Il mattatoio delle anime dannate*

3754 Words
Il mattatoio delle anime dannate* Fu il Curdo a propormelo la prima volta. Le giornate erano diventate torride già dalla fine di giugno. Ti dolevano le ossa, avvertivi strani pruriti nei punti più difficili da grattare, sudavi da ogni poro. Le mie ambizioni letterarie erano a un punto morto, avevo perso uno schifo di lavoro, mia madre mi aveva cacciato di casa e avevo appena dodici euro e rotti. Non ero in quel che si dice un bel momento e l’opzione suicidio comportava troppe problematiche di natura squisitamente tecnica, al momento. Trascorrevo le giornate a camminare per le strade, sbirciare la felicità altrui e piangermi addosso. In realtà, ci voleva ben poco per tornare in pista. Mi serviva una spintarella, un aggiustamento di prospettive. Fu allora che vidi il Curdo. Ero in un bar vicino la Stazione Termini quando lo beccai. Nei pressi c’era la sezione locale degli Alcolisti Anonimi. Ci andava già da un po’. “Ti serve un lavoro?” fece. “Perché, ne hai uno sotto mano?” “Una cosetta tranquilla,” mi disse il Curdo. Lo fissai. Aveva la testa tonda, lo sguardo rassicurante e vantava un gran numero di esperienze al limite. Ero sempre stato più curioso che cauto e mi fidavo del Curdo. Dalla strada aveva ereditato scaltrezza e colpo d’occhio, ma non la malizia e il rancore. Avevo capito che gli serviva una spalla. Iniziare un nuovo lavoro è come tirare freccette in una stanza piena di specchi. Gli strinsi la mano e sancii il patto. Quando gli offrii un giro di bevute, scosse la testa e si alzò per andarsene. Era quasi fuori quando si voltò e buttò una lunga occhiata triste alla mensola dei liquori. “Fanculo,” disse. Ci sbronzammo di campari e gin e, prima di lasciarci, concordammo di trovarci il giorno dopo prima dell’alba. Tornai alla Ford che era già buio. Sul bus c’era odore di cipolle andate a male, birra stantia e sconfitta. Quando mi raggomitolai sul sedile posteriore, per l’ennesima volta pensai che la sorte era un vecchio clown sul viale del tramonto. Uno di quelli che non faceva ridere più nessuno. Sognai zio Buk, una fiasca di Amarone, un sacco di soldi e Monica Bellucci a cavallo sulla mia schiena mentre mi massaggiava le spalle. Mi svegliarono i soliti vagabondi poco prima del sorgere del sole. Ero rinfrancato e pieno di speranza. Presi il solito sacchetto e mi lavai al cesso della stazione. Un buon aspetto era la carta vincente per iniziare un nuovo lavoro. Mentre mi radevo e fischiettavo decisi che avrei potuto scrivere il testo di una canzone sull’argomento dell’ottimismo e della rinascita. Il Curdo e le sue opportunità d’oro dei miei coglioni mi fecero rivedere in fretta le parole. Fortuna che, in seguito, lo strazio fisico fu talmente abbietto da far scivolare in secondo piano persino l’ennesima crisi depressiva. Per tutto il tragitto non avevo fatto altro che sbirciare il Curdo. Non sembrava messo tanto bene. Aveva la pelle trasparente, piena di macchioline grigiastre. E non riuscivo a trovare una forma geometrica che si adattasse a quella sua testa da beone. Aveva spigoli e sporgenze e le guance gli cascavano fino al mento. Il panorama scorreva di lato come una serie di macchie su una lavagna con le rotelle. C’erano poche macchine in giro a quell’ora. In lontananza, l’orizzonte nero di notte iniziava a intorbidirsi e le prime luci del sole a sforacchiare le nubi basse e il cielo senza stelle. Ci fermammo in un autogrill. Entrammo. Il Curdo ordinò qualcosa. Mi avvicinai al bancone e ci trovai un caffè e un cornetto. Lo ringraziai e attaccai a sbocconcellare. Ruttai silenziosamente mentre guardavo l’espositore dei libri. L’angoscia mi