Il signor Sherlock Holmes

2694 Words
Il signor Sherlock HolmesNell’anno 1878 mi laureai in medicina all’Università di Londra e mi trasferii a Netley per seguire un corso prescritto per i medici militari. Finiti gli studi a Netley, venni destinato al 5° Reggimento Fucilieri Northumberland. Allora il reggimento era di stanza in India e prima che io lo raggiungessi scoppiò la seconda guerra afgana. Sbarcato a Bombay, seppi che le truppe, avanzate attraverso i passi montani, si trovavano già in territorio nemico. Con molti altri ufficiali che si trovavano nella mia stessa situazione, partii ugualmente per raggiungerle e riuscii ad arrivare sano e salvo a Candahar, dove trovai il mio reggimento e assunsi le mie nuove funzioni. La campagna fruttò onori e promozioni a molti, ma a me portò solo guai e disavventure. Fui trasferito dalla mia brigata al Reggimento del Berkshire con il quale partecipai alla fatale battaglia di Maiwand. Là fui colpito alla spalla da un proiettile che mi fratturò l’osso sfiorando l’arteria succlavia. Sarei caduto nelle mani dei feroci Ghazi se non fosse stato per la devozione e il coraggio di Murray, il mio attendente, che mi caricò su un cavallo e riuscì a riportarmi in salvo entro le linee britanniche. Dolorante, e indebolito per fatiche e privazioni, fui trasferito, con un treno ospedale carico di feriti, all’ospedale di Peshawar. Ero già in via di guarigione e avevo il permesso di passeggiare per le camerate, e persino di uscire sulla veranda a prendere un po’ di sole, quando fui colpito da un attacco di gastro-enterite, malattia sempre in agguato in quei paesi. Per molti mesi fui in fin di vita e quando, finalmente, mi ripresi ed entrai in convalescenza ero così debole ed emaciato che i sanitari decisero di mandarmi in Inghilterra il più presto possibile. Così, dovetti partire con la nave Orontes, e sbarcai un mese dopo a Portsmouth, con la salute irrimediabilmente rovinata, ma col permesso del governo inglese di dedicare i nove mesi successivi al tentativo di migliorarla. Non avevo parenti in Inghilterra e, quindi, ero libero come l’aria… o meglio, libero quanto lo può essere un uomo che dispone di undici scellini e sei pence al giorno. Date le circostanze, era naturale che io venissi attratto da Londra, il grande immondezzaio dove tutti gli sfaccendati e i fannulloni dell’Impero si riversano irresistibilmente. Giunto alla capitale, rimasi per qualche tempo in un albergo dello Strand, conducendo una vita scomoda e insulsa e spendendo con una prodigalità eccessiva quel danaro che avevo. Lo stato delle mie finanze divenne tanto preoccupante che, ben presto, mi resi conto che dovevo o lasciare la metropoli per ritirarmi in qualche villaggio, oppure mutare del tutto il mio regime di vita. Scelta quest’ultima soluzione, decisi di lasciare l’albergo e di trovarmi un alloggio meno costoso. Lo stesso giorno in cui giunsi a questa conclusione, me ne stavo al Criterion Bar quando qualcuno mi batté su una spalla. Mi volsi e riconobbi Stamford, un giovanotto che era stato infermiere alle mie dipendenze, a Barts. La vista di una faccia conosciuta, nell’immensa selva londinese, è davvero piacevole per un uomo solo e smarrito. Nei tempi andati, non c’era mai stata una grande intimità fra me e Stamford, ma lo salutai con entusiasmo, ed egli, a sua volta, parve felice di vedermi. Nell’esuberanza del momento, lo invitai a far colazione con me allo Holborn e, poco dopo, salivamo assieme su una carrozza. – Cosa diavolo ha combinato, Watson? – mi domandò Stamford, senza dissimulare il proprio stupore, mentre correvamo per le affollate vie di Londra. – È nero come una castagna e magro come un’acciuga. Gli feci un breve resoconto delle mie avventure, ed ero appena arrivato alla conclusione quando raggiungemmo la mèta. – Che sfortuna! – mi disse il mio compagno in tono di commiserazione. – E adesso, cosa ha intenzione di fare? – Credo che mi cercherò un alloggio – risposi. – Voglio vedere se è possibile trovare una stanza decente a un prezzo ragionevole. – Che strana