SUBITO IN AZIONE

3023 Words
SUBITO IN AZIONECon dei botti indefiniti si accendono, una dietro l’altra, miriadi di luci al neon illuminando l’ampio locale e accecandomi per un bel po’ di minuti. In quello spazio sono parcheggiate auto e furgoni, onestamente parlando, tutti decrepiti, vecchi e arrugginiti. Delle scale di ferro portano a un soppalco con ampie vetrate che lasciano intravedere dei mobili. Vedo scendere quello che avrei saputo essere, da lì a poco, il commissario Domenico Alessi, un trentenne belloccio e impomatato, jeans sgualciti e consumati, camicia hawaiana a fiori sgargianti aperta quasi fino all’ombelico a mostrare tutto il pelo toracico in bella evidenza, scarpe Timberland indossate senza calze, al collo il distintivo della Polizia. Un orecchino a cerchio trova posto nel lobo dell’orecchio destro. Non mi sorprenderebbe di vedergli spuntare anche un anello al naso, ma non lo noto, almeno, non ancora. «Sei il pivello, quello di Torino?» Il pivello, immagino, dovrei essere io. «Commissario ordinario Matteo Alfonsi, sono comandato presso la squadra Antimafia della Questura di Palermo, devo presentare le mie credenziali al Dirigente Superiore, il dottor Pietro Zanardi.» Non mi va di dire nient’altro che questa frase fatta, il tizio che mi trovo di fronte non mi sembra un eroe inarrivabile come mi ero immaginato ogni membro della squadra Antimafia, dal più illustre al più semplice. «Il Capo non è qui, lo incontrerai più tardi, ora vieni con me.» «Con te dove?» «Ti spiegherò per strada. Sei armato?» Sono confuso, da questo momento rispondo a istinto. «Ho la mia pistola nel bagaglio, la devo prendere?» Il tizio mi squadra, credo che il suo sguardo esprima disgusto piuttosto che stupore, al suo cospetto mi sento fuori luogo e imbranato come uno che fa le domande sbagliate nel momento sbagliato e dà le risposte errate in ogni caso. «Lascia stare!» Si mette a frugare in un armadietto e tira fuori un paio di pistole Beretta e qualche caricatore. A me consegna un’arma e due caricatori, ne infilo uno e automaticamente inserisco il colpo in canna togliendo la sicura, poi infilo l’arma nella cintura e l’altro caricatore nella tasca posteriore. Lui fa altrettanto. Mi sento così poco a mio agio che mi abbandono a quello strano e bizzarro individuo seguendo le sue mosse e imitandolo al meglio. «Sono il commissario Domenico Alessi» mi dice montando su una Ford Fiesta scassata al massimo e invitandomi a salire. Eseguo l’ordine come un automa. Il colore dell’auto è inquietante come tutto l’ambiente che ho intravisto finora: celtic bronze, una sorta di marroncino chiaro, stile rame o roba simile. Nell’abitacolo ci sono fili elettrici scoperti ovunque, i pedali di frizione, freno e acceleratore, il volante e le marce. Tutto qui. A parte la chiave d’accensione non c’è il contachilometri o altro, il cruscotto è, in sostanza, vuoto. La strumentazione è stata rimossa o, comunque sia, inesistente. Il motore è vigoroso, si capisce subito che è truccato, in men che non si dica siamo fuori, per le strade di Palermo, non so nemmeno come ci siamo arrivati, non mi sono accorto di essere uscito dalla caserma. Forse ero troppo in confusione. Stringo forte la maniglia della portiera e mi concentro per non vomitare. Alessi sfreccia all’impazzata, non c’è nulla da dire come pilota è eccezionale, ma io ancora non conosco le sue abilità, perciò continuo a farmela addosso evitando di far risaltare troppo il mio... chiamiamolo disagio. «Abbiamo ricevuto una segnalazione» comincia a spiegarmi il collega, «un pericoloso latitante che cerchiamo da mesi sembra si sia rifugiato in una masseria abbandonata in piena campagna, a pochi chilometri da Palermo. Gli altri sono già lì, attendono noi per fare irruzione. Crediamo che con quel