V - L'ALBERO DELL'INVENZIONE UMANA
Potevano essere le sette di sera. Il vento andava calando, segno che di lì a poco si sarebbe infuriato. Il bambino si trovava sull’estrema altura meridionale della punta di Portland.
Portland è una penisola. Ma il bambino non aveva idea di cosa fosse una penisola, e non conosceva neppure la parola Portland. Sapeva solo che si può camminare finché non si cade a terra. Una nozione è una guida, ma quel bambino non aveva nessuna nozione. Qualcuno lo aveva portato là, e lo aveva abbandonato. Qualcuno e là , questi due enigmi rappresentavano tutto il suo destino: qualcuno era il genere umano, là era l'universo. Quaggiù non aveva altro punto d’appoggio che quel piccolo pezzo di terra nuda e fredda sul quale poggiavano i suoi piedi nudi. In quel grande mondo crepuscolare aperto da tutte le parti, cosa c’era per quel bambino? Nulla.
Camminava verso quel nulla.
Era attorniato dall’immenso abbandono degli uomini.
Attraversò diagonalmente il primo pianoro, poi un secondo, poi un terzo. All’estremità di ogni pianoro trovava una fenditura nel terreno; qualche volta il pendio era scosceso, ma sempre breve. Gli alti e nudi altopiani della punta di Portland sembrano delle grandi lastre che sporgono una sotto l’altra, il lato meridionale sembra entrare sotto il ripiano precedente e quello settentrionale si solleva sul seguente. Il bambino saltava con agilità da un livello all’altro. Ogni tanto si fermava come per consigliarsi con se stesso. La notte si faceva sempre più scura, il suo raggio visivo si accorciava sempre più, non vedeva che a pochi passi di distanza.
A un tratto si fermò, rimase un momento in ascolto, fece un piccolissimo movimento con il capo come di contentezza, si voltò di scatto e si diresse verso un poggio di mezza altezza che riusciva confusamente a vedere alla sua destra, nel punto del ripiano più vicino alla scogliera. Lì si intravedeva una sagoma che nella nebbia sembrava quella di un albero. Proprio in quella direzione il bambino aveva appena udito un rumore che non era quello del vento, né quello del mare. Non poteva neanche essere il grido di un animale; pensò che lì dovesse esserci qualcuno.
In pochi passi arrivò ai piedi di quel poggio.
Infatti, c’era qualcuno.
Ciò che prima era solo qualcosa di indistinto ora era ben visibile.
Era come una specie di grande braccio che usciva direttamente dal terreno. All'estremità superiore di questo braccio si distendeva orizzontalmente una specie di dito indice, sorretto dal pollice. Quel braccio, quel pollice e quell'indice disegnavano contro il cielo una squadra. Nel punto in cui quella specie di indice e quel pollice si congiungevano, c’era appeso un filo, da quale penzolava qualcosa di nero e informe. Quel filo, scosso dal vento, produceva il rumore di una catena.
Era quello il rumore che il bambino aveva percepito.
Il filo, visto da vicino, era proprio quello che il suono lasciava immaginare: era una catena. Una catena marinara con gli anelli semipieni. Per quella misteriosa legge dell’amalgama che in tutta la natura sovrappone, mescolandole, apparenze e realtà, il luogo, il tempo, la nebbia, il mare tragico, i lontani tumulti visionari dell'orizzonte, si aggiungevano a quel profilo e lo ingigantivano.
La massa legata alla catena assomigliava a una custodia. Era fasciata come un neonato e lunga come un uomo. In cima c’era una rotondità attorno alla quale si avvolgeva l’estremità della catena. In basso c’era come una lacerazione dalla quale uscivano delle membra spolpate.
Una debole brezza faceva muovere la catena, e ciò che vi stava appeso dondolava dolcemente. Quella massa inerte assecondava i movimenti diffusi delle distese; aveva qualcosa di spaventoso; l'orrore, che deforma le proporzioni degli oggetti, la privava quasi delle dimensioni, lasciandole solo il contorno; era un condensato di tenebre che aveva però un aspetto; aveva la notte dentro e sopra di sé; era in preda a turgori sepolcrali; i crepuscoli, il sorgere della luna, le discese delle costellazioni dietro le scogliere, le fluttuazioni dello spazio, le nuvole, tutta la rosa dei venti, erano finalmente entrati nella composizione di questo nulla visibile; quella specie di massa indefinibile sospesa nel vento partecipava all'impersonalità sparsa in lontananza sul mare e nel cielo, e le tenebre completavano quella cosa che era stato un uomo.
Era quello che non c’è più.
Essere un avanzo è una cosa che non si può esprimere a parole. Non si può esistere e persistere, essere dentro e fuori dalla voragine, tornare a galla dalla morte come se fosse impossibile rimanerne sommersi; in queste realtà c’è mescolata una certa quantità di impossibile. Ecco perché è indicibile. Questo essere - era un essere? - questo testimone nero era un avanzo, un residuo terribile. Avanzo di cosa? Prima della natura, poi della società. Uno zero totale.
