I.-3

1937 Words
Irene stava in piedi, presso il pianoforte. S’era tolto il cappello e la sciarpa di pizzo che portava, scoprendo i capelli dorati e il pallido collo. Nel suo abito grigio, contro il legno color rosa del pianoforte, ella apparve al vecchio Jolyon come un quadro delizioso. Le diede il braccio, e uscirono solennemente. Nella sala, capace di contenere comodamente ventiquattro convitati, non c’era, ora, che una piccola tavola rotonda. L’enorme tavola da pranzo opprimeva il vecchio Jolyon nella sua presente solitudine; perciò l’aveva fatta rimuovere, in attesa del ritorno del figlio. E là, egli soleva mangiare solo in compagnia di due ottime copie delle “Madonne” di Raffaello. Era l’unica ora triste della sua giornata, in quella dolce estate. Non era mai stato un forte mangiatore, come il grosso Swithin, o Sylvanus Heythorp, o Anthony Thormxorthy, suoi compagnoni del tempo passato; cosicché il cenare da solo, sotto lo sguardo delle Madonne, era per lui un’occupazione piuttosto malinconica, che sbrigava al più presto, in modo da passare al godimento, più spirituale, del caffè e del sigaro. Ma, quella sera, la cosa era diversa! I suoi occhi scintillavano mentre guardavano Irene attraverso la piccola tavola; ed egli parlava dell’Italia e della Svizzera, raccontando storie di viaggio e altre sue esperienze, che ormai non poteva più raccontare al figlio e alla nipote, che le avevano udite già troppe volte. Quell’ascoltatrice nuova era una gioia per lui: poiché il vecchio Jolyon non era uno di quei vecchi che si ripetono continuamente, errando nei campi delle reminiscenze. Le chiacchiere altrui lo stancavano presto, e perciò, istintivamente, cercava di non stancare gli altri; e la sua naturale tendenza a corteggiare la bellezza lo rendeva accorto, specialmente nei rapporti con una donna. Avrebbe voluto che lei si rivelasse, ma, invece, benché ella approvasse con sussurri, e sorridesse o sembrasse godere di ciò che egli le raccontava, continuava a sentire in lei quella lontananza misteriosa che costituiva metà del suo incanto. Non poteva sopportare le donne che continuano a cianciare senza badarvi; e neanche le donne arcigne che han l’aria di saperne sempre più degli altri. Una sola qualità apprezzava nelle donne: il fascino femminile; e quanto più esso era calmo e dolce, tanto più gli piaceva. E quella donna davanti a lui aveva un fascino tenue e velato, come di certi pomeriggi soleggiati in quelle valli e colline italiane che aveva amato. Anche il sapere che ella vivesse in disparte, quasi segregata, gliela faceva apparire più vicina, compagna stranamente desiderabile. A un uomo vecchio e fuori del mondo, piace il sentirsi sicuro dalla rivalità dei giovani, perché vorrebbe ancora essere il primo nel cuore della bellezza. Ed egli, bevendo il vino del Reno e guardandole le labbra, si sentiva quasi giovane. Ma anche il cane Balthazar osservava le labbra d’Irene, disprezzando in cuor suo le interruzioni del discorso e il tintinnio di quei bicchieri verdastri pieni di un fluido dorato che gli appariva disgustoso. La luce si stava affievolendo, quando rientrarono nella sala da musica. Col sigaro in bocca, il vecchio Jolyon disse: «Suonatemi un po’ di Chopin». Si può conoscere la qualità dell’animo degli uomini dai sigari che fumano e dai musicisti che prediligono. Il vecchio Jolyon non poteva sopportare i sigari forti e neanche la musica di Wagner. Preferiva Beethoven e Mozart, Hendel e Gluk, e Schumann, e per qualche occulta ragione, le opere di Meyerbeer: ma, negli ultimi tempi, era stato sedotto da Chopin, così, come in pittura, s’era innamorato di Botticelli. Pur cedendo a questi gusti, era conscio della loro divergenza dai modelli dell’Età aurea. La loro poesia non era quella di Milton e Byron, di Tennyson, di Raffaello e di Tiziano, di Mozart e di Beethoven. Era come se fosse dietro un velo; la loro