rodeva. Quei tizi facevano la grana, quei tizi facevano la bella vita. E solo perché erano riusciti ad arrivare su quello scaffale. Aprii qualche libro a casaccio e lessi le prime righe. Robaccia noiosa, adatta per l’uomo medio. Non avevano stile, non graffiavano. Feci un risucchio coi denti. “Questo è forte,” disse una voce alle mie spalle. Mi voltai. Era uno degli inservienti alle pulizie. Aveva delle fessure in bocca. La lingua saettava qua e là in cerca di ossigeno. Un serpente, sembrava. “Ah sì?” dissi, sputacchiando pezzetti di cornetto tutt’intorno. Il serpente riuscì a schivarli con una certa agilità. “È un thriller medievale. Un prete che va in giro a cercare libri sconsacrati.” “Si scopa qualcuna?” “No, è un prete.” “Hai ragione, non sarebbe credibile,” dissi. Feci volare altri pezzetti di cornetto. Uno di questi gli atterrò sulla faccia. “Ehi, sei capace di mangiare senza sputare chi ti sta intorno?” “E tu sei capace di distinguere un buon libro da una cagata di cane?” “Io arrivo a leggere anche un libro al mese.” Lo fissai. Lui mi fissò. Non capivo cosa avrei dovuto rispondergli. Mi stava sfidando a una disputa verbale, a uno scontro dialettico sulla potenza della letteratura. Ero un peso massimo in quell’ambito. Non potevo accettare di combattere con un dilettante. Decisi di lasciargli la sua ottusa consapevolezza di essere superiore. “Si vede che sei una persona istruita,” gli dissi. Mi guardò con uno sguardo sospeso su qualcosa. Era sull’orlo del precipizio. Riusciva a percepirlo ma non lo vedeva. Il Curdo mi tirò per una manica. Scivolai via da quell’inserviente insulso. Lo lasciai nel mezzo della sala, perso tra illusioni e certezze, incapace di distinguere le une dalle altre. Risalimmo in macchina e ripartimmo. Quel tizio e lo scaffale pieno di best-seller mi avevano prosciugato ogni desiderio di rimonta. Lasciai perdere, accesi la radio, fumai una cicca e mi concentrai su Califano. Per prima cosa arrivò la puzza. Storsi il naso. Lo scenario era cambiato. Una strada sterrata, fuori della città. Ai lati grossi capannoni erano intervallati da terreni incolti e carcasse di camper. Non riuscivo a orientarmi. Poi, mi ricordai. I camion erano allineati in file ordinate, adibiti al trasporto bestiame. Un certo tipo di bestiame. Figlio di troia. Fregato ancora una volta. Un altro capitolo in procinto di scriversi. Ero un vero factotum della sfiga. Camion strapieni di suini, sudici e incazzosi suini. La materializzazione di uno degli incubi peggiori. “Te lo ricordi Rocky quando si allenava in un mattatoio?” fece il Curdo. “Curdo, perché non te ne vai affanculo?” Parcheggiamo. L’aria frizzantina preannunciava una bomba di calore di lì a poco. La testa mi girava in mezzo a tutti quei grugniti e quelle sozze teste di maiale. Inspirai. Lo stomaco iniziò a fare capitomboli e piroette. Vidi il Curdo parlare con un uomo. Mi avvicinai a piccoli passetti. I maiali continuavano a seguirmi con gli occhi. Decine di musi porcini fissi su di me. Come tante punture di spillo sulla schiena. Maledissi il Curdo e i suini voodoo. L’uomo era il capo della baracca, una ragionevole imitazione di Bigfoot. Tesi la mano per presentarmi. L’uomo l’afferrò e quasi me la stritolò. Avevo le budella piene di gas dal terrore. Quando se ne andò, ne mollai una. Si disperse nel vento. “Che t’ha detto?” domandai con tono incazzoso e offeso. “Dobbiamo cambiarci, andiamo.” Trotterellai al suo fianco come un cagnolino mongoloide. Entrammo in una piccola casupola di lamiera. Lì dentro c’erano solo negri e cinesi e ci stavano osservando con la tipica diffidenza dell’immigrato clandestino, decidendo se per loro dovevamo essere