia o sull’anticrimine comune? Non abbiamo tempo da perdere con il crimine comune, ergo va valutato se il caso è di nostra competenza o se altri devono interessarsene. Chi lo può determinare è Gianna, unitamente alla dottoressa Annone. E il sottoscritto, per essere preciso, anche se non ho mai visto un cadavere morto ammazzato in vita mia. Giacché sono della squadra Antimafia, pur ricoprendo la posizione di pivello, sono comunque della partita. Anzi, ascoltando per bene tutte le interlocuzioni, comprendo una cosa che non mi dispiace per niente e che, per fortuna, viene in mio soccorso per garantire un sostegno, benché minimo, alla mia autostima: io sono l’ufficiale più alto in grado presente in zona. Ora ho capito perché sono qui, ma faccio finta di nulla. Costruisco una veloce analisi logica: la squadra Antimafia consta di tre commissari, fra questi ci sono io, Domenico Alessi e Giorgio Pessarotto e di tre ispettori, cioè Gianna Licata, Luca Barbieri e Anna Violante. A parte il Capo che coordina e comanda, le coppie sono formate, di fatto, da un commissario e da un ispettore, cioè un sottoposto. Per logica conseguenza, quindi, fra me e Gianna il capo sarei io. Buono a sapersi, per ora questo fatto non appare e si capisce poco, ma è bene sapere sempre chi e cosa, quando e come, ma soprattutto perché.
«Possiamo procedere?» chiede il dottor Beghetto a non si sa bene chi. Nessuno risponde, la magistrata guarda Gianna con aria interrogativa. E io, se non parlano loro, non ci penso nemmeno a iniziare il dialogo.
Gianna mi fissa. «Pivello, guarda che sei tu quello che comanda qui! Devi autorizzare l’inizio dell’indagine. Almeno finché non verifichiamo se è di nostra competenza o meno.»
Sono io quello che comanda qui? Ma dai! Questo l’avevo già capito, ma chiamarmi pivello davanti a tutti non mi sembra la migliore delle cose, mina la mia autorità. Come pure la mia proverbiale autostima. Glielo dico alla simpatica Gianna o me ne sto zitto e attendo un’altra occasione? Decido che è meglio che me ne stia zitto.
«Procediamo, allora» dico con meccanica convinzione usando un tono professionale. Beghetto toglie il lenzuolo esponendo il cadavere a terra. Si ode un brusio e qualche urlo fra la folla. Lo spettacolo non è dei migliori e scopro una cosa ancor più allucinante: il morto è un ragazzino, avrà quindici anni o poco più. M’incupisco di colpo, il primo morto ammazzato della mia vita è un adolescente, un gradino appena più su di un bambino. Sono inorridito e incredulo nell’appurare che si può morire ammazzati così giovani. Chiamo due poliziotti e ordino loro di prendere un lenzuolo e tirarlo davanti al cadavere, a mo’ di tenda, per non far vedere quello spettacolo. La gente è accorsa numerosa come ci fosse uno show di cabaret e non una scena del crimine. Non capirò mai perché un cadavere ammazzato attiri così tanta curiosità morbosa. Devo concentrarmi ora, sparisce ogni pensiero che non sia il dato professionale e mi muovo agevolmente sulla scena del delitto. Sono io che comando? E allora comandiamo! Indosso i guanti in lattice, prendo un telo sterile e ne strappo una striscia, ne faccio una sorta di cuffia e me la infilo in testa. Questo mi permetterà di non far cadere il sudore sull’area oggetto d’indagine. Vedo, invece, che il dottor Beghetto non ha adottato alcun rimedio simile al mio e il suo sudore cola copioso sul corpo del povero ragazzo che sta analizzando. Noto, altresì, che il dottore ha un piede sopra un lembo della camicia della vittima e che la mano destra del malcapitato stringe una pistola che quel deficiente di Beghetto afferra, o meglio, strappa con forza, causa irrigidimento delle articolazioni dettato dal rigor mortis, e consegna a un carabiniere. Quest’ultimo rimane allibito e afferra l’arma per istinto o, peggio ancora, per inesperienza. È senza guanti di protezione.
Cazzo!
In men che non si dica quei due hanno inquinato le prove e modificato la scena del crimine. Ecco come fanno gli assassini in Italia a restare impuniti, non sappiamo svolgere le indagini, non applichiamo le regole fondamentali della investigazione scientifica. Io ho una preparazione d’eccellenza, targata FBI. In USA nessuno si sognerebbe di entrare su una scena del crimine se non corredato di indumenti specifici e di attrezzatura adeguata. Le prove acquisite devono essere inoppugnabili e non inquinate, quindi, si devono evitare contatti con i fluidi corporei, per esempio il sudore poiché trasferisce il DNA del soggetto che l’ha generato ovunque si posi.
«Dottor Beghetto, si tolga immediatamente da lì!» lo prendo per la giacca e quasi lo sollevo da terra, lui cade all’indietro, mi guarda incredulo.
Non ho mezze misure, sono incazzato nero. «Lei è un incompetente, farò rapporto al Dirigente affinché non lavori mai più in Polizia o, come minimo, non quando ci sono io nei paraggi.»
Gianna sorride, la magistrata appare compiaciuta. Comunque sia, non m’interessa l’opinione altrui, questo dottore è un pirla patentato.
«Ma come si permette» Beghetto si alza, si spolvera alla meno peggio e pensa di darsi delle arie da navigato, quale non è. «Sono io che farò rapporto contro di lei. Ma roba da matti, chi si crede di essere?»
Ha pure il coraggio di blaterare, non lo sopporto. Lo prendo per la cravatta e lo spingo dietro all’improvvisata tenda, così da non farmi vedere dalla gente.
