I. UN MENDICANTE A CAVALLO

3027 Words
I. UN MENDICANTE A CAVALLOIl 25 agosto 1751, verso le due del pomeriggio, io David Balfour, uscivo dalla British Linen Company, scortato da un fattorino che mi seguiva con una borsa di denaro, mentre alcuni dei più importanti uomini d’affari si inchinavano dalle porte dei loro uffici al mio passaggio. Due giorni prima, anzi più esattamente ieri mattina, non ero che un mendicante vestito di stracci, ridotto agli ultimi scellini. Mi era compagno un uomo condannato per alto tradimento mentre sulla mia testa era stata messa una taglia per un delitto di cui parlava tutto il paese. Ora invece avevo ripreso il mio grado sociale, cioè quello di proprietario terriero, avevo con me un fattorino che mi portava il denaro, raccomandazioni in tasca e, come si suol dire, la fortuna a portata di mano. C’erano però due circostanze che frenavano questa mia rapida ascesa: una, la grande difficoltà del rischioso compito che ancora dovevo portare a termine, l’altra, il luogo in cui mi trovavo. La città vasta e scura, il rumore, il traffico e tutta quella gente costituivano un mondo nuovo per me, dopo le brughiere desolate, le spiagge marine e le campagne silenziose che avevo battuto fino allora. La folla soprattutto mi metteva a disagio. Il figlio di Rankeillor era piccolo e mingherlino, i suoi abiti mi si adattavano appena, ed era chiaro che non ero certo nelle migliori condizioni per darmi delle arie davanti a un fattorino di banca. Era evidente, se l’avessi fatto, che non potevo suscitare altro che ilarità e, ciò che nel mio caso era ben peggio, provocare delle domande. Ritenni così opportuno procurarmi degli abiti che fossero proprio miei, e nel frattempo mettermi a camminare a fianco del fattorino e mettergli la mano sul braccio come se fossimo due vecchi amici. Mi equipaggiai da un mercante dei Luckenbooths: nulla di troppo ricercato, non volendo sembrare un “mendicante a cavallo”, ma un abbigliamento semplice e decoroso tale da farmi rispettare dalla servitù. Da un armaiolo poi acquistai una spada adatta al mio grado sociale. Con quest’arma mi sentii più sicuro, sebbene digiuno come ero di scherma, la si dovesse anzi considerare un pericolo in più. Il fattorino, che era naturalmente uomo di una certa esperienza, giudicò ben scelto tale mio equipaggiamento. «Nulla di vistoso», disse; «degli abiti semplici e dignitosi. Quanto alla spada, non c’è dubbio, è adatta alla sua condizione; ma se fossi stato in lei, avrei impiegato meglio i miei quattrini». Quindi mi propose di comprare delle calze invernali da una donna che stava nel Cowgate, una sua cugina, che le faceva «straordinariamente resistenti». Ma io avevo cose ben più urgenti da risolvere. Mi trovavo in questa vecchia e nera città, giudicata da tutti una vera tana di conigli, non solo per il numero dei suoi abitanti, ma soprattutto per l’intrico delle sue strade e dei suoi vicoli. Era effettivamente un luogo dove nessun forestiero aveva possibilità di trovare un amico, fosse pure un altro forestiero. E se anche avesse infilato la via giusta, la gente viveva così ammassata in quelle case enormi, che probabilmente avrebbe dovuto girare per un giorno intero prima di trovare la porta che cercava. C’era per questo la consuetudine di prendere un ragazzino, chiamato caddie, che, facendo da guida o da pilota, vi portava dove avevate bisogno per poi ricondurvi, a commissioni fatte, là dove abitavate. Ma questi caddies, essendo sempre occupati nel medesimo genere di lavoro e dovendo necessariamente essere bene informati su ogni casa e su ogni persona della città, avevano finito per trasformarsi in una confraternita di spie. Da quanto mi aveva raccontato il signor Campbell, sapevo come essi fossero in continua comunicazione tra di loro, quale intensa curiosità concepissero per gli affari del loro principale, e infine come fossero divenuti occhi e artigli della polizia. Sarebbe stato poco prudente, data la mia situazione, mettermi un simile furetto alle calcagna. Dovevo fare tre visite, tutte di immediata necessità: una al mio parente signor Balfour di Pilrig, una a Stewart, l’avvocato agente di Appin, e infine una a Guglielmo Grant, Esquire di Prestongrange, procuratore generale di Scozia. Quella al signor Balfour non era una visita impegnativa: d’altra parte, essendo Pilrig in campagna, pensavo che avrei saputo trovare da solo la strada con l’aiuto delle mie due gambe e del dialetto scozzese. La visita all’agente di Appin, proprio in mezzo al rumore sollevato da