PALERMOSembrerà impossibile, ma il treno entra in stazione con due ore di ritardo, tra l’altro accumulate negli ultimi cinquecento metri. L’aria condizionata è fuori uso, quaranta gradi esterni, sessanta interni. Una sauna infernale e siamo a fine maggio, cosa potrà mai succedere da queste parti a luglio o ad agosto? Finalmente posso scendere da questo maledetto treno, cosa non semplice, il mio bagaglio è enorme, grande come un armadio a due ante cui sono state inserite sotto due rotelline. Fatico non poco a farlo passare, rigorosamente di lato, attraverso la piccola porta del treno, e ci riesco solo dopo che due bravi ragazzi mi aiutano nell’impresa. Apparirà strano, ma il sudore sembra essere l’unico liquido che riesce a non evaporare, qualsiasi altro prodotto, costituito prevalentemente di acqua, si dissolve in meno di un nanosecondo.
Mio Dio! Sono le undici del mattino, che temperatura mi devo attendere alle tre del pomeriggio? Sono giunto come un automa al piazzale della stazione, mi guardo attorno, magari mi sono venuti a prendere, non vorrei sembrare uno spocchioso, ma sono sempre un alto dirigente della Polizia di Stato. Controllo in giro, guardo a destra e sinistra, cerco un’auto della Polizia, una qualsiasi. Speranza vana: niente, nemmeno l’ombra di una pattuglia. Non mi resta che organizzarmi di conseguenza: taxi o autobus? Opto per la seconda variabile e attendo fiducioso alla fermata, sotto una calura asfissiante e, ancor peggio, un’afa micidiale. Se trovo chi mi ha detto che a Palermo fa sì caldo, ma è sempre ventilato e secco, giuro che lo uccido con le mie mani, lo brucio e disperdo le sue ceneri proprio qui a Palermo. Passata mezzora un buon uomo mi si avvicina, ha capito il mio stato d’animo e precisa che fino alle tredici c’è lo sciopero dei mezzi pubblici.
Fanculo! Ripiego sul taxi, ce n’è uno giusto vicino a me. Il tassista fa un po’ di storie per via del bagaglio e non mi resta altro da fare che sfoggiare il mio distintivo bello nuovo di zecca con stampata sopra la mia influente qualifica di alto ufficiale della Polizia di Stato. Faccio un figurone, missione compiuta soprattutto perché la foto non lascia dubbi che sia io il titolare di quella beneamata tessera. A prova di ciò il tassista affronta subito l’impresa impossibile di far entrare la mia valigia nel bagagliaio dell’auto, ci riesce solo in parte perché costretto a tenere aperto il portellone.
«Se mi fermano per via del portellone aperto, garantisce lei per me?» chiede il tassista mettendosi alla guida dopo avermi fatto accomodare dietro. Annuisco, anche perché ho quasi la certezza che non si troverà alcun rappresentante delle forze dell’Ordine da qui alla Questura, vista la mia sfiga innata. Il traffico è caotico, impazzito e rumoroso, ma in poco tempo giungiamo presso Piazzale Vittorio. Il palazzo della Questura si erge imponente, dico al tassista di entrare, il piantone verifica il mio tesserino e sparisce un attimo all’interno della guardiola lasciando un poliziotto a controllare che noi non si faccia scherzi. L’agente torna con il mio tesserino in mano e, ponendosi sull’attenti, mi restituisce il documento.
«Può passare, commissario Alfonsi. Le auguro una buona permanenza a Palermo.»
Ringrazio ricambiando il saluto in stile militare, il taxi entra nel parcheggio interno, scendo e p**o la corsa faticando non poco per mettere a terra il mio bagaglio. Sono arrivato, finalmente! Ora ho appuntamento con il Questore, immagino che mi presenterà agli altri della squadra. Devo confessare che sono emozionato e preoccupato allo stesso tempo: non voglio deludere nessuno, tanto meno colleghi così preparati e famosi. Almeno per noi poliziotti, i membri della squadra Antimafia sono dei miti, dei grandi, degli autentici eroi inarrivabili. Assolutamente sconosciuti ai media, la loro attività è così riservata che pochi sanno a cosa stanno lavorando, persino il Questore non conosce con esattezza le indagini in corso, in genere viene informato poco prima della conclusione di un’operazione investigativa. Prima e durante la squadra risponde solo al Dirigente Superiore, il famigerato dottor Pietro Zanardi, e al Pool di magistrati dell’Ufficio Istruzione della Procura di Palermo. Nella gestione del lavoro la squadra è totalmente autonoma. Ora mi chiedo: come potrò integrarmi io in una squadra di super poliziotti esperti, infallibili, mega addestrati e dediti all’azione? Fra un po’ l’avrei scoperto. Lascio l’ingombrante bagaglio all’entrata, salgo al terzo piano e chiedo a un collega dove trovare un bagno per darmi una rinfrescata, non voglio che il Questore mi veda in questo stato pietoso e devo evitare che il sudore mi si ghiacci sulla pelle dato che l’aria condizionata sta andando a palla, dai quaranta e passa gradi esterni si passa a poco più di venti all’interno e la differenza di temperatura mi causa quasi uno shock termico. Sono pronto al mio nuovo incarico, alla mia nuova vita, a una nuova ed esaltante esperienza. La segretaria mi fa subito entrare nell’ufficio del Questore, lui è lì ad attendermi. Ed è solo.