«Ringrazia Dio che farò solo rapporto per incompetenza professionale e potrai continuare a lavorare con qualcun altro» gli dico con l’aria più seria che mai mi sia capitato di avere.
«Ora cerca di seguire con attenzione le mie disposizioni e vedrò di iscriverti a qualche corso accelerato di aggiornamento medico-legale» lascio la presa e lo fisso. «Sono stato chiaro?»
Fa cenno di sì, non parla più. Forse si è reso conto della cazzata che ha fatto, forse ha visto che gli altri, compreso la magistrata, non sono intervenuti a suo favore o forse la mia autorità ha preso il sopravvento ed è diventata convincente. Fatto sta che ora appare un cane bastonato. Mi piaccia o no, per adesso è lui il medico legale e non mi resta altro che prenderne atto e proseguire l’analisi del corpo. Gianna e la dottoressa Annone riconoscono il ragazzo: si chiamava Domenico Viganò, detto Mimmuzzo. Era il terzo dei cinque figli di Salvo Viganò, un mafioso al soldo della famiglia Bonfanti. Allo stato attuale Viganò è latitante, uno degli uomini più ricercati al mondo, un killer sul libro paga del boss. Il figlio, presumo, avrà voluto seguire le orme del padre, ma la sua militanza non sembra sia durata a lungo. Il cadavere e la scena del crimine sono quindi di competenza dell’Antimafia, perciò non tocchiamo più nulla e attendiamo la scientifica per gli accertamenti di rito, pur sapendo che la scena è ormai contaminata a causa di quel pirla di Beghetto. Prima di analizzare compiutamente il cadavere, gli agenti della scientifica dovranno fare i rilevamenti del caso e fotografare la vittima e la zona. Poi potremo muovere il corpo e trasportarlo all’obitorio per l’autopsia. A Quantico ho seguito il corso di medicina legale, non sono un patologo, ma conosco l’anatomia umana e potrei compiere un esame autoptico alla perfezione. Gianna e il maresciallo Cosimo, nel frattempo, sono intenti a raccogliere le testimonianze della gente, la maggior parte di loro parla il dialetto siciliano, a me assolutamente sconosciuto. Io mi faccio consegnare la pistola della vittima dall’ignaro carabiniere e la inserisco in un sacchetto delle prove, stando bene attento a formalizzare che sull’arma si troveranno le impronte del milite e che lo stesso nulla ha a che fare con l’omicidio.
La dottoressa Annone, invece, sembra essersi accorta di me. «Apprezzo il suo modus operandi, commissario Alfonsi. Ha ragione Zanardi a dire che ora si cambia registro.»
«In che senso, scusi?» chiedo perplesso.
«La sua venuta a Palermo» mi precisa, «ci garantisce una nuova operatività, diciamo più americaneggiante, per semplificare il concetto. La sua conoscenza tecnica e la preparazione di altissimo profilo ci saranno molto utili, su di lei riponiamo grandi attese. Glielo avranno già spiegato, immagino.»
No! A dirla tutta, nessuno mi ha ancora accennato niente. Al contrario, sembra che tutti sappiano di me e pare che ci si attenda chissà quale innovazione.
«Sono arrivato ieri, dottoressa Annone. Non ho ancora ben capito il mio compito e non sono sicuro di quanta utilità potrò esprimere» mi tolgo la specie di cuffietta e mi asciugo il sudore dalla fronte. «E le confido che ho difficoltà di adattamento a questo clima.»
Lei sorride. «Se la consola, sappia che nessun essere umano, prima d’ora, si è mai abituato a questo caldo.»
Arrivano i nostri! E lo fanno alla grande. Almeno una dozzina di uomini e due enormi furgoni che sono il laboratorio mobile della scientifica. Impongo a tutti di indossare il camice sterile, guanti alle mani, calzature speciali ai piedi e cuffie in testa. Il primo che si è lamentato per il caldo l’ho cacciato fuori dal perimetro, gli altri non fiatano e si adeguano. Guardo Gianna che sorride, è in disparte vicino alla dottoressa Annone, ho come l’impressione di essere un sorvegliato speciale, sottoposto all’ennesimo esame dove alla fine mi sarà dato un voto. Mi sento sicuro e, nel mio ambito, ho pure uno scatto d’orgoglio e continuo impassibile a impartire ordini coerenti, logici e coordinati. Assegno compiti indicando dove fotografare, quali rilievi fare, quali prove raccogliere e spiego a ognuno a cosa mi servono e come andranno catalogate. Tutti sono a mia completa disposizione, nessuno mette in dubbio la mia autorità, anzi, a ogni mio ordine mi rispondono: “Come desidera, dottore!”. Non nego di sentirmi importante e potente, ma non devo farmi offuscare da questa inebriante sensazione. La responsabilità è mia, anche in caso di errore, e so bene quanto presto vada in malora un poliziotto che sbaglia. Quindi, studio mentalmente ogni passaggio e vaglio ogni necessità prima di impartire un ordine. Mi sento sotto pressione. Meglio così, quando sono in ansia o in tensione, do il massimo di me stesso. E non sbaglio un colpo, in meno di mezzora ho fatto applicare alla scientifica tutto il manuale operativo del perfetto investigatore, stile FBI. Vogliamo americaneggiare l’Antimafia? Bene, eccomi qua. Adesso non mi resta altro da fare che analizzare i fatti d’interesse principale: l’omicidio e la vittima. Vado a prendere un camice, guanti, calzari e cuffia, mi avvicino al dottor Beghetto che si è messo in un angolo, solo e sconsolato, e gli consegno gli indumenti.