quell’assassinio, non solo era pericolosa di per se stessa, ma era anche in estrema contraddizione con l’altra. Nel migliore dei casi era probabile che avrei passato un brutto momento dal mio procuratore generale Grant; il fatto di recarmi però da lui immediatamente dopo essere stato dall’agente di Appin, non solo era difficile potesse sistemare le mie faccende, ma avrebbe potuto anzi provocare la completa rovina dell’amico Alan. Nel complesso, avevo l’impressione di stare accendendo due candele: una a Dio e l’altra al diavolo, cosa questa che mi garbava poco. Decisi quindi di farla finita subito con il signor Stewart e con tutta la parte giacobita della faccenda e di servirmi come guida per questo scopo del fattorino al mio fianco. Ma gli avevo appena dato l’indirizzo, quando un improvviso acquazzone – nulla di grave se non per i miei abiti nuovi – ci costrinse a riparare sotto una tettoia all’imboccatura di un vicolo cieco. Poiché tutto era cosa nuova per me, mi volli addentrare un poco. Il vicolo selciato scendeva rapidamente mentre ai lati si ergevano enormi edifici che, piano su piano, innalzandosi, sembravano avvicinarsi tra loro sempre più, tanto da lasciare scorgere alla loro sommità soltanto un lembo di cielo. Da quanto potevo vedere attraverso le finestre e dall’aspetto rispettabile delle persone che andavano e venivano, capii che le case dovevano essere ben frequentate. Tutto l’aspetto insomma di quel luogo mi affascinava come una fiaba. Ero ancora intento a osservare, quando all’improvviso udii alle mie spalle un forte rumore di passi cadenzati e un tintinnio di armi. Mi voltai di scatto e vidi un gruppo di soldati armati in mezzo ai quali un uomo di alta statura avvolto in un ampio mantello camminava facendo piccoli inchini quasi per un atto di cortesia, con aria garbata e insinuante. Accennava saluti con le mani e il suo volto era scaltro e piacente. Mi parve che mi avesse notato, ma non riuscii a incontrare il suo sguardo. Il corteo si avvicinò a una porta del vicolo che un servo in elegante livrea preparò aperta: due soldati condussero nell’interno l’uomo, mentre gli altri si fermarono fuori coi loro moschetti. Nulla può accadere nelle vie di una città senza che si formi subito un codazzo di sfaccendati e di bambini. Accadde così anche questa volta, sennonché la maggior parte di quella folla si disperse subito finché non rimasero che tre sole persone. Una di esse era una fanciulla, vestita come una signora e con in testa una gran sciarpa scozzese coi colori dei Drummond; i suoi compagni invece o, per meglio dire, i suoi seguaci erano dei servi cenciosi, quali già avevo visto a dozzine nel mio viaggio attraverso le Highlands. Parlavano tutti insieme con grande ammirazione in gaelico, lingua a me assai cara per amore di Alan, e così, sebbene avesse finito di piovere e il fattorino mi sollecitasse a riprendere il cammino, mi avvicinai per ascoltare. La fanciulla stava redarguendo aspramente i suoi servi che si scusavano e si inchinavano umilmente davanti a lei, la qual cosa mi fece capire come ella provenisse dalla casa di un capo. Durante tutto quel tempo i tre continuarono a frugarsi nelle tasche e da quel che potei arguire discutevano fra di loro a proposito di pochi centesimi. Sorrisi al pensiero di come tutta la gente delle Highlands si assomigliasse nell’essere servile e nell’avere la borsa vuota. A un tratto la fanciulla si voltò e io riuscii a vederne il viso per la prima volta. Nulla è più sorprendente di come il volto di una giovane donna possa fissarsi nella mente di un uomo e rimanervi impresso senza che egli sappia mai dirvene il perché, quasi non desiderasse altro. I suoi occhi erano meravigliosi, lucenti come stelle e, oserei dire, non estranei alla mia emozione. Ciò che ricordo meglio fu però il modo in cui teneva le labbra leggermente socchiuse quando si voltò. E, qualunque ne fosse il motivo, mi misi a fissarla come uno sciocco. Da parte sua, non essendosi accorta prima che ci fosse qualcuno così vicino a lei, mi guardò un po’ più a lungo e forse con maggior stupore di quanto non sarebbe stato richiesto da una perfetta educazione. Allora, da vero provinciale, pensai che forse stesse osservando i miei abiti nuovi e a quel pensiero arrossii fino alla radice dei capelli; alla vista di quel rossore bisogna pensare che ella traesse delle conclusioni, poiché fece procedere più addentro nel vicolo, in un luogo da dove non potevo più udirli, i suoi servi che ripresero subito la loro discussione. Avevo spesso ammirato le ragazze