la colazione o il pranzo. Salutammo tutti senza ottenere risposta. Poi, ebbi un’allucinazione visiva. Campi di concentramento, nazisti a braccetto con negri e cinesi e uno stuolo di maiali con farfallino pronti a farci la festa. Mi ripresi quasi subito. Del resto, la vita fin lì condotta m’aveva preparato a trappole come questa. C’infilammo delle tute bianche di plastica. Venne un vecchio. Puzzava di urina e ammoniaca. “Andatevene. Tra una settimana non riuscirete più a mangiare carne.” “Ce la faremo,” dissi. “Come no,” disse. Non c’era di che stare allegri. Mi allontanai. Quel vecchio schifo m’aveva smosso qualcosa dentro. Era un distillato di negatività e angosce e starci troppo vicino poteva farti nascere nuove domande. Mentre io erano gli stimoli che cercavo. Quando raggiunsi il Curdo pensavo a come può essere facile con dieci biglietti da cento farsi capire dal mondo senza farsi tagliare la gola. D’improvviso, uscirono dalle baracche sparpagliate per tutto il piazzale. Assomigliavano a tante cavallette bianche pronte a cibarsi di maiali e pazzie. Parecchi di quegli uomini avevano grossi coltelli per le mani. E poi si cominciò. Uno dei negri abbassò la sponda, ne acchiappò uno con una specie di bastone alla cui estremità pendeva un lazo e iniziò a tirarlo verso la passerella. La bestia non sembrava ben disposta ma, dopo qualche secondo, scese. Tutto sommato non è difficile, pensai. “Pare facile,” dissi al n***o. “Aspetta a parlare,” sogghignò quello. Quando il maiale scese sull’asfaltò iniziò il gran balletto. Il n***o lo teneva fermo e cercava di trascinarlo, mentre altri tre uomini lo spingevano verso un piccolo spiazzo ricoperto di canali di scolo e tombini squadrati. Avevano tutti grembiuli in plastica, ma sotto erano in canottiera o in maglietta senza maniche. Avevano prosciutti al posto delle braccia. Infilai una sigaretta dietro l’orecchio e rimasi a osservarli. Dovevo imparare alla svelta. Quando arrivò un grasso cinese calvo, vidi il suino impazzire di panico. Non aveva scampo e lo sentiva. Attaccai a piangere. Tornarono a galla i ricordi di vecchie ingiustizie patite per mano della cattiveria altrui. Gli sfratti, le bollette non pagate, la famiglia sfasciata, le botte, le sbronze senza utilità, le miserie della civiltà e tante altre cose insieme. Il grasso cinese calvo riuscì a montare sul dorso del maiale. Con un solo, preciso fendente gli tagliò la gola. Il sangue sprizzò fuori come da un tubo rotto. Dopo, qualcuno gli sparò in fronte. Bestemmiai e m’accesi la sigaretta ancora scosso dai singhiozzi. Diedi due tirate, poi le lacrime la bagnarono e dovetti gettarla via. I negri e i cinesi mi guardavano. Alcuni ridevano, altri sembravano seriamente domandarsi se stessi facendo sul serio o se volevo soltanto fargli le scarpe, in un modo o in un altro. Magari facendo leva su facili sentimentalismi e sulla sensibilità del gran capo. Il cinese si avvicinò. La lama grondava ancora di un rosso sfavillante. “Ehi giovane, hai mai letto Sun Tzu, L’arte della guerra?” “No.” “Dovresti. Aiuta.” E andò via. Mi asciugai le lacrime. Ero un grosso inutile coglione. La vita mi aveva inchiappettato per tutta la vita e ora mi facevo scrupoli per un porco. Dovevo cavarmela, in qualche modo dovevo cavarmela. Ero sempre stato un treno nelle risse e ora piangevo come un poppante davanti a decine di uomini tosti come polenta surgelata. Andai dal n***o con il bastone. “Dai qua,” dissi. Il n***o sputò per terra. E sghignazzò. Gli strappai il bastone-lazo e quello mi venne addosso. Mise la fronte contro la mia. All’improvviso sentii la vecchia, sana rabbia di una volta incendiare il sangue. Ero il paladino