Come non avevo mai visto la Cittadella, non avevo mai visto neanche lui. Allo stesso modo in cui ero stata sicura di essere a Quay, ero sicura di chi fosse lui.
Era il viso quello che ti toglieva ogni dubbio: era intriso di magia. La pelle era levigata, i capelli erano fatti di notte, le iridi erano gialle come quelle di un gatto, magnetiche. Il resto della sua figura vestita di scuro passava in secondo piano. Era impossibile dargli un’età, anche se si supponeva che non avesse più di quarant’anni. Ma la magia era così evidente in ognuno dei suoi tratti, in tutte le sue caratteristiche esteriori, che non ero nemmeno sicura che potesse considerarsi una persona e non un’entità.
Thygarest mi guardò per qualche istante, mentre avanzavo con passo instabile verso il trono, prima di spostare lo sguardo sull’uomo anziano.
«È sporca, Niltor. È stanca, forse è ferita. Perché l’hai portata da me in queste condizioni?».
Aveva parlato con una voce morbida, quasi affettuosa, che sembrava provenire da distanze incalcolabili. Di nuovo, magia.
L’uomo anziano si inchinò profondamente. «Mi dispiace, mio signore. Pensavo che non le fosse dovuta alcuna gentilezza».
Il suo viso fu sfiorato da un lieve sorriso. «E lei, forse. Ma a me?».
«Chiedo perdono, mio signore» disse l’uomo, inchinandosi ancora più profondamente.
Thygarest sospirò in modo quasi impercettibile. «Bene. Riportamela tra un’ora».
«Signore» disse l’altro uomo, in tono urgente, come se volesse trattenerlo.
Mi sembrò curioso, ma in quel momento avevo ben altre preoccupazioni.
«I soldati» continuò Niltor, dopo che il suo signore gli ebbe fatto segno di parlare. «Chiedono di poter essere loro a finirla».
Thygarest inarcò le sopracciglia. Sulla sua fronte candida si dipinse una ruga. «Ah, capisco» mormorò, in tono dolce. I suoi occhi si spostarono di nuovo su di me.
Poi, la sua mano destra si mosse elegantemente nell’aria, lasciando una curiosa scia chiara sospesa davanti a sé. Un altro piccolo gesto e dal nulla comparve un involucro simile a un corpo umano femminile. Thygarest si accarezzò il mento, pensieroso. Tornò a guardarmi.
«Be’... diamole una scintilla di vita. Suppongo che il senso della loro richiesta non lasci spazio a molti dubbi».
L’aria crepitò, mentre Thygarest infondeva una parvenza di vita nel suo pupazzo. Lo osservai con gli occhi sgranati. Era una mia copia... una mia copia perfetta e non molto lusinghiera. Aveva i capelli aggrovigliati e sporchi, il viso graffiato, gli abiti luridi e stracciati.
«E una scintilla di ribellione» aggiunse Thygarest, con un mezzo sorriso. Si udì un altro crepitio e la mia copia iniziò a gridare: «No! Lasciatemi! Non mi toccate! No!».
Thygarest fece un altro piccolo gesto e quella creatura di magia venne trascinata fuori dalla sala da mani incorporee.
«Qualcuno se ne accorgerà, mio signore» fece notare Niltor. Non sembrava molto soddisfatto di ciò che aveva appena fatto il suo padrone.
«Tra un’ora» ripeté lui, senza rispondergli. Adesso nella sua voce dolce si era insinuata una nota più dura.
Niltor si inchinò, ma il trono ormai era vuoto.
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Un’ora più tardi fui introdotta in un giardino d’inverno dal tetto di vetro. Ero stata accompagnata a una stanza da bagno e mi era stato lasciato tutto il tempo di lavarmi, pettinarmi e rassettarmi. Mi erano stati consegnati dei nuovi vestiti: una sottile veste bianca, una sopravveste azzurra più pesante, delle scarpe morbide e comode, da interno.
Mi ero guardata nello specchio, prima di uscire. I miei capelli castani erano di nuovo lucidi e brillanti, la mia pelle di nuovo luminosa. Nonostante tutto, stava arrivando la primavera: il mio corpo non poteva dimenticarlo.