prima d’allora, ma mai così all’improvviso e con tanta intensità. In genere ero portato più a tirarmi indietro che a farmi avanti, temendo molto la derisione del genere femminile. Voi penserete che anche in questa occasione avrei avuto le migliori ragioni per seguire la mia solita linea di condotta, dato che avevo incontrato quella giovane per strada, apparentemente intenta a seguire un prigioniero e accompagnata da due Highlanders cenciosi e mal messi. In questo caso però v’era un elemento nuovo; era evidente che la fanciulla pensava io avessi voluto spiare i suoi segreti e questo, ora che ero vestito a nuovo e al culmine della mia recente fortuna, non potevo assolutamente tollerarlo. Il “mendicante a cavallo” non poteva sopportare di venire giudicato così male, o, almeno, non da quella giovane donna. Di conseguenza la seguii e levatomi, come meglio potei, il cappello nuovo: «Signora», dissi, «ritengo che sia giusto da parte mia farle sapere che non conosco il gaelico. È pur vero che stavo ascoltando, ma questo solo perché ho degli amici nelle Highlands e il suono di quel linguaggio mi è familiare; per quanto riguarda però i suoi affari, se lei avesse parlato greco, forse ne avrei capito di più». Ella fece un piccolo inchino, contegnoso: «Niente di male», rispose con un accento grazioso molto simile a quello inglese, ma più piacevole, «un gatto può ben guardare un re». «Non volevo offenderla», replicai; «non conosco le usanze cittadine; prima di oggi non avevo mai messo piede in Edimburgo. Mi consideri un ragazzo di campagna, ciò che del resto sono; preferisco dirglielo prima che lo scopra da sé». «Veramente è piuttosto insolito che degli estranei si parlino così su un marciapiede», ella disse. «Ma se lei è nato in campagna, la cosa è diversa. Io sono altrettanto di campagna quanto lei; sono delle Highlands, come vede, e mi considero assai lontana da casa». «Non è ancora una settimana che ho passato il confine», dissi, «meno di una settimana fa mi trovavo sui monti di Balquidder». «Balquidder!», ella esclamò. «Lei viene da Balquidder? Questo nome mi fa fremere tutta di gioia. Non sarà rimasto là a lungo senza conoscere qualcuno dei nostri amici o parenti?» «Abitavo presso un uomo assai onesto e gentile, chiamato Duncan Dhu Maclaren», risposi. «Ebbene, conosco Duncan, e lei lo definisce nel modo giusto. Se poi lui è un’onesta persona, sua moglie non è da meno». «Sì», dissi, «sono della brava gente e anche il posto è assai bello». «In quale parte del vasto mondo ve ne è un altro simile?», ella esclamò. «Adoro il profumo di quel luogo e perfino le radici che vi crescono». Mi sentii completamente conquistato dall’entusiasmo di quella fanciulla. «Desidererei averle portato un ciuffo di quell’erica», feci, «e sebbene prima abbia fatto male a rivolgerle la parola, ora, visto che abbiamo delle conoscenze in comune, la prego di non dimenticarmi. Il mio nome è David Balfour. Questa è una giornata fortunata per me poiché sono entrato in possesso di una proprietà fondiaria e sono appena scampato a un pericolo mortale. Desidererei che lei si ricordasse il mio nome per amore di Balquidder e io mi ricorderò il suo grazie a questo giorno fortunato». «Il mio nome non si deve pronunciare», rispose lei con una certa dose di alterigia. «Per più di cent’anni non è stato pronunziato da lingua d’uomo se non in segreto. Sono senza nome come le fate. Catriona Drummond è il nome che uso». Ora finalmente sapevo con chi avevo a che fare. In tutta la vasta Scozia un nome solo era proscritto ed era quello dei Macgregor. Eppure, invece di sfuggire quella conoscenza poco raccomandabile, mi ci abbandonai ancora di più. «Sono stato in compagnia di una persona che si trovava nelle sue medesime condizioni», dissi, «e penso che sia uno dei suoi amici. Lo chiamavano Robin Olg». «Davvero?», gridò. «Ha conosciuto Rob?» «Ho passato una nottata con lui», risposi. «Già, è un uccello notturno», fece lei. «Avevamo una cornamusa», proseguii, «così può immaginare come il tempo passasse rapidamente». «Lei non dovrebbe essere un nemico allora», disse. «Quell’uomo che ha visto prima circondato dalle giubbe rosse, è il fratello di Rob ed è lui che io chiamo padre». «Davvero?», esclamai. «Lei è figlia di Giacomo Mole?» «La sola figlia che ha», fece: «la figlia di un prigioniero; e io l’ho dimenticato, sia pure per un’ora sola, per parlare con degli estranei!». A questo punto uno dei servi si rivolse a lei con quel poco inglese che sapeva, per domandarle che cosa “lei”, intendendo così