coincidenza! – ribatté lui. – Lei è il secondo, oggi, a cui sento fare lo stesso discorso. – E chi era il primo? – Un tale che lavora al gabinetto di analisi chimiche dell’ospedale. Si è lamentato con me, stamattina, perché non riesce a trovare qualcuno con cui dividere le spese di un bell’appartamento che gli hanno offerto e il cui prezzo è superiore alle sue possibilità. – Perdiana! – esclamai. – Se vuole davvero che qualcuno co-abiti con lui e che paghi la metà dell’affitto, sono proprio l’uomo che fa al caso suo. Anzi, preferisco avere un coabitante, che vivere solo. Stamford mi lanciò una strana occhiata al disopra del bicchiere che stava portando alle labbra. – Lei non conosce ancora Sherlock Holmes – mormorò. – Non so se le piacerebbe come compagnia duratura. – Perché? Che difetti ha? – Oh, non ho detto che abbia dei difetti… o almeno che ne abbia di gravi. Ha delle idee un po’ strane… ed è fanatico per certi rami della scienza. Che io sappia, è una persona molto a modo. – Uno studente in medicina, immagino. – No. Non so che carriera intenda seguire. Credo che sia profondo in anatomia ed è certamente un chimico di prim’ordine. Però, a quanto mi consta, non ha mai seguito sistematicamente un corso di medicina. Studia senza metodo, in modo eccentrico, ma ha accumulato un mucchio di nozioni strane che stupirebbero i suoi professori. – Non gli ha mai chiesto che strada vuol seguire? – domandai. – No. Non è uomo a cui strappare facilmente le confidenze… benché sia abbastanza comunicativo… quando gli gira. – Mi piacerebbe conoscerlo – dissi. – Se devo coabitare con qualcuno, preferisco un uomo quieto e studioso; non sono ancora abbastanza forte per sopportare molto rumore e trambusto. Di trambusto ne ho avuto abbastanza nell’Afghanistan… ne ho avuto abbastanza per tutto il resto dell’esistenza. Come posso fare per conoscere il suo amico? – Oggi sarà certamente all’ospedale – rispose Stamford. – O gira al largo dal laboratorio per settimane e settimane, oppure ci lavora dalla mattina alla sera. Se vuole, dopo colazione, possiamo fare un salto insieme. – Ben volentieri – risposi, e la conversazione passò ad altri argomenti. Durante il tragitto verso l’ospedale, Stamford mi fornì nuovi particolari sul giovanotto col quale mi proponevo di coabitare. – Se non andrà d’accordo con Holmes, non se la prenda con me – mi ammonì. – Di Sherlock Holmes mi consta soltanto quel che ho potuto sapere incontrandolo occasionalmente al laboratorio. È stato lei a proporre questo accordo, quindi posso essere ritenuto responsabile in alcun modo. – Se non andremo d’accordo, sarà facile separarci – risposi; poi, fissandolo in viso, soggiunsi: – Dica un po’, Stamford, mi pare che abbia qualche motivo per lavarsene le mani. Questo signor Holmes ha forse un caratteraccio? Altrimenti, che cosa c’è? Non mi nasconda le cose… – Non è facile mettere in parole una pura e semplice sensazione – rispose Stamford con una risatina. – Per me, Holmes ha una mentalità troppo scientifica… che rasenta il cinismo. Lo crederei capacissimo di somministrare a un amico un pizzico dell’ultimo alcaloide vegetale, non per malvagità, capisce, ma semplicemente per spirito di indagine, allo scopo di farsi un’idea precisa degli effetti. Per la verità, credo che ingoierebbe egli stesso quel veleno con la stessa disinvoltura. A quanto pare, ha la passione delle cognizioni complete ed esatte. – Non ha torto. – Sì, ma anche in questo esiste l’esagerazione. Quando uno arriva a staffilare i soggetti nella sala anatomica, si può ben dire che la sua passione per le indagini scientifiche prende una forma bizzarra. – Staffilare… i cadaveri? – Sì, per verificare fino a che punto si possono produrre le ecchimosi dopo la morte. L’ho visto coi miei occhi. – Eppure lei dice che non è uno studente di medicina? – No. Dio sa a che cosa tende con i suoi studi. Ma eccoci qua. Lei stesso si farà un’opinione sul suo conto. Svoltammo in un vialetto e varcammo una porticina laterale che dava in un’ala del grande ospedale. Conoscevo l’ambiente e