poesia non colpiva diritto in faccia, ma insinuava le dita sotto le costole, e voltava e torceva e faceva fondere il cuore. Dubitava che quella sensazione fosse sana, ma poco se ne curava, pur di poter vedere i quadri dell’uno o udire la musica dell’altro. Irene sedette al pianoforte, sotto la lampada elettrica velata di seta grigio-perla; il vecchio Jolyon, in una poltrona, da dove poteva vederla, incrociò le gambe, fumando lentamente il suo sigaro. Ella rimase qualche momento con le mani sui tasti, certo cercando nella sua mente che cosa potesse suonargli. Poi cominciò, e nel vecchio Jolyon sorse un piacere doloroso, non uguale ad alcun’altra sensazione al mondo. Cadde in un dolce rapimento, solo interrotto dal movimento della mano che, a lunghi intervalli, toglieva il sigaro di bocca e ve lo rimetteva. Ella era là, e in lui c’era il vino del Reno e il profumo del tabacco; ma c’era anche un mondo tutto splendido di sole, che indugiava in un chiarore di luna, e c’erano stagni con grandi cicogne, all’ombra di alberi azzurrini, ricoperti da macchie di rose rosse come vino; e campi di lavanda dove pascolavano mucche bianche come il latte; e una donna tutta velata, dagli occhi scuri e dal collo bianco, che sorrideva, tendendo le braccia. A un tratto, nell’aria, ch’era simile alla musica, cadde una stella e rimase impigliata fra le corna di una mucca. Aprì gli occhi. Che bel pezzo! Suonava bene, col tocco di un angelo! E li chiuse di nuovo. Si sentiva miracolosamente triste e felice, come soltanto ci si può sentire all’ombra di un tiglio in pieno fiore, odoroso di miele. Non più rivivere la propria vita, avrebbe voluto, ma rimanere là e scaldarsi al sorriso di quegli occhi di donna e godere della sua bellezza! Tese la mano; il cane Balthazar vi appoggiò il muso e la leccò. «Com’è bello!», disse. «Continuate: ancora Chopin!» Ella ricominciò a suonare. E, questa volta, lo colpì la somiglianza fra lei e Chopin. L’ondulazione che aveva notato nel suo passo la ritrovava nel suo modo di suonare, nel Notturno che aveva scelto, nella dolcezza dei suoi occhi scuri e nello splendore dei suoi capelli, simile alla luce di una luna dorata. Era seducente, sì: ma non c’era nulla di Delilah, né in lei, né in quella musica. Una lunga spirale azzurrina salì dal suo sigaro e si dissolse nell’aria. “E noi ce ne andremo!”, pensò. “E non ci sarà più bellezza! Più nulla?” Irene si fermò di nuovo. «Volete che vi suoni un po’ di Gluk? Egli soleva scrivere la sua musica in un giardino illuminato dal sole, con una bottiglia di vino del Reno accanto a sé». «Ah sì! Suonatemi l’Orfeo». E di nuovo, intorno a lui, si stendevano campi di fiori d’oro e d’argento, con le bianche forme ondeggianti nel chiarore solare, e splendidi uccelli, che volavano avanti e indietro. Tutto era estate. Ondate confuse di dolcezza e di rimpianto gli riempivano l’anima. Gli cadde un po’ di cenere del sigaro, e, tirando fuori un fazzoletto di seta per spazzarla, aspirò un profumo misto di tabacco e di acqua di Colonia. “Ah!”, pensò, “l’estate di San Martino! Ecco tutto!”. E disse: «Non mi avete suonato Che farò…». Irene non rispose: non si mosse. Egli ebbe coscienza di qualche cosa, di qualche strano contraccolpo che avveniva in lei. A un tratto, la vide alzarsi e volgersi altrove; e un penoso rimorso lo colpì. Com’era stato grossolano! Anche lei – come Orfeo –, anche lei cercava il suo amore perduto nell’abisso della memoria. E, commosso nel profondo del cuore, si alzò dalla sedia. Ella era andata alla grande finestra, all’estremità della stanza. La seguì cautamente. Teneva le braccia incrociate sul petto; ed egli poteva vedere appena la sua guancia, bianchissima. Sopraffatto dall’emozione, le disse: «Su, su, amor mio!». Le parole – le stesse che usava per consolare Holly di qualche piccolo male – gli eran sfuggite inavvertitamente; ma il loro effetto fu