parlare di se stesso, doveva fare circa “il tabacco”. Quest’uomo, che dovevo poi conoscere meglio a mie spese, era piccolo, aveva le gambe storte e una grossa testa di capelli rossi. «Niente da fare per oggi, Neil», ella rispose. «Come farai a trovare il tabacco senza soldi? Imparerai un’altra volta a stare più attento, ma credo che Giacomo More non sarà molto soddisfatto di Neil, figlio di Tom». «Signorina Drummond», dissi, «le ho già detto che questo è un giorno fortunato per me. Ho un fattorino di banca con me e si ricordi che ho goduto dell’ospitalità della sua patria a Baquidder». «Ma non fu uno della mia famiglia a offrirgliela», ella replicò. «E va bene», feci, «ma sono debitore a suo zio almeno di qualche canzone al suono della cornamusa. Oltre a ciò mi sono offerto a lei come amico e lei è stata tanto sbadata da non allontanarmi al momento giusto». «Se si trattasse di una somma ingente, ciò potrebbe farle onore», fece lei; «ma le dirò di che cosa si tratta. Giacomo More giace incatenato in prigione; da un po’ di tempo però lo portano ogni giorno qui dal procuratore…». «Dal procuratore?», gridai. «Questa è…?» «Questa è la casa del procuratore generale Grant di Prestongrange», fece lei. «Qui portano di tanto in tanto mio padre, per quale ragione non riesco proprio a capire; ma sembra che un barlume di speranza cominci a spuntare per lui. Durante questo periodo però non mi permettono di vederlo e nemmeno di scrivergli; così lo aspettiamo lungo la King’s Street per coglierlo mentre passa e ora gli diamo del tabacco, ora qualche cosa d’altro. Ed ecco che questo sciagurato Neil, figlio di Duncan, ha perso i quattro pence che servivano a comprare il tabacco; Giacomo More dovrà così farne a meno e penserà che sua figlia l’abbia dimenticato». Presi dalla tasca una moneta da sei pence e la diedi a Neil ordinandogli di andare a fare quella commissione. Poi mi rivolsi a lei dicendo: «Quei soldi vennero con me da Balquidder». «Ah!», esclamò, «lei è amico dei Gregara!». «Non voglio ingannarla oltre», feci. «So ben poco dei Gregara e ancor meno di Giacomo More e delle sue gesta, ma da quando mi trovo in questo vicolo mi sembra di conoscere qualcosa anche di lei e se lei dirà semplicemente “un amico della signorina Catriona” non si sbaglierà». «Una cosa non può stare senza l’altra», replicò la ragazza. «E va bene, proverò», dissi. «Ma che cosa penserà di me che tendo la mano al primo venuto?» «Penso solo che lei è una brava figliola». «Devo assolutamente restituirle quei soldi», ella fece. «Dove abita?» «A dir la verità non mi sono ancora stabilito in nessun luogo», dissi, «poiché non sono ancora tre ore che mi trovo in città; ma se mi vuol dare il suo indirizzo mi permetterò di venire io stesso a chiederle i miei sei pence». «Mi devo veramente fidare?», domandò lei. «Non dubiti». «Giacomo More non lo tollererebbe, altrimenti», disse. «Io abito oltre il villaggio di Dean, sulla riva nord del fiume, dalla signorina Drummond-Ogilvy di Allardyce che è mia intima amica e che sarà felice di ringraziarla». «Allora mi vedrà appena me lo permetteranno i miei affari», dissi, e, poiché il pensiero di Alan mi tornava alla mente, mi affrettai a congedarmi. Non potevo fare a meno di pensare, anche durante il colloquio, che eravamo stati troppo franchi per una conoscenza tanto recente e che una fanciulla veramente a modo avrebbe dovuto mostrarsi più riservata. Fu il fattorino di banca, credo, a distogliermi da quel corso di pensieri così poco galante. «Credevo che lei avesse un po’ più di buonsenso», egli cominciò a dire sporgendo le labbra. «Probabilmente non andrà molto lontano di questo passo. I pazzi e i denari non vanno d’accordo. Lei è un conquistatore e per di più vizioso! Chiacchierare così con una donna da nulla!» «Se si permette di parlare così della giovane signora…», cominciai. «Signora!», esclamò. «Dio ce ne salvi e liberi! Quale signora? Quella una signora? La città ne è piena. Si vede subito che non conosce bene Edimburgo!» Una collera improvvisa mi prese. «Su», dissi, «mi conduca dove le ho detto e tenga a freno la lingua!». Mi obbedì, ma non del tutto, perché, sebbene non si rivolgesse più a me direttamente, si mise a cantare mentre camminava, con una voce terribilmente stonata e con sfacciata allusione: Mentre Mally passava per via Il cappuccio le volò via, Lei si guardò per veder come stava E ciascun uomo la corteggiava. Da est e da ovest veniva la gente, Corteggiar Mally non costa niente.
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