delle cause perse. “Con te ci vediamo dopo,” dissi. Ci separarono. Il n***o strillò qualcosa, ma non lo sentivo più. Arrivai al camion. Gli uomini si fermarono a osservare la scena. Bramavo la solitudine. Bramavo il sedile posteriore della mia Ford. Bramavo un sacco di altre cose, ma per il momento dovevo dimostrare di saperci fare con i suini indisciplinati. Sembrava che nient’altro importasse, al momento. Ne agganciai uno e tirai. Mi sorprese, venne fuori in modo docile. Iniziai a parlare con il maiale. “Avanti bello. Fidati di uno che razzola nella merda da prima che tu nascessi. Ti serve un nome. Ti chiamerò Napoleone, Napoleone era un piccolo maialino importante. Ha conquistato imperi, ha messo sotto negri e cinesi…” Grugnii di soddisfazione. In qualche modo, sembrava che le parole sortissero un effetto calmante sul maiale. Iniziò a seguirmi fin verso il piccolo spiazzo, obbediente e trotterellante. Continuavo con la mia cantilena. Mi venne un pensiero: scrivere testi per ammansire bestie selvatiche. E poi quel n***o del cazzo si avvicinò. E quando lo fece, io non ero pronto. Visto che il suino mi seguiva senza troppe storie, avevo allentato un po’ la presa. Il n***o gli tirò un sasso. Lo prese dritto sul muso, tra le orecchie piene di setole. Il maiale s’imbizzarrì, diede uno strattone e scattò. Finii col culo per terra e, prima che potessi dire a o ba, mi stava trascinando per tutto il piazzale. Sentii il grembiule lacerarsi. Sbattei più volte la testa sul duro selciato. Non riuscivo a mollare la presa. Il maiale continuava a correre impazzito, trascinandomi dietro come fossi un carretto pieno di ossa rotte e speranze annacquate. Mentre mi scorticavo pensai prima o poi si stancherà. Poi pensai perché non lo fermano? Che cazzo hanno da ridere gli stronzi negri e cinesi? Fu il grasso cinese calvo a salvarmi. Quando mi rialzai, vidi gli uomini sbellicarsi. Un paio mi avevano addirittura ripreso con il cellulare. Io non ce l’avevo più uno schifo di cellulare. Ero fuori da tutto, fuori da ogni gioco, fuori da ogni campionato. Intelletto, aspirazioni, un senso qualsiasi, tutto era finito nella tazza del cesso. E mi ero immerso non per recuperarli, ma per finire nello scarico anch’io, per condividerne la stessa sorte. Finsi di stare al gioco. Ridevo per non far vedere quanto mi rodeva il culo. “Ehi bello, sei la controfigura di Charlie Chaplin,” mi disse un altro cinese. Cazzo se sanno stare al mondo questi cinesi, pensai. Prima uno cita quel Sun Tzu, adesso questo mi tira fuori Charlie Chaplin, nel bel mezzo di un mattatoio. Il Curdo aveva aggrottato la fronte. Non sapeva come difendermi, non ne aveva le palle, ma non lo biasimai per questo. Ognuno di noi vuole solo un piccolo, caldo bozzolo dove essere lasciato in pace. “Ehi, ti sei fatto mettere sotto, eh?” Ero quieto e in pace con gli dei. Mi avvicinai al n***o, aprii la bocca in un largo sorriso. Il n***o annuiva contento. E allora lo colpii dritto in faccia. Andò giù come una mensola a cui hanno ceduto gli stop. Altri due reagirono con prontezza. Feci in tempo a stenderne un altro prima di finire a zampe all’aria. Mi diedero belle legnate. Fu il capo baracca a salvarmi. Quando mi rialzai vidi che il Curdo si era allontanato di qualche metro. Aveva la faccia bassa e immagino pensasse che ce l’avessi con lui per non essere intervenuto. Ma non gli volevo male. Era solo un povero diavolo che cercava con tutte le forze di rattoppare falle a una barca malridotta sin da quando era uscita dal cantiere. Il capoccia mi fece segno di seguirlo. Con la coda dell’occhio vidi i negri farmi dei gestacci. I cinesi, invece, m’ignorarono. Decisi di stare