Capitolo 1-1
1
Rager, Pianeta Viken, Avamposto del nord, Stazione Medica 1
Chiusi gli occhi per godermi il momento, mentre tutti i miei altri sensi mi bombardavano in modo incessante. Sotto le mie dita c’era una pelle soffice, di seta. Il battito frenetico del mio cuore mi inondava il cazzo come un tuono pregno di dolore. Mi circondava il dolce profumo del calore femminile, l’aroma muschiato della fica calda e bagnata della mia compagna, solamente a pochi centimetri dalla mia bocca vogliosa, mentre io prendevo un respiro profondo per assaporare il desiderio, il suo corpo fremeva mentre la facevo aspettare prima di darle quello che voleva.
Lei era mia. Le sue cosce fremevano sotto le mie grandi mani, e i suoi gemiti vogliosi fluttuavano nell’aria ed echeggiavano dentro di me come un colpo di piatti, e le riverberazioni viaggiarono su onde dolorose sparate dritte verso il mio cazzo duro come la pietra. Ah, sì, che sia benvenuta questa agonia, l’agonia del desiderio. Questo bisogno, il desiderio che avevo di lei, era come una droga, spietata e intossicante. Volevo che quella sensazione non finisse mai. L’avevo aspettata per così tanto tempo. La mia compagna.
In un qualche angolo scuro e recondito della mia mente sapevo che tutto questo non era reale. Sapevo che mi trovavo su Viken, sedato, disteso su un lettino. Avevo le mani legate ai braccioli, e non stavo toccando la sua fica, non potevo leccarla e assaporarla – e, infine, scoparla. Sapevo che le curve burrose e il calore accogliente del corpo di quella donna, il suo desiderio e la sua fiducia non erano veramente mie, e che invece mi sarei svegliato deprivato, da solo.
Da solo come sempre.
Ma non mi importava. Non potevo fermarmi, non volevo fermarmi. Era così meraviglioso. Mi avevano reso partecipe dei pensieri e dei desideri di un altro guerriero, uno a cui una compagna era stata già assegnata, e questa donna era la sua donna. Il suo corpo era alla sua mercé, lui l’avrebbe conquistata, l’avrebbe tormentata con un piacere senza fine.
Mia.
No, non mia. Ma a spronarmi, a spingermi a continuare, c’era la voglia di trovare la donna che era mia e mia soltanto. Era un’idea che apparteneva più all’istinto che alla mente, e avevo permesso che il bisogno di quest’altro guerriero mi guidasse, perché in questo momento volevo assaporare questa femmina, volevo darle piacere, voleva sentirla gridare il mio nome.
Aprii gli occhi e guardai stupito la donna che era di fronte a me. Era legata al tavolo. Delle spesse cinghie di pelle le bloccavano le spalle, la vita e i fianchi e le impedivano di scappare. Aveva i polsi legati sopra la testa, e le gambe – gli dèi mi aiutino – le sue gambe erano piegate e spalancate, costretta in quella posizione da delle cinghie di pelle attorno alle cosce e alle caviglie, la sua fica in bella mostra, per me.
Ero inginocchiato in mezzo alle sue gambe e non riuscivo a vederle il viso, ma era una cosa da niente rispetto al sontuoso banchetto che mi avevano apparecchiato davanti. I suoi seni pesanti si alzavano e si abbassavano mentre cercava di riprendere fiato. I capezzoli duri puntavano all’insù, fremevano mentre lei gemeva di desiderio. Le tremavano le gambe, tutto il suo corpo era così teso che mi bastava sfiorarle le grandi labbra con un tocco leggero delle dita per farla dimenare. Aveva la fica bagnata e lucente, le labbra esterne rigonfie, floride, di un rosa scuro, e nella mia mente sapevo che mi era appena venuta sulla lingua. Riuscivo ancora a sentire il sapore del suo desiderio selvaggio.
Stava andando in pezzi, scuoteva la testa con foga. Mi abbassai e soffiai un getto di aria calda sulla sua carne tenera. Dèi, amavo la sua fica. Amavo i complessi modi con cui una donna trovava piacere. Niente mi eccitava di più che darmi da fare sul suo corpo e guardarla mentre si disfaceva. Scoprire cosa le piacesse, dove toccarla, leccarla.
Una fica era come uno strumento musicale, pizzicalo, suonalo nel modo giusto e una donna emetterà dei suoni meravigliosi, come il soffice gemito che era appena fuggito dalle labbra di questa femmina.
