III.Hubert Cherrell, seguito da un setter e col fucile in mano, attraversava le grigie pietre della terrazza. Era di statura un po’ più alta della media; magro e dritto, la testa non molto grande e il viso attempato per un uomo così giovane. Portava piccoli baffi scuri tagliati sulla linea del labbro; la bocca era sottile e sensibile, i capelli un po’ grigi sulle tempie. Gli zigomi sulle guance magre e abbronzate erano alti, gli occhi color nocciola svelti e lucenti, lontani l’uno dall’altro, sopra un naso dritto e sottile e sotto le sopracciglia sporgenti. Era in realtà una copia giovane del padre. Un uomo attivo, costretto in una condizione preoccupante, è infelice finché non trova modo di uscirne, e da quando il capo della spedizione aveva scagliato quell’attacco contro la sua condotta, era caduto in uno stato di irritazione, sapendo di aver agito giustamente, o piuttosto, secondo la necessità. E si irritava ancor di più perché sia la disciplina militare che l’educazione ricevuta gli impedivano di parlare. Essendo militare per sua scelta e non per caso, vedeva la carriera in pericolo, vedeva screditato il suo nome di ufficiale e anche di gentiluomo, senza avere la possibilità di vendicarsi di coloro che lo avevano danneggiato. Gli pareva di essere messo alla berlina, una delle esperienze più tormentose per uno spirito fiero. Lasciato fuori il cane e il fucile, varcò la porta a vetri, consapevole di essere il soggetto della conversazione. Poiché in quella famiglia il dolore di uno era il dolore di tutti, egli continuamente interrompeva le discussioni sulla sua situazione. Prese dalle mani di sua madre una tazza di tè, osservando che gli uccelli diventavano già selvatici; la boscaglia era così sparsa. Ci fu una pausa di silenzio.
«Vado a dare un’occhiata alla corrispondenza», disse il generale; e uscì dalla stanza seguito dalla moglie. Dinny, trovandosi sola col fratello, si fece coraggio.
«Hubert», disse, «bisogna fare qualcosa».
«Non te ne dare fastidio, cara; è una cosa seccante, ma non si può far nulla».
«Perché non trascrivere dal tuo diario il racconto vero di quanto è accaduto e farlo pubblicare? Io lo scriverei a macchina, e Michael ti troverebbe un editore; lui conosce tutto questo genere di persone. Non possiamo certamente accettare ciò che gli altri vogliono».
«Detesto l’idea di mettere a nudo tutti i miei più intimi sentimenti, ed è invece quello che bisognerebbe fare».
Dinny aggrottò le sopracciglia.
«E io detesto che quell’americano attribuisca a te tutto il proprio insuccesso. È un debito che hai verso l’esercito, Hubert».
«Una cosa tanto seria? Ma io ci sono andato da borghese».
«Perché non pubblicare il diario come si trova?»
«Peggio ancora. Tu non l’hai visto».
«Si potrebbe tagliarlo o attenuarlo e così via. Papà, vedi, è di questa opinione».
«Forse faresti meglio a leggerlo. È pieno di espressioni riprovevoli. Quando ci si trova soli come mi son trovato io, ci si lascia andare».
«Potrai tagliare a tuo piacere».
«Come sei buona, Dinny».
Dinny gli accarezzò il braccio.
«Che specie d’uomo è quell’Hallorsen?»
«A voler essere giusti, ha molte buone qualità; inflessibile, pieno di fegato e senza nervosismi; ma per lui, prima d’ogni altra cosa, c’è sempre Hallorsen. Non riuscire non è nel suo carattere, e quando gli capita un insuccesso, qualcuno deve portarne la colpa. Secondo lui, questa volta l’insuccesso è dovuto alla mancanza di mezzi di trasporto, e l’addetto ai trasporti ero io. Ma se nelle mie stesse condizioni avesse lasciato l’arcangelo Gabriele, non avrebbe potuto fare meglio di me. Ha fatto male i calcoli e non lo vuol ammettere. Troverai tutto nel mio diario».