dalla parte dei cinesi. “Che t’è preso?” mi disse il capoccia. C’era della robaccia impigliata nella sua barba. Avevo un occhio pesto, un labbro rotto, un passato pieno di buchi e un presente tempestoso. Gli spiegai le cose dal mio punto di vista. Fece un passo in avanti. Mi misi di tre quarti, sulla difensiva. “Non farai molta strada se continui a importunare quelli più grandi di te. Però mi sembri a posto e poi anch’io odio i negri. Ti darò una seconda possibilità.” Stavo per rispondergli che io non odiavo i negri, ma solo quel n***o in particolare. Ma quando mi soffermai sull’avambraccio e vidi disegnata una piccola svastica, mi tappai la bocca e tenni per me quella considerazione. Il capoccia mi mandò dentro, nelle celle frigorifere. Mi affidò a un albanese. Il Curdo era finito chissà dove. Lì dentro il puzzo era più sopportabile, ma il freddo ti si attaccava addosso come una seconda pelle. L’albanese non parlava. Si limitò a farmi vedere quali erano le mie mansioni. Prendere le carcasse sviscerate dei suini dagli appositi carrelli, caricarsele in spalla e appiccarle a dei lunghi ganci che pendevano da piccole putrelle mezze arrugginite. Feci segno di aver capito, alzai il pollice. L’albanese alzò a sua volta il pollice. “Dopo io e te prendere una birra insieme, che dici? Offro io,” disse. “Okay.” Sorrise. Le gengive erano nere, i denti gialli. “E poi ce ne andiamo a casa mia. Possiamo vederci un film, coccolarci…” “Va bene, penso che… come hai detto?” L’albanese si avvicinò di due passi. Mi passò due dita sulla testa per rimettere a posto una ciocca ribelle. Fu allora che vidi gli occhi cerchiati di mascara. “Cazzo.” “Eh già, già, già,” fece quello. “Senti non t’offendere, ma a me tira il pelo di donna.” “Non credo proprio,” ringhiò. Fui assalito da brividi non di freddo. Oh cristo, merda di una merda. Feci un passo indietro. Dedicai al Curdo una serie di maledizioni degne dei culti di Lovecraft. Mi guardai attorno. Eravamo soli in quel momento. E allora ne approfittai. Lo colpii forte, forte, alla bocca dello stomaco. L’albanese sputò un grumo verde e si piegò sulle ginocchia. Me ne andai. Il capoccia m’intercettò mentre ritornavo negli spogliatoi. Gli spiegai cos’era successo. “Frocio di merda. Dai, mi sembri uno a posto, resisti. Vai ad aiutare quelli.” Nello spiazzo lo sterminio dei maiali continuava. Mi si avvicinò il vecchio. “Te la sei svignata dall’albanese, eh? Mister Pig ci ha mandato il tuo amico.” “Chi è mister Pig?” “Il capoccia.” “Non brillate certo per inventiva, qua dentro. Se la caverà l’amico mio?” “L’albanese se ne è già inchiappettati una mezza dozzina. Approfitta quando non lo vede nessuno. Li sbatte nell’angolo cieco e glielo ficca dietro.” “E voi non fate niente?” “Qui ognuno si fa i fatti propri.” “Pensavo che i lavori di merda come questo servissero a compattare i lavoratori, farli stare uniti, non so se mi spiego.” “Hai ragione, ragazzo. Ma la realtà è un tantino diversa. Lo aiuterai?” “Ancora non lo so. Mi ha tirato dentro questa faccenda con l’inganno.” “Sbrigati se non vuoi che il tuo amico passi un brutto quarto d’ora.” Li intercettai appena in tempo. L’albanese l’aveva spinto in un angolo e cercava di tirargli giù i pantaloni. Aveva l’erezione in bella vista. Mi avvicinai di soppiatto e gli mollai una pedata dritto in mezzo la schiena. Quello rotolò via e quando si rialzò per venirmi contro inciampò nelle braghe e cadde. Tirai su il Curdo. Aveva gli occhi lucidi. Bestemmiava e tirava su col naso. “Una cosetta tranquilla, eh?” feci. “Fanculo, scappiamo via.” Ci dirigemmo verso gli spogliatoi a grandi falcate. Nessuno sembrava badare a noi. Il sole, lassù in