delinquente ci siano altri due farabutti armati.» Pendo dalle sue labbra, aspetto che m’illustri il piano, che mi esponga le misure di sicurezza personale, che armi useranno per l’occasione. Invece niente, muto come un pesce. «Quanti uomini sono impegnati in questa operazione?» chiedo senza lasciare intendere che me la sto facendo sotto. «Io, te, il commissario Pessarotto e l’ispettore Violante.» «In quattro… cazzo!» mi mordo la lingua. «Che c’è? Te la fai addosso? Guarda che è normale, non preoccuparti, stai dietro di me, fai quello che faccio io e te la caverai di sicuro.» Mio Dio, ma dove sono capitato? Poco più di un’ora fa ero in treno a pensare alla fortuna di poter fare parte di una squadra così famosa e blasonata e ora mi sento una merda. E tutto questo nel giorno più felice della mia vita, anzi, in quello che credevo fosse il più felice. Invece, sto andando incontro al massimo dei pericoli: affrontare un latitante armato, un mafioso pericolosissimo, uno che non ha nulla da perdere ad ammazzare il prossimo. Mi viene in mente che ho un giorno e mezzo di viaggio in treno e alle spalle un paio d’ore di sonno al massimo. In pratica, mi sento un tantino fuori forma, in particolare per un’operazione così rischiosa. Mi sforzo di non mostrare il mio nervosismo, vorrei chiedere altri lumi, altre informazioni, ma mi sento una merdaccia, solo e sconsolato. Cerco di riprendere il controllo, penso a quanto ho imparato sui campi d’addestramento a Quantico, a come riordinare le idee e concentrarsi nell’azione isolandosi dal resto del mondo, affinando i sensi per sopravvivere. Non mi accorgo del tempo e della strada percorsa, fatto sta che giungiamo nei pressi della masseria, la vedo in lontananza, ancora indefinita. L’auto si ferma e Alessi scende, io faccio altrettanto senza troppa convinzione. Imbocchiamo un sentiero e arriviamo in prossimità di un bosco fitto di vegetazione e alberi secolari. Alessi armeggia con il cellulare, immagino che stia inviando un sms o un segnale agli altri perché segue una sorta di bip che capisco essere la risposta che il mio esimio collega attendeva. «Da questo momento dobbiamo fare il minor rumore possibile, ci parleremo a gesti.» Sai che novità! Fino a quel momento il dialogo era stato più che scarso, non sarà un problema proseguire oltre nella stessa maniera. Raggiungiamo Giorgio Pessarotto e Anna Violante, i colleghi sono stesi a terra con i binocoli a tracolla, muso duro, concentrati e con i distintivi appesi al collo con un bizzarro nastro tricolore. Il mio è tuttora chiuso nel bagaglio, però è quello in dotazione alla Stradale. Comunque, credo che questo particolare passerà inosservato, almeno a nessuno sembra importare nulla. Pessarotto pare un uomo sulla cinquantina o forse più, sicuramente un navigato, è quasi calvo e una miriade di rughe lo fanno apparire più vecchio. L’ispettore Violante è a dir poco spettacolare, una donna che sprizza fascino e sensualità da ogni poro. I jeans stretti fasciano delle curve da star del cinema piuttosto che da dura poliziotta. Giuro che è un bel vedere. A gesti Alessi mi presenta ai due e mi chiede di distendermi a mia volta. La Violante mi passa il binocolo, mi indica dove guardare e prende a spiegarmi la situazione. «Il nostro uomo è arrivato con quella grossa Audi parcheggiata davanti all’ingresso. Assieme a lui ci sono due persone, un uomo e una donna, armati di fucile. Pensiamo siano mitragliatori di tipo militare, ma non ne siamo sicuri.» «Sono in tre armati con fucili mitragliatori» preciso io, «e noi siamo quattro gatti con pistole a tredici colpi? Ho al massimo un altro caricatore, anche nella più rosea delle ipotesi i banditi vinceranno di certo. Forse è meglio chiamare rinforzi, non credete?» Alessi sembra infastidito. «Non possiamo