Si scosse, i muscoli della sua fica si aprirono e si contrassero, e io continuai a guardarla, affascinato. Ossessivo. Possessivo. Voleva un cazzo dentro di lei, un cazzo che la aprisse, che la riempisse. Che la possedesse.
In questo sogno, questa fica era mia. Solo la mia lingua, il mio cazzo, le mie dita avrebbero potuto riempirla.
“Ti prego.” La sua voce mi scivolò addossò, mi trafisse, e nella mia gola crebbe un ruggito. Era questo che aspettavo. Aspettavo che mi implorasse.
Sorrisi e la penetrai con due dita. Con il primo dito disegnai dei cerchi attorno alla dura apertura del suo utero. La donna gemette, si spostò per avvicinarsi a me, ma i legacci glielo impedirono. Il secondo dito lo curvai alla ricerca di quel suo punto segreto, quel punto che sapevo l’avrebbe fatta impazzire di piacere.
Provò a sfuggirmi, sapevo che era quasi troppo, queste sensazioni che le stavo strappando a forza dal corpo. Inarcò la schiena e si staccò dal lettino imbottito, ma i legacci la tenevano ferma al suo posto. Mi bloccai. Forse quella sensazione era fin troppo intensa. Non volevo spaventarla. Anzi, l’opposto. Avrei potuto passare ore e ore tra le sue cosce spalancate, a darle piacere. “Vuoi che mi fermi, compagna?”
“No,” disse respirando affannosamente. “Ti prego. Non ti fermare.”
“A chi appartieni?” Sapevo già quale fosse la risposta, ma l’animale primitivo dentro di me voleva sentirla mentre lo diceva ad alta voce. “Dimmi a chi appartieni, e ti leccherò questa tua fichetta dolce fino a farti urlare.”
“A te.” Contrasse la fica attorno alle mie dita e il mio cazzo pulsò dolorosamente. Presto sarei sprofondato in quel calore bagnato e l’avrei martellata fino a quando il piacere non fosse stato troppo. L’avrei riempita col mio seme, la connessione creata dal mio seme l’avrebbe fatta impazzire di desiderio, l’avrebbe fatta urlare e contorcere e venire, ancora e ancora e ancora. L’avrei riempita, scopata, l’avrei fatta venire fino a farla collassare, esausta. Fino a quando non avesse capito a chi apparteneva. Fino a quando non si fosse scordata di tutto quanto tranne che del mio nome.
“Mia.” Mi assicurai che mi sentisse mentre le abbassavo le labbra sul clitoride – gonfio e col cappuccio tirato all’indietro – e glielo succhiavo e glielo leccavo con dei colpetti rapidi della lingua. Il suo sapore mi esplose in bocca, un dolce nettare dal sapore squisito che mi fece gemere di piacere. Dolce, speziato. Perfetto. Ed era mio. Tutto per me.
Continuai a stimolarla con la lingua e le dita, la condussi verso la più alta delle vette e mi fermai. Aspettai. La succhiai e la leccai di nuovo. Con più forza. Più velocemente.
Quando era sul punto di venire, rallentai e ritrassi le dita lasciandola vuota e smaniosa. Disperata.
“Ti prego!” Provò a muoversi, ma le cinghie glielo impedirono. Il suo corpo si contorse, come attraversato da una scossa. Non poteva resistere. Non poteva fuggire.
Il mio cazzo non vedeva l’ora di penetrarla. Guardai in basso e scoprii di essere già nudo, una goccia di pre-eiaculazione si era raccolta sulla punta della mia asta dura come la pietra.
Ghignai, raccolsi il liquido sulle dita e mi alzai in piedi.
“Compagna. Sei pronta?”
“Sì! Dèi, sbrigati. Scopami. Fallo!”
Ridacchiai. Com’era ansiosa, la mia piccola compagna.
Con la sua ricca essenza che ancora mi formicolava sulla lingua, mi spinsi in avanti in un unico movimento fluido, riempiendola col mio cazzo e facendola gemere, i muscoli della sua fica avvinghiati attorno a me come un pugno rovente.
Ma non era abbastanza. Avevo bisogno di sentirla venire sul mio cazzo duro. Volevo sentire la sua fica in preda agli spasmi, fuori controllo, mentre il piacere si impossessava di lei, del suo corpo. Volevo sentire il mio cazzo che si inzuppava nei suoi umori, mentre lei mi accoglieva più a fondo, mi mungeva di tutto il mio seme.