immediatamente disastroso. Irene sollevò le braccia, si coprì il volto, e pianse. Il vecchio Jolyon rimase a guardarla coi suoi occhi infossati dall’età. L’appassionata vergogna ch’ella pareva provare per quell’abbandono, così dissimile dalla calma correttezza di tutti i suoi modi, era tale che sembrava ch’ella non si fosse mai lasciata abbattere dal dolore in presenza di un altro essere umano. «Su, su su, su!», egli mormorava; e mettendo avanti la mano, la toccò riverentemente. Ella si volse, e appoggiò sul suo petto le braccia con cui si copriva il volto. Il vecchio Jolyon rimase immobile, tenendo la mano sottile sulla sua spalla. Piangesse pure, si sfogasse: le avrebbe fatto bene! E il cane Balthazar, che non comprendeva, sedette sulla coda e rimase a guardarli. La finestra era ancora aperta, le tende non eran state tirate su, e l’ultima luce del giorno, di fuori, si fondeva col debole chiarore della lampada all’interno; si sentiva odore d’erba appena falciata. Con la saggezza della sua lunga vita, il vecchio Jolyon non parlava. Anche il dolore si sarebbe calmato a furia di singhiozzare, col tempo: il tempo soltanto era un buon rimedio per l’angoscia, il tempo che vedeva il dileguarsi di ogni umore, lo svolgersi di ogni emozione; il tempo, seppellitore di ogni cosa. Gli vennero in mente le parole del Salmo: «Come anelante cervo che fugge e cerca la fonte…», ma erano inutili per lui. Poi sentì un profumo di violetta e comprese ch’ella si stava asciugando gli occhi. Mise avanti il mento, premette i baffi contro la sua fronte, e la sentì tremare, con un brivido di tutto il corpo, come un albero che scuota le gocce di pioggia. Ella portò alle labbra la mano di lui, come per dire: «Tutto è finito ora! Perdonatemi!». Il bacio lo riempì di uno strano senso di conforto; egli la ricondusse a sedere al posto di prima. E il cane Balthazar, seguendoli, posò ai loro piedi l’osso di una costoletta che avevano mangiato a pranzo. Ansioso di scacciare il ricordo dell’emozione, il vecchio non seppe trovare nulla di meglio che le porcellane; e, passando con lei lentamente da mensola a mensola, continuò a mostrarle pezzi di Dresden, Lowestoft e Chelsea, voltandoli e rivoltandoli, con le sue sottili mani venose, la cui pelle, macchiata di lentiggini pallide, dava una profonda impressione di vecchiaia. «L’ho comprata da Jibson», diceva: «mi è costata trenta sterline. È molto antica. Questo cane lascia le ossa dappertutto. Questa ciotola la trovai in una vendita all’incanto, quando quel bel furfante di marchese andò in malora. Ma voi non potete ricordare. Ecco un bel pezzo di Chelsea. Ebbene, che cosa pensate che sia questo?». Ed era totalmente consolato sentendo che il suo gusto artistico era realmente interessato; poiché, dopotutto, nulla riesce a calmare i nervi come un bel pezzo di porcellana di dubbia marca. Quando, alla fine, si udì lo stridere delle ruote della vettura, egli disse: «Venite di nuovo; venite a colazione; così vi potrò mostrare queste porcellane alla luce del giorno; e vedrete la mia piccola cara, dolce creaturina. Pare che questo cane si sia innamorato di voi». Infatti, Balthazar, sentendo ch’ella stava per andarsene, si stava sfregando i fianchi contro le sue gambe. Accompagnandola sotto il portico, egli disse: «Vi ricondurrà a casa in un’ora e un quarto. Prendete questo per le vostre protegèes», e le fece scivolare in mano un chèque di cinquanta sterline. Vide i suoi occhi illuminarsi e la udì mormorare: «Oh! Zio Jolyon!», e un vero palpito di piacere lo percorse tutto. Due o tre povere creature sarebbero state aiutate un po’ ed ella sarebbe tornata di nuovo. Mise la mano allo sportello e afferrò la sua, una volta ancora. La vettura partì. Ed egli rimase a contemplare la luna e le ombre degli alberi, pensando: “Quanta dolcezza in questa notte! E in lei!”.
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