Era in balia di una inclemenza assoluta. Soffriva della solitudine della dimenticanza, era stato abbandonato alle avventure dell’ignoto. Non aveva difese contro l’oscurità, che ne faceva ciò che voleva. Era un fuorilegge della bara, condannato all’annientamento senza pace. La morte deve avere un velo, la tomba una dignità e un pudore; qui non c’erano né velo né dignità, ma solo una cinica putrefazione. Qui la morte non lavorava nella tomba, il suo laboratorio, metteva in bella mostra il suo lavoro insultando tutte le serenità dell’ombra.
Quell’essere era stato spogliato e saccheggiato, e si era decomposto all’aria aperta. Spogliare una spoglia è uno sfinimento inesorabile. Le midolla non erano più nelle sue ossa, le sue viscere non erano più nel suo ventre, la voce non era più nella sua gola. Un cadavere è come una tasca voltata e rivoltata dalla morte. Se vi era stato un Io, dov’era ora questo Io? Forse era ancora lì, e questo è un pensiero atroce. Qualcosa che vaga ancora attorno a qualcosa in catene. Si può immaginare qualcosa di più lugubre nell’oscurità?
Quaggiù sulla terra ci sono delle realtà che sembrano delle porte verso l’ignoto, dalle quali il pensiero sembra poter uscire e l’ipotesi precipitare. La congettura ha il suo compelle intrare . Passando per certi luoghi e davanti a certi oggetti, siamo costretti a fermarci in preda ai sogni lasciando che la nostra anima vi si avventuri. Nell’invisibile vi sono delle oscure porte socchiuse. Nessuno avrebbe potuto incontrare quel morto senza fermarsi a meditare.
Quella vasta dispersione lo logorava in silenzio. Aveva avuto sangue che era stato bevuto, pelle che era stata mangiata, carne che era stata strappata via. Nulla era passato senza togliergli qualcosa. Dicembre aveva preso in prestito da lui il freddo, mezzanotte il terrore, il ferro la ruggine, la peste i miasmi, il fiore i profumi. La sua lenta disintegrazione era stata una sorta di pedaggio, un pedaggio che il cadavere aveva pagato alla raffica di vento, alla pioggia, alla rugiada, ai rettili, agli uccelli; quel povero corpo era stato frugato da tutte le oscure mani della notte.
Quell’abitante della notte era davvero strano. Era in una pianura sopra una collina, e tuttavia non c’era. Era tangibile, eppure era come svanito. Era un’ombra che si aggiungeva alle tenebre. Scomparso il giorno, in quella vasta e silenziosa oscurità, si era cupamente accordato con tutto. Il suo semplice essere lì accresceva il lutto della tempesta e la calma delle stelle. In lui si condensava ciò che vi è di inesprimibile nel deserto. Relitto di un ignoto destino, si aggiungeva a tutte le selvagge reticenze della notte. Nel suo mistero c’era un vago riverbero di tutti gli enigmi.
Intorno a lui si sentiva come un decadimento della vita che scendeva in profondità. Lì intorno svanivano certezza e fiducia; il fremito delle frasche e dell’erba, una desolata malinconia, un’ansia che sembrava avere una coscienza predisponevano tragicamente tutto il paesaggio per quella sagoma che pendeva dalla catena. La presenza di uno spettro in un paesaggio già desolato ne aumenta a dismisura la solitudine.
Era un simulacro; avendo addosso i venti che non si placavano mai, rappresentava l’implacabile; quel suo continuo ondeggiare lo rendeva tremendo. È spaventoso a dirsi, ma sembrava il centro di quegli spazi, e che qualcosa di immenso si appoggiasse su di lui. Chi lo sa? Forse si trattava dell’equità che è intravista e sfidata e che va oltre la nostra giustizia. Era come se in quel suo durare fuori della tomba ci fosse la vendetta per lui e per tutti gli uomini. In quel deserto crepuscolare era come una testimonianza. Era la prova di una materia inquietante, perché la materia davanti alla quale si trema è la rovina dell’anima. Perché la materia morta ci turbi è necessario che vi abbia vissuto lo spirito. Egli denunciava la legge di quaggiù alla legge di lassù: messo lì dall’uomo, stava aspettando Dio. Sopra di lui, le immense fantasticherie dell’ombra fluttuavano con tutte le torsioni delle nuvole e delle onde.
Dietro questa visione c’era una sinistra occlusione. Quel corpo aveva intorno a sé l’infinito, delimitato dal nulla, né da un albero, né da un tetto, né da un passante. Quando l’immanenza che incombe su di noi, cielo, abisso, vita, sepolcro, eternità, ci appare evidente, allora ci rendiamo conto che tutto è inaccessibile, tutto è proibito, murato. Nessuna chiusura è più formidabile dell’infinito che si spalanca.