Niltor mi scortò fino al giardino d’inverno e mi disse: «In fondo, tra le orchidee. Non provare a fare qualcosa di stupido».
Ero disarmata, con uno stupido vestito da palazzo e delle stupide scarpe da palazzo... non gli risposi nemmeno e mi incamminai tra le piante.
L’aria, lì dentro, era calda e umida, piena degli odori dei fiori e delle foglie dei cespugli e della resina degli alberelli. Dato che era notte, era illuminata fiocamente da diverse lanterne chiuse, che sembravano scarabei luminosi nel nero-verde della serra.
Percorsi il viottolo che mi aveva indicato Niltor fino a vedere le aiuole delle orchidee. Accanto c’era una lunga panchina di legno. Seduto sulla panchina, con le gambe accavallate come se fosse seduto al parco, c’era Syryt Thygarest.
Quando fui vicina, lui si alzò in segno di cortesia. Un segno di cortesia altamente sospetto.
Era alto e snello e aveva la corporatura di un elfo. Forse era un elfo nero, riflettei, anche se non l’avevo mai sentito dire. Erano secoli che la mia stirpe non aveva rapporti con i nostri cugini.
«Prego» mi disse, indicandomi la panchina.
«Signore» sospirai, sedendomi all’altro capo rispetto al suo. Indicai quello che ci circondava. «Perché qua, signore?».
Pensavo che la mia domanda l’avrebbe irritato, ma Thygarest sembrò trovarla legittima.
«Sei la prima elfa silvana che incontro, ma ho conosciuto diverse persone di stirpi affini alla tua. Quindi puoi sopravvivere lontano dal tuo elemento naturale?».
Alzai gli occhi al cielo. «E questo vi sembra un bosco? Sì, posso sopravvivere, è ovvio».
Ancora una volta, lui non sembrò seccato. «È una fortuna. Temo che non ci siano molti boschi, alla Cittadella. E però devi avere qualcosa del ramo materno della tua famiglia. Il comportamento dei soldati è stato... curioso».
«Curioso? Non hanno stuprato e ammazzato il doppio che avete creato per loro?» ribattei io, un po’ duramente.
Thygarest mi rivolse un sorriso sottile. «Sembra quasi che deprechi la cosa».
«Be’...» feci io, presa un po’ alla sprovvista. Effettivamente quella era una copia, un doppio. Non era un essere senziente, era solo... una cosa effimera, magica. «Non approvo la brutalità, signore».
I suoi occhi si fermarono sul mio viso. Erano verdastri, in quel momento, e non erano più umani di un’ora prima.
«Per questo l’ho definito curioso. Oh, per favore, non perdere tempo tremando di indignazione. Ma non mi era mai stata rivolta una simile richiesta, prima. E la tua copia è stata... sotto-utilizzata, pare. Quindi... c’è qualcosa di cui mi vuoi parlare? Forse dovrei aggiungere che l’unico motivo per cui mi interessi a livello personale è la tua ascendenza».
«Vorrei anche sapere che cosa avete intenzione di farmi» dissi. Non avevo nessuna intenzione di essere accomodante con lui. Ero in guerra, con lui. Era il mio nemico.
«Oh, vorresti, mh?» sorrise Thygarest, dolcemente. «Rispondi alla mia domanda, per favore».
Sospirai. «Ho parte delle caratteristiche della famiglia di mia madre. Sento quello che provano le foreste, entro... in comunione con esse. E sento la primavera, ovviamente».
«Sì? Anche ora?».
Lo trovai indelicato. Non chiedi una cosa del genere a un’elfa silvana. Non più di quanto chiederesti a un nano se è vero che quelli della sua razza hanno un grosso batacchio o di quanto chiederesti a un elfo bianco...
«Questo posto è artificiale» svicolai. «Dovreste saperlo, in fondo anche gli elfi neri sono creature silvestri».