perdere tempo, è un’occasione ghiotta. I rinforzi potrebbero impiegare troppo ad arrivare e i malviventi non aspettano che noi ci si organizzi. Potrebbero andarsene a breve; io dico di entrare in azione, il Capo vorrebbe che, in casi simili, s’intervenisse quanto prima per non perdere il fattore sorpresa.» Che dire? Mi sembra un’autentica stronzata. Da quando in qua la sorpresa la fanno quattro poliziotti spelacchiati armati di pistolette contro tre delinquenti patentati dotati di fucili mitragliatori da centinaia di micidiali colpi al minuto? Io dico che questi sono degli autentici pazzi, folli al punto che ritengo siano da ricovero nel reparto di psichiatria. Ma che ci posso fare? Io sono il pivello, l’ultima ruota del carro e questi tre strani personaggi accanto a me sono nientemeno che membri della famosissima squadra Antimafia. Boh, sono a dir poco perplesso, ma mi adeguo. «Ok, non sono del tutto convinto, ma qual è il piano operativo?» «Ci avviciniamo alla masseria senza farci notare e facciamo irruzione sparando su tutto quello che si muove.» Questa illuminante idea strategica viene esposta, con candore sedante, da Pessarotto che mi sono impegnato a mandare subito affanculo nell’intimità della mia mente. «Mi pare una strabiliante pensata!» dico in tono sarcastico nel pieno di una crisi di nervi che trattengo a stento, come i conati di vomito che mi assalgono violenti. Il fatidico e strabiliante piano d’azione viene applicato alla lettera, noi quattro ci avviciniamo alla masseria, di corsa e senza produrre alcun rumore. Attorno alla struttura, a parte la stradina di accesso in terra battuta, c’è il deserto più assoluto. Mi appare difficile avvicinarsi troppo senza essere visti, ma dall’interno del casolare non si nota alcun movimento sospetto. Stranamente, dico io. In breve, correndo quasi distesi a terra stile marines americani, giungiamo nei pressi dell’abitazione. Le Beretta sono impugnate saldamente con entrambe le mani, canne alzate, pronte a colpire. Ci dividiamo: io e Alessi sul retro, Pessarotto e Violante all’ingresso principale. In quel momento mi torna in mente l’addestramento di Quantico, come minimo avremmo dovuto indossare giubbotti antiproiettile, caschi e maschere antigas, poi avremmo dovuto sparare granate soniche e lacrimogeni attraverso le finestre e, infine, fare irruzione spianando quei bei fucili mitragliatori in dotazione a tutte le Polizie del mondo moderno gridando a tutti coloro che si muovono di gettare le armi e di stendersi a terra. Noi, però, non abbiamo niente di tutto ciò, se non un paio di jeans e, per quanto mi riguarda, una maglietta inzuppata di sudore, sia quello accumulato in treno sia quello conquistato in quel momento di massima tensione e che, tra l’altro, si è sistemato proprio sopra al precedente strato. Non p**o, va aggiunto un chilo di polvere per ogni centimetro quadrato di pelle raggranellato nell’immane corsa di poco prima. A Quantico mi hanno abituato a situazioni estreme. Beh! Ne sto vivendo una assai estrema proprio adesso. Mai avrei pensato che il mio addestramento mi sarebbe venuto in aiuto fin dal primo giorno di attività investigativa. L’ansia sale a mille quando Alessi mi ordina: «Tu stai qui e spara a chiunque esca da quella porta.» E se ne va correndo verso gli altri lasciandomi nello sconforto più nero. Faccio appello a tutte le mie conoscenze e mi concentro, devo calmarmi e rimanere lucido. Tutte le mie capacità e tecniche, le mie prerogative stavano andandosene affanculo in un nanosecondo. Tutto è assurdo, improponibile, illogico e nemmeno tanto professionale. Assaltare un casolare in piena campagna con il deserto attorno, tre criminali violenti all’interno equipaggiati con armi potentissime e noi in quattro sprovveduti armati di una Beretta