non avevo bisogno d’essere guidato, mentre salivamo lo squallido scalone di pietra e ci incamminavamo per un lungo corridoio dalle candide mura in cui si apriva una fila di porte color noce. Quasi in fondo, attraverso un piccolo arco, svoltammo in un corridoio secondario che conduceva al gabinetto di chimica. Questo era una sala vasta con le pareti rivestite di scaffali ingombri d’ogni sorta di recipienti. C’erano varie tavole basse, irte di storte e provette, e di becchi Bunsen con le loro tremolanti fiammelle blu. In tutta la sala c’era un uomo solo, curvo su una tavola all’altro capo, assorto nel suo lavoro. Al rumore dei nostri passi, si volse, poi balzò in piedi con un’esclamazione di gioia. – Ho trovato! Ho trovato! – gridò apostrofando il mio compagno e correndogli incontro, con una provetta in mano. – Ho trovato un reagente che precipita con l’emoglobina e con nient’altro. Se avesse scoperto l’oro, il suo viso non avrebbe certamente espresso una gioia maggiore. – Il dottor Watson, il signor Sherlock Holmes – ci presentò Stamford. – Tanto piacere – disse Holmes in tono cordiale, stringendomi la mano con una forza di cui non l’avrei creduto capace. – A quanto vedo, lei è stato nell’Afghanistan. – Come fa a saperlo? – domandai stupefatto. – Lasci perdere – fece lui ridacchiando. – Ora, l’importante è questa faccenda dell’emoglobina. Immagino che si renda conto del significato della mia scoperta. – Dal punto di vista sperimentale, è certamente interessante – risposi. – Ma sotto l’aspetto pratico… – Ma via, dottore, da anni non si faceva una scoperta così interessante nel campo della medicina legale! Non capisce che questo ci offre la possibilità di una prova infallibile per le macchie di sangue? Venga qui. Tutto agitato, mi afferrò per una manica, trascinandomi verso la tavola alla quale aveva lavorato sino a un momento prima. – Facciamo una prova con sangue fresco – soggiunse cacciandosi un lungo ago in un dito e raccogliendo una goccia di sangue in una pipetta da prelievo. – Ora guardi. Metto questa piccola quantità di sangue in un litro d’acqua. Come vede, all’occhio non si avverte la presenza di sangue, l’acqua sembra purissima. La percentuale di sangue è talmente piccola da non essere percettibile. Eppure, sono certo che riusciremo a ottenere la reazione caratteristica. – Mentre parlava, lasciava cadere nel recipiente dell’acqua alcuni cristalli bianchi, poi aggiunse qualche goccia di un liquido trasparente. In un attimo, il contenuto assunse un colore mogano scuro e una polverina marrone precipitò in fondo al vaso di vetro. – Ah! – esclamò ancora Holmes battendo le mani con l’aria del bambino che ha un giocattolo nuovo. – Che glie ne sembra? – È una prova molto delicata – osservai. – Magnifico! Magnifico! La vecchia prova col guaiacolo era poco pratica e incerta. Altrettanto dicasi per l’esame microscopico delle emazie, esame che è assolutamente privo d’ogni valore, se le macchie risalgono a qualche ora prima. La mia reazione, invece, sembra verificarsi nello stesso modo sia quando il sangue è vecchio sia quando il sangue è fresco. Se questa prova fosse stata inventata prima, centinaia di uomini che attualmente passeggiano liberi sulla faccia della terra, avrebbero pagato, da un pezzo, il prezzo dei loro delitti. – Davvero? – mormorai. – Accade di continuo che un processo per omicidio dipenda proprio da questo unico punto. Un uomo è sospettato per un delitto, vari giorni, o addirittura vari mesi dopo averlo commesso. La sua biancheria e i suoi vestiti vengono esaminati, e vi si trovano delle macchie brunastre. Sono macchie di sangue, o di fango, o di ruggine, o di frutta, o di che cosa? Ecco il problema che tormentava i periti… e perché? Perché non esisteva alcuna prova attendibile di laboratorio. D’ora in poi, ci sarà la “reazione Sherlock Holmes”, e ogni dubbio verrà eliminato. Gli lampeggiavano gli occhi mentre parlava. Si portò la mano al cuore e fece un inchino come se rispondesse agli applausi di una folla evocata dalla sua fantasia. – Mi congratulo