alto, era un bellimbusto col ghigno feroce. Prima di entrare per cambiarci il capoccia riuscì a intercettarci per l’ennesima volta. “Ehi ragazzi, non ve ne andate. Non è poi così male così sembra.” “Sono comunista,” gli dissi. “Brutti pompinari, telate alla velocità della luce sennò vi spacco il grugno.” Decisi di morsicarmi la lingua e non rispondere. Ero stanco di combattere per cose tanto inutili e stolte. Stavamo quasi per filarcela quando mi venne un’idea. “Che ne dici?” chiesi al Curdo. “Fanculo, facciamolo.” Rovistammo negli abiti sudici appesi. Grattammo tutto quello che potemmo. Il fattore tempo è sempre decisivo. Così come gli incroci, le coincidenze, le svolte e cazzate varie di questo tipo. Mi sentivo meglio, mi sentivo pronto per una disputa filosofica con il rettore della Luiss. Eravamo quasi arrivati al cancello quando i negri e i cinesi sollevarono la testa nella nostra direzione. Gli autisti dei camion erano sotto un gazebo a scolarsi gazzose e a rollare sigarette. In lontananza, scorsi l’albanese venire verso di noi con un affare in mano, un tubo mi sembrava. Oh, merda santa, pensai. Poi non resistetti. Mi voltai, sollevai le braccia, tirai fuori i medi e sfoderai il mio miglior sorriso. “Negri e cinesi di merda! Vostra madre ciuccia cazzi di maiale!” Iniziarono a correrci dietro. Il capoccia urlava cose senza senso. Assomigliava a un pastore ubriaco in mezzo a un branco di pecore affette da raptus omicida. Quando uscimmo quasi mi si gelò il sangue quando vidi dove il Curdo aveva parcheggiato la macchina. Mentre correvo non facevo che voltarmi. Ci stavano raggiungendo. I maiali nei camion si eccitarono e iniziarono a sbatacchiarsi gli uni contro gli altri, mettendo a dura prova le sospensioni dei mezzi. “Sbrigati Curdooo! Ci fanno la pelleee!” “Oh cazzo, oh merda, oh cazzo!!!” La scampammo per un pelo. Il suo macinino si accese al primo colpo. Quando ingranò la prima sentimmo un tonfo sopra il tettuccio e, subito dopo, vedemmo una testa di maiale rotolare sul parabrezza. Venni fuori dal finestrino e cacciai un urlo disumano, ricordandomi de Il signore delle mosche. Li lasciammo indietro e ci rituffammo nella grande piscina della civiltà. Mostri, erano dei mostri. Ma ce l’eravamo cavata. Il mattatoio delle anime, dissi al Curdo. Il Curdo non mi rispose. Tremava ancora vistosamente. Quando incrociammo il primo bar e scendemmo compresi che eravamo salvi davvero. Mai caffè fu così buono. Tornammo in città a pomeriggio inoltrato. Facemmo il pieno di birra e sigarette e ci spartimmo la refurtiva. Quando andai via le luci delle città si distendevano sopra la mia testa, indifferenti e bellissime. Me la feci a piedi fino alla Ford. La notte era una dama sul punto di raccogliere qualche oscuro invito da parte di un prescelto a chissà quali traguardi. Provai a dormire ma prima scrissi un bel numero di poesie. Roba sgangherata, ma di gran valore. Dopotutto, accettare quello stato di cose era già un grande risultato. Prima di chiudere gli occhi inspirai a pieni polmoni l’aria della città. Una grossa mammella sul punto di sprizzare gioie e dolori in egual misura, senza curarsi di chi, di dove e, soprattutto, del perché. Tanto era già stato detto e fatto, ma tanto era ancora da dire e da fare, mentre l’estate raggiungeva l’apice della sua estasi in quell’anno gonfio di rimorsi, disgrazie e avventure. Mi addormentai e sognai leoni e vecchi mercenari saggi. Poteva andarmi peggio, dopotutto. * Il racconto, vincitore dell’edizione 2020 del Premio Letterario Nazionale Bukowski, è stato pubblicato nell’antologia Inediti di ordinaria follia Vol. 7 .
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