con pochi colpi a disposizione, è da pazzi snaturati. E adesso che dovrei fare? Trasmetto un reclamo formale al Questore o vedo di darmi una mossa? Naturalmente opto per la seconda soluzione, inizio a valutare la situazione come mi hanno insegnato a fare a Quantico. L’ambiente circostante è avverso, un’eventuale fuga sarebbe improponibile, sarei un facile bersaglio. Mi piazzo dietro un grande albero a venti metri dalla casa, lo userò come riparo. Anche le pallottole, penso a quelle enormi e micidiali di un qualsiasi fucile mitragliatore, nulla potranno contro quella difesa naturale, per cui mi sento abbastanza al sicuro. Controllo visivamente i dintorni, osservo la posizione dei colleghi, in questo modo posso essere consapevole delle forze in campo ed evitare, nel modo più assoluto, di sparare nella loro direzione. Vedo Pessarotto e Violante posizionati correttamente davanti alla porta d’ingresso principale, Alessi sta controllando l’interno della masseria da una finestra. Si muovono benissimo, come un sol uomo, sono coordinati, si parlano a gesti per me incomprensibili, ma loro sembrano perfettamente in sintonia. Ecco una cosa che stride e mi quadra poco: dai discorsi e dai comportamenti di prima sembravano degli sprovveduti, ma nel pieno dell’azione lavorano in simbiosi, movimenti studiati, sinuosi, assolutamente silenziosi. Me ne rallegro, mi fa sentire un po’ più sicuro, quelli sembrano conoscere il loro mestiere, credo di averli male inquadrati. Alessi gesticola, dà l’ok ai due che si stanno preparando a forzare la porta ed entrare in azione. L’adrenalina sale, in quel preciso istante si chiudono gli altri pensieri, prevale l’addestramento e noto quello che mi è sfuggito prima. Telecamere, cazzo! Ce ne sono ovunque, in ogni angolo della masseria. I banditi all’interno ci stanno vedendo. Che stupido sono stato, dovevo pensarci. Tutto quel deserto attorno e nessuno della casa ci ha visto? Sarebbe stato quasi impossibile, non poteva essere così semplice. Oppure è solo una trappola, una stramaledettissima trappola. E noi ci stiamo cadendo come allocchi. Sento l’ordine di Alessi. «Ora!» Grido con tutto il fiato che ho in gola. «Fermi, è una trappola! Ci vedono dalle telecamere…» indico in alto, appena sotto le grondaie. Almeno un paio di apparecchi si stanno muovendo verso destra e sinistra, ci cercano, ci scrutano. Pessarotto ha già sfondato la porta, è tardi per rimediare. Mio Dio, moriremo tutti! Penso, guardandomi intorno. Sono attraversato da un paio di idee malsane che diventano subito dei micidiali conflitti mentali: scappo a gambe levate o intervengo? Controllo la pistola e la stringo in una sorta di abbraccio, quasi a dirle addio, verifico che sia pronta a fare fuoco e mentalmente mi organizzo a colpire qualsiasi cosa sia fisicamente dissimile dai miei colleghi, non sono sicuro di dover intimare l’alt e sparare in aria per avvertimento, non dovrò ferire, ma colpire duro. Uccidere per non essere ucciso. Uccidere affinché i miei colleghi non siano uccisi. Pessarotto entra spianando la Beretta, lo segue Violante mentre Alessi mi guarda stupito, leggo nei suoi occhi che è sbigottito, confuso, ma non timoroso, non un segno di paura. Entra anche lui e scoppia il finimondo, gli spari sono gli unici suoni che mi violentano i timpani insieme alle grida confuse che mi giungono all’esterno. Devo intervenire, non posso starmene con le mani in mano in attesa di un epilogo che, ormai, immagino andrà a senso unico a vantaggio dei cattivi. Mi rialzo con l’intento di entrare dalla porta secondaria, quella che stavo controllando, faccio pochi passi e l’uscio si apre. Punto la Beretta ad altezza uomo, attendo di vedere chi mi si presenta davanti e, giuro su Dio, se non è un collega, sparo senza indugio, anche perché