vivamente – dissi, molto stupito di tanto entusiasmo. – L’anno scorso, a Francoforte, c’è stato il caso di von Bischof – proseguì Holmes. – Quell’uomo sarebbe finito certamente impiccato se fosse già esistita questa prova. E poi, c’è stato Mason di Bradford, il famigerato Muller, Lefevre di Montpellier e Samson di New Orleans. Potrei nominarle una fila di casi in cui questa reazione avrebbe influito in modo decisivo. – A quanto pare, le i è un’enciclopedia ambulante, in fatto di delitti – osservò Stamford ridendo. – Potrebbe fondare una rivista su questo argomento, e chiamarla “Notizie giudiziarie retrospettive”. – Sarebbe molto interessante da leggere – dichiarò Sherlock Holmes, mettendosi un po’ di collodio sul dito, dove si era punto. – Devo usare molta prudenza – soggiunse rivolgendomi un sorriso – perché maneggio una quantità di veleni. – Così dicendo mi mostrò una mano, e notai che era tutta costellata di chiazze di collodio nonché di macchie prodotte da forti acidi. – Siamo venuti qui per affari – disse Stamford, sedendosi su uno sgabello a tre gambe, e spingendone un altro nella mia direzione. – Il mio amico è in cerca d’alloggio; siccome lei si è lamentato di non trovare nessuno che prendesse a metà con lei l’appartamento che le hanno offerto, ho ritenuto opportuno farvi incontrare. Sherlock Holmes parve entusiasta all’idea di condividere l’abitazione con me. – Ho messo gli occhi su un appartamento in Baker Street -disse. – Sarebbe proprio l’ideale per noi. Spero che non le dia fastidio l’odore del tabacco forte. – Io fumo sempre tabacco da marinaio – risposi. – Tanto meglio. Generalmente, tengo in casa dei prodotti chimici e qualche volta compio esperienze. Crede che le possa dare fastidio? – Nemmeno per sogno. – Vediamo un po’… quali sono gli altri miei difetti: vado soggetto a crisi di cattivo umore e non apro bocca per giorni e giorni. Se dovesse accadere, non pensi che le tenga il broncio. Mi lasci in pace e, prima o poi, mi passerà. E lei, che cosa ha da confessare? E sempre opportuno che due persone che devono convivere si confidino in precedenza le loro caratteristiche peggiori. Risi a quell’interrogatorio. – Possiedo un cucciolo di mastino – dissi. – E ho un’avversione per ogni sorta di frastuoni, perché i miei nervi sono ancora scossi. Mi alzo a ore impossibili e sono terribilmente pigro. Ho un’altra serie di vizi, quando sto bene, ma quelli che le ho raccontato, per ora, sono i più importanti… – Il suono del violino rientra nella categoria dei frastuoni, secondo lei? – mi domandò lui preoccupato. – Dipende da chi lo suona – risposi. – Una musica eseguita bene al violino è un dono degli dèi… ma se il violinista è scadente… – Allora, niente paura – m’interruppe Holmes, con una risata giuliva. – Possiamo considerare la cosa fatta, sempre che le stanze siano di suo gradimento. – Quando possiamo vederle? – Venga a prendermi qui domani a mezzogiorno e andremo insieme a chiudere l’affare. – Benissimo… a mezzogiorno precise – dissi e gli strinsi la mano. Lo lasciammo intento ad armeggiare tra le provette e ci dirigemmo verso il mio albergo. – A proposito – domandai a un tratto, fermandomi e volgendomi a Stamford – come diavolo avrà fatto a sapere che venivo dall’Afghanistan? Il mio compagno ebbe un sorriso enigmatico. – Questa è una delle sue piccole capacità – rispose. – Molta gente si domanda come fa a scoprire certe cose. – Oh, allora, si tratta di un mistero! – esclamai stropicciandomi le mani. – Molto interessante. Non so come ringraziarla per averci messo in rapporti. Per chi vuole studiare l’umanità, il soggetto ideale da esaminare è l’uomo, com’è noto. – Lo studi a fondo, allora – soggiunse Stamford, mentre si accomiatava. – Vedrà che non sarà un problema facile. Scommetto che, se partirete alla pari scoprirà più cose lui sul conto suo, Watson, che non lei sul conto di lui. Arrivederci. – Arrivederci – risposi, e rientrai in albergo sempre più incuriosito dalla personalità del mio nuovo conoscente.
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