«Benvenuto a Palermo, commissario Alfonsi.»
Sono di fronte alla massima carica dirigenziale, il Questore Ennio Palmieri, pluridecorato e mitico poliziotto di altri tempi, uno che ha fatto carriera per le sue capacità, uno dei rari casi di meritocrazia che in Italia, purtroppo, non sempre è tenuta in debita considerazione. La mia mano stringe la sua con evidente emozione.
«La ringrazio, signor Questore. Non le nego di essere onorato di questo incarico, spero solo di esserne all’altezza.»
«Non ne dubito, dottor Alfonsi. Il collega di Torino mi ha assicurato che lei è persona seria e riservata, ha svolto i suoi incarichi con diligenza e professionalità. E la sua preparazione, d’indubbio valore, ci farà molto comodo.»
Palmieri prende posto dietro l’immensa scrivania e mi invita a sedermi di fronte. Apre una cartellina verde, agganciata a una clip metallica c’è la mia foto recente in alta uniforme, a seguire una miriade di fogli scritti al computer.
«Dunque, commissario ordinario Matteo Alfonsi» legge indossando occhiali con spesse lenti, «dodici anni nella Polizia Stradale in forza alla Questura di Torino, Università degli Studi di Torino, laurea con lode in scienze dell’investigazione, il migliore del suo corso tanto che il Magnifico Rettore la propone per una borsa di studio per il corso biennale di specializzazione più ambito al mondo per un poliziotto: Criminologo e Profiler a Quantico, USA. Nella scuola dell’FBI consegue la specializzazione nel mese di marzo di quest’anno ottenendo il massimo dei voti e una menzione di merito firmata addirittura dal Direttore dell’FBI, Aaron Manson in persona.»
Il Questore si toglie gli occhiali e mi fissa con intensità.
«Sapeva che il Direttore Manson aveva fatto richiesta per averla nel suo organico all’FBI?»
«Sì, signor Questore. Ne ero stato informato.»
«E ha rifiutato. Perché?»
«Non me lo chieda, non saprei spiegarlo. Sappia solo che io mi considero un poliziotto italiano. Potrei anche pentirmene, ma è così che mi sento.»
«Bene, era questo che volevo sentirle dire.»
Palmieri chiama la segretaria, le chiede di organizzare il mio trasferimento presso il luogo ove avrei trovato i miei nuovi compagni: nella riservatissima sede della squadra Antimafia. La segretaria mi affida a un certo Pino Ingroia, Agente Scelto, che mi attende fuori su un furgone. Credo che quel mezzo sia l’unica soluzione per un trasporto eccezionale come il mio bagaglio. Salito a bordo, e superati i saluti e le formalità di rito, Ingroia parte a razzo incuneandosi nel traffico di Palermo a sirene spiegate. Città meravigliosa, credo di essermene innamorato all’istante, con i suoi palazzi, le sue piante, le palme, i cactus, la sua storia millenaria che le ha regalato un patrimonio artistico e architettonico che spazia dai resti delle mura puniche fino alle ville in stile liberty, passando dalle residenze in stile arabo-normanno, alle chiese barocche e ai teatri neoclassici. Uno splendore che non mi coglie impreparato, ho letto di tutto e di più di questa bellissima città, fugacemente me la sto gustando a spizzichi e bocconi, certo di riuscire a visitarla in lungo e in largo nel tempo libero, quando sarò fuori servizio. Sono così assorto nei miei pensieri che non mi accorgo che siamo arrivati nei pressi di una caserma. Anzi, più che una caserma sembra… è un carcere militare. Ingroia scende dal furgone e si mette a parlottare con un agente della Polizia Militare di guardia all’ingresso. Si aprono, in sequenza, una serie di cancelli, superati i quali entriamo in un cortile, poi, seguendo una stradina sterrata, giungiamo a una sorta di rimessa dove ci fermiamo. Ingroia mi aiuta a scaricare il pesante fardello e mi indica che in quell’edificio fatiscente si trova la sede dell’Antimafia, basta bussare e i colleghi mi vedranno nei monitor e mi faranno entrare. La saracinesca si apre con l’accompagnamento di strani cigolii ed entro non senza timori. Tutto mi appare inquietante, non c’è nessuno ad accogliermi, regna il buio assoluto. La saracinesca, come si è aperta, si richiude automaticamente dietro di me. Non vedo nulla al di là del mio naso, mi prende un terrore incontrollabile e pronuncio la frase che mai avrei pensato di dire, nemmeno in un’occasione simile.
«C’è qualcuno?»
Nessuna risposta.
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