dentro è in corso una guerra, la sparatoria è aumentata d’intensità e non preannuncia nulla di buono. Sbuca un uomo sulla sessantina, impugna un fucile mitragliatore Breda-30, arma micidiale di fabbricazione italiana di cui sono dotati i nostri militari per le missioni all’estero. Un proiettile di quell’arma fora persino la corazza di un carro armato, figuriamoci che disastri combinerebbe se entrasse in un corpo umano. Faccio tutto istintivamente, lo fisso negli occhi, non leggo paura né ansia. I muscoli facciali sono rilassati, non è pronto a sparare. Piuttosto appare disorientato, forse non si aspettava di vedere un quarto individuo, forse le telecamere non mi avevano inquadrato, falsando il numero di avversari cui doveva fare fronte. Comunque sia, non ha paura. È un buon segno, chi ha paura di solito è ancor più pericoloso, spara alla cazzo di cane e fa stragi inutili. A Quantico mi hanno insegnato che un uomo, prima di uccidere un suo simile, digrigna i denti: è scientificamente provato e statisticamente irreprensibile. Perciò, basterà guardare i denti dell’avversario, se digrigna, allora significa che sta per sparare con l’intento di uccidere. Quell’uomo non digrigna, ma sta puntandomi il fucile contro. Vuoi vedere che a me capita la sfiga massima, cioè che questo tizio spara senza digrignare i denti? A parte le statistiche, ormai non ho altra scelta: uccidere per non essere ucciso. Non ho mai sparato a un uomo, mi sono sempre allenato al poligono, eppure non pensavo che farlo fosse così semplice, almeno in certe occasioni. Tutto accade in un decimo di secondo, penso all’addestramento di Quantico per cui punto la pistola tenendola con le due mani per farla restare stabile e non accusare troppo il rinculo. Inquadro il bersaglio chiudendo l’occhio sinistro. Sparo il primo colpo: polso destro per costringere l’avversario a far cadere l’arma. L’uomo resta sorpreso, molla il fucile e si massaggia il polso dolorante. Secondo colpo: coscia sinistra per fargli perdere l’equilibrio in modo che cada a terra. Così è. Mi avvicino come un fulmine, prima afferro il fucile per evitare che lo faccia lui, poi gli punto la Beretta in fronte. «Muovi anche un sol muscolo e sei morto» intimo con fare truce. Come cazzo mi è venuta in mente una frase simile, Dio solo lo sa. «Minchia!» esclama l’uomo visibilmente sorpreso. «Piacere di averti con noi, commissario Alfonsi. Prova superata alla grande!» «Ma che cazzo stai dicendo?» sempre con la Beretta in mezzo agli occhi di quell’uomo, ho un attimo di smarrimento che diventa disorientamento totale quando escono dalla porticina Alessi, Violante, Pessarotto e altri due tizi: un uomo e una donna. Piuttosto che criminali da arrestare paiono amici per la pelle, sono tutti e cinque abbracciati e sorridenti, divertiti e si battono pacche sulle spalle dandosi il cinque. Io non sento più niente, inizia a girarmi la testa. Guardo con fare stralunato l’uomo a terra che si rialza agilmente. Sia il polso destro sia la coscia sinistra sono segnati da una macchia verde, sembra vernice. D’istinto, come un automa svuotato di un’intelligenza propria, tolgo il caricatore e analizzo una pallottola. È caricata con pallini che, all’impatto contro una superficie qualunque, fanno fuoriuscire una vernice colorata. Si usano per l’addestramento e servono per identificare il colpo andato a segno. Guardo la Beretta, assomiglia alla mia, quella è vera. Almeno quella. I colleghi e gli altri sconosciuti mi circondano e sento innumerevoli pacche sulle spalle, non riesco nemmeno a contarle. E avverto che la testa mi gira sempre di più, ho un conato che trattengo a stento. Eccone un altro, poi un altro ancora. Inutile resistere, vomito. Vomito anche l’anima. 4
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