«Hai visto?» Gli porse un ritaglio di giornale e lesse:
«“Apprendiamo che il capitano Cherrell farà i passi necessari per rivendicare pubblicamente il suo onore contro le asserzioni fatte dal professor Hallorsen nel libro sulla sua spedizione in Bolivia, del cui insuccesso il professore attribuisce la colpa al fatto che nel momento critico il capitano Cherrell gli lasciò mancare i mezzi di trasporto”. Come vedi, qualcuno conta di provocare un corpo a corpo».
«In che giornale l’hai trovato?»
«Nell’Evening Sun».
«I passi!», ripeté Hubert con amarezza; «che passi? Non ho che la mia parola, ed egli lo sapeva quando mi lasciò solo con quei cani di boliviani».
«Allora non abbiamo che il diario».
«Vado a prenderti quella dannata cosa».
Quella sera Dinny, seduta alla finestra della sua camera, leggeva la “dannata cosa”. Negli spazi fra gli olmi si scorgeva la luna piena, e il silenzio di tomba era rotto soltanto dalla campana di pecora nell’ovile sul pendio; un solo fiore di magnolia sbocciava vicino alla finestra. Pareva un paesaggio sovrannaturale, e di tanto in tanto Dinny interrompeva la lettura per contemplare quella visione irreale. Da quando i suoi antenati avevano ricevuto in dono quelle terre, avevano brillato diecimila pleniluni, e lo sconforto solitario, le tribolazioni descritte nelle pagine che leggeva, venivano accresciuti dal senso di sicurezza immutabile di una casa tanto antica. Annotazioni crudeli di cose crudeli; un uomo bianco in mezzo a un’orda di selvaggi; uno che amava gli animali fra animali mezzo affamati e uomini che non conoscevano la compassione. Dinny leggeva e diventava ardente e triste.
“Quel miserabile bruto di Castro ha di nuovo colpito i muli col suo coltello infernale. I poveri animali sono magri e stecchiti, e non hanno più la metà delle loro forze. L’ho avvertito per l’ultima volta. Se lo farà ancora, sarà frustato. Ho la febbre".
“Stamane Castro le ha ricevute sode: una dozzina di colpi; vedremo se ciò lo farà smettere. Non posso vedermi con questi bruti; non sembrano esseri umani. Ah, se potessi trovarmi a cavallo per un giorno a Condaford e dimenticare queste paludi e questi poveri muli scheletriti!”
“Ho dovuto frustare un altro di questi diavoli: il loro modo di trattare i muli è semplicemente diabolico. Che siano dannati! Ancora febbre”.
“Stamattina è scoppiato l’inferno – un ammutinamento. Si sono rivoltati contro di me. Per fortuna Manuel mi aveva avvertito. È un bravo ragazzo. Tuttavia Castro per poco non mi piantava il coltello in pancia. Mi ha preso nel braccio sinistro. Sono riuscito a ucciderlo. Ora forse staranno a posto. Nessuna notizia di Hallorsen. Quanto crede ancora ch’io possa resistere in questa anticamera dell’inferno? Il braccio mi dà dolori terribili”.
“La misura è ormai colma. Mentre dormivo quei diavoli hanno messo in fuga i muli e se la sono svignata. Mi sono rimasti Manuel e due ragazzi. Li abbiamo inseguiti per un bel pezzo, ma non abbiamo trovato che le carcasse di due muli. I pezzenti si sono sparpagliati e sarebbe lo stesso che cercare una stella nella Via Lattea. Tornato all’accampamento stanco morto. Dio sa se mai ne uscirò vivo. Il braccio mi fa molto male; spero che non si tratti di un’infezione”.
“Oggi ero deciso ad andarmene. Su un mucchio di pietre avevo lasciato un biglietto per Hallorsen nel quale gli raccontavo quanto era successo, qualora mandasse a richiamarmi. Poi ho cambiato idea. Terrò duro finché arriverà, o finché saremo morti, che è la cosa più probabile”.
E così fino alla fine, tutta una storia di lotte. Dinny depose il diario scuro e ingiallito e appoggiò il gomito sul davanzale. Era scoraggiata dal silenzio e dalla freddezza della luce lunare. Non si sentiva più di umore combattivo. Hubert aveva ragione. Perché mostrare al pubblico la nudità della propria anima, la propria ferita? No! Qualunque altra cosa era preferibile. Sì, bisognava manovrare i fili per vie private. E per quanto sapeva fare, li avrebbe manovrati.