A fondo dentro di lei, sollevai il dito e strofinai la goccia di pre-eiaculazione sul suo piccolo clitoride perfetto e la guardai. E aspettai.
Un secondo dopo cominciò a urlare. Le pareti della sua fica si incresparono e pulsarono investite dall’orgasmo. I suoi capezzoli erano duri, dei piccoli spuntoni, e io li tirai con gentilezza, facendoli ruotare tra le dita mentre continuavo a muovere i fianchi, a spingere con più forza, più in profondità, mentre il suo corpo esplodeva tutto attorno a me.
Mia. Lei era mia. Solo io potevo farle queste cose. Solo io potevo darle così tanto piacere.
Ruggii e la penetrai fino in fondo, estraendo un orgasmo impetuoso dal suo corpo, mentre altra pre-eiaculazione inzuppava l’interno della sua fica, spingendola di nuovo al limite, legandola a me, facendola mia e mia soltanto.
Il mio corpo rispose al suo, come se fosse lei quella ad avere il potere. Continuai a martellarla quasi senza pensarci, in modo meccanico, il suo sapore non faceva che decuplicare il mio istinto di conquistare, di reclamare. Di riempirla con il mio seme. Il mio bimbo dentro di lei. Il mio sperma. La mia compagna.
Il fuoco mi montò nelle vene, si accumulò nelle mie palle con la tensione che continuava a crescere, e poi esplose. Ululai e la riempii con il mio seme, marchiandola come si fa con gli animali.
Io mi sentivo un animale. Irrazionale. Selvaggio. Fuori controllo.
Solo lei poteva farmi una cosa del genere. E io ne volevo di più. Ne avevo bisogno. Solo lei riusciva a farmi sentire completo.
Dolore e piacere. Lussuria e amore. Ossessione e protezione. Una dozzina di emozioni che si rimestavano dentro di me mentre la riempivo, mentre la reclamavo.
Abbassai le labbra sulla sua pelle zuppa di sudore, la baciai e presi ad esplorarla. A calmarla e ad adorarla. Volevo sapere che sapore avesse la sua pelle. Strofinare il naso contro di lei. Confortarla. Così come fino a un momento fa avevo avuto una voglia irrefrenabile di comportarmi in modo selvaggio, adesso avevo bisogno di essere gentile.
Un’urgenza quasi dolorosa, il cuore che mi si strizzava nel petto, il dolore che mi si raccoglieva dietro agli occhi, come centinaia di pugnali roventi.
La sua pelle era così vicina alla mia bocca. A pochi centimetri. Ero a pochi centimetri dal paradiso…
“Rager?”
La voce era dura e fredda, era la voce di un uomo. Non era quello che volevo sentire. Io volevo lei. La sua pelle. Il suo profumo. Il suo tocco…
“Per gli dèi, Rager. Lo sapevo tu saresti stato un problema.”
Qualcuno mi conficcò qualcosa di affilato nel collo e subito la donna scomparve. Sibilai per il dolore, aprii gli occhi e vidi chi era che aveva osato disturbarmi. Con una chiarezza che strideva in modo crudele col meraviglioso sogno da cui mi ero appena svegliato, mi resi conto di essere disteso e legato su un freddo lettino nel centro medico. Il sapore tagliente, amaro di qualunque fosse la medicina che mi avevano appena iniettato cominciò a fluirmi nelle vene, inondandomi la bocca.
E con quel sapore venne anche il ricordo. La realtà.
“Dannazione, dottore. È disgustoso.” Ero arrabbiato. Ero furioso. Il sapore estraneo degli agenti chimici mi scacciò dalla mente il gusto persistente della sua fica dolcissima. Non importava quanto duramente ci provassi. Non riuscii a ritrovare sulla lingua il sapore di quel suo nettare mielato.
Sentii una porta che si apriva e due paia di stivali pesanti che entravano nella stanza.
Anche senza guardare sapevo che quegli stivali appartenevano a Evon e Liam. I miei amici, i miei compagni d’armi. Gli idioti che a furia di discorsi mi avevano convinto a sottopormi a tutto questo. A questo cavolo di lettino. Al sogno.
Il dottore mi diede uno schiaffo sul braccio, come se fossimo vecchi amici, premette un bottone per far sparire le cinghie e si allontanò. “Bentornato, Rager.”