Thygarest inarcò le sopracciglia, perplesso. Poi rise educatamente, scuotendo la testa. Si scostò una ciocca di capelli dal collo (capelli o quel che erano), mostrandomi un orecchio. «Di quali elfi vai cianciando?». Lasciò ricadere la ciocca, un po’ seccato. «Se ora potessimo tornare alle gradevoli consuetudini che di solito si osservano in queste circostanze... io sono quello che ti tiene prigioniera e che fa le domande, tu sei quella che risponde o che si rifiuta di farlo, non quella che ficca il naso nei miei affari».
«Quindi siete un essere umano? Solo un essere umano?».
Thygarest sbatté le palpebre. «Forse non hai capito qualche parte di quello che ti ho appena detto?».
«No, signore, ho capito tutto. Ma visto che voi siete quello che mi tiene prigioniera e non mi dice se intende torturarmi, uccidermi o che cosa, credo di poter infrangere un pochino l’etichetta» replicai io.
«Non vedo perché dovrei torturarti».
Gli rivolsi un sorriso di scherno. «Be’, fantastico».
Lui sospirò. «Non vedo perché dovrei torturarti, visto che posso farti parlare come e quando voglio senza bisogno di torcerti un capello. Per rispondere alla tua domanda fuori luogo... sono solo un essere umano, ma sono anche un mago. No, non rende l’idea. Sono intriso di magia, Elli. Sono così magico che persino un antichissimo elfo bianco si farebbe due conti prima di sfidarmi sul terreno della magia. Sono stato educato, con te, ma se ti ordinassi di dirmi la verità, potresti solo dirmi la verità, te lo assicuro. Invece... vedi? Sono così gentile da lasciarti raccontare mezze-verità e cambiare argomento. La mia gentilezza non è infinita, però».
«Vi prego... ditemi solo che cosa intendete fare, con me» sospirai, non più in tono battagliero, ma semplicemente angosciata.
Gli occhi verdastri e irreali di Thygarest furono attraversati da un guizzo di comprensione.
«Molto bene. Ti baratterò, se sarà possibile. Non intendo ucciderti... ti ucciderò solo se il tuo Consiglio rifiuterà ogni scambio».
Ci pensai.
Era possibile che i miei decidessero di condannarmi a morte? Speravo proprio di no. In fondo, mio padre sedeva nel Consiglio. La Città della Luce era retta dagli elfi bianchi, ma anche la famiglia silvana di mio padre aveva un discreto potere. E c’erano diverse gocce bianche nel sangue di quel ramo, a differenza di quello incontaminato di mia madre.
Annuii.
«Ma prima lascerò che si preoccupino un po’. Per questo ho spedito una tua copia tra i soldati. Avrebbero potuto impegnarsi di più, ma sono comunque riusciti a produrre un cadavere. O quello che ritengono essere un cadavere. Sarà interessante osservare le reazioni del Consiglio, quando la voce si spargerà».
Quello potevo capirlo, anche se mi sembrava rischioso. Rischioso per lui, ovviamente. Le forze dell’Est e dell’Ovest erano quasi pari, ma se l’Ovest avesse voluto avrebbe potuto infliggergli delle perdite notevoli.
Sospirai mentalmente: e viceversa, in effetti.
Quindi qual era il piano di Syryt Thygarest? Vedere se la notizia della mia morte causava una carneficina?
Bisognava ammettere che sembrava in linea con il suo personaggio.
«Moriranno delle persone» mormorai, comunque.
«Sì, eh?» fece Thygarest. «Non ci avevo pensato».
Mi limitai a scuotere la testa. Mi rendevo conto che era inutile cercare di convincerlo a cambiare idea. Quello era Syryt Thygarest, l’essere più crudele del mondo – o così dicevano. Non si sarebbe fermato.
«Elli Nakril, quello che sto per dirti potrà sembrarti maleducato... lascia che della politica si occupi chi lo fa di lavoro».
Annuii. «Sì, signore». Non c’era assolutamente nulla che potessi fare.
Thygarest si alzò e io lo imitai.
«Puoi restare in questo giardino finché lo desideri» disse, di nuovo dolcemente. «Quando esci, qualcuno ti scorterà fino alle tue stanze».