Capitolo 1
1
Sarah, Centro di Smistamento Spose Interstellari, Terra
Avevo la schiena premuta su qualcosa di liscio e duro. Davanti a me c’era qualcosa di ugualmente duro ma caldo, come notai strofinandoci sopra i palmi delle mani. Potevo sentire il battito del suo cuore sotto la pelle madida di sudore e il rombo del piacere dentro il suo petto. I suoi denti mi mordicchiarono nel punto in cui il mio collo si univa alla spalla, con una sensazione pungente e leggermente dolorosa. Un ginocchio mi divaricò le cosce; riuscivo appena a toccare terra con le dita dei piedi. Ero incastrata così bene tra un uomo, un uomo davvero grande e bramoso, e un muro.
Delle mani scivolarono sopra la mia vita fino ad afferrarmi i seni, stringendone i capezzoli già duri. Il mio corpo si sciolse al suo abile tocco, e fui grata per la presenza del muro e della sua stretta sicura. Le sue mani si mossero più in su, sollevandomi le braccia fino ad afferrarmi entrambi i polsi con una mano grande e forte e tenendoli in posizione sopra la mia testa. Ero bloccata alla perfezione. Non m’importava. Avrebbe dovuto, visto che non mi piaceva essere maltrattata, ma questo… oh, Dio, questo era diverso.
Era un piacere essere sbattuta contro un muro.
Non volevo pensare al fatto di poter avere il controllo, al fatto di sapere cosa sarebbe successo dopo. Sapevo solo che qualunque cosa facesse io ne volevo di più. Era selvaggio, indomito e aggressivo. Il suo cazzo premeva caldo contro il mio interno coscia.
“Per favore,” piagnucolai.
“La tua figa è così bagnata che mi sta gocciolando sulla coscia.”
Potevo sentire quanto fossi umida, con il clitoride che pulsava e le mie pareti interne che si contraevano con bramosa anticipazione.
“Vuoi essere riempita dal mio cazzo?”
“Sì,” urlai appoggiando la testa contro la superficie dura.
“Prima hai detto che non ti saresti mai sottomessa.”
“Lo farò. Lo farò,” gemetti andando contro tutto quello in cui credevo. Non mi ero mai sottomessa a nessuno. Sapevo badare a me stessa, difendendomi con i pugni e con le parole. Non avevo mai permesso a nessuno di dirmi cosa fare. Ne avevo già avuto abbastanza con la mia famiglia e non ne potevo più. Ma quest’uomo, a lui avrei dato tutto, anche la mia sottomissione.
“Farai come dico?” La sua voce era rozza e profonda, un misto di dominanza ed eccitazione maschile.
“Lo farò, ma per favore, per favore, scopami.”
“Ah, adoro sentire uscire quelle parole dalla tua bocca. Ma lo sai che dovrai placare la mia bestia, la mia febbre. Non ti scoperò solo una volta. Ti scoperò ancora e ancora, in modo duro e selvaggio, proprio come ne hai bisogno. Ti farò venire così tante volte che non ricorderai più nessun nome se non il mio.”
Gemetti. “Fallo. Prendimi.” Le sue parole erano così sporche che avrei dovuto sentirmi mortificata, invece non facevano che eccitarmi di più. “Riempimi. Posso placare la tua febbre. Sono l’unica.”
Non sapevo nemmeno cosa significasse, ma sentivo che era la verità. Ero l’unica che potesse alleviare la rabbia ansiosa che riuscivo a sentire scalpitare sotto il suo tocco gentile e le sue morbide labbra. Scopare era una valvola di sfogo per la sua intensità, e aiutarlo era mio dovere, il mio compito. Non che fosse un peso; avevo un bisogno disperato che mi scopasse. Forse anch’io ero in preda alla febbre.
Mi sollevò come se non pesassi nulla, con la schiena incurvata per la presa che aveva sui miei polsi e i seni protesi in offerta; mi contorsi per avvicinarmi a lui e costringerlo a riempirmi.
“Mettimi le gambe intorno. Apriti, dammi quello che voglio. Offrimelo.” Morse leggermente la curva della mia spalla ed io piagnucolai per il desiderio, mentre il suo petto massiccio strofinava contro i miei capezzoli sensibili e la sua coscia mi spingeva verso l’alto costringendomi a cavalcarlo strofinandomi contro il clitoride in un implacabile assalto volto a farmi perdere il controllo.
Facendo leva sulla sua presa, sollevai le gambe e mi avvinghiai a lui sentendo la cappella del suo grosso cazzo contro il mio ingresso. Non appena lo ebbi dove volevo che fosse, incrociai le caviglie appena sopra la curva del suo sedere muscoloso e provai a farlo avvicinare per impalarmi, ma era troppo grande, troppo forte, e non potei che gemere frustrata.
“Dillo, compagna, mentre ti riempio con il mio cazzo. Di’ il mio nome. Di’ a chi appartiene il cazzo che ti sta riempiendo. Di’ il nome dell’unico al quale ti sottometterai. Dillo.”
Il suo cazzo premeva per entrare, allargando le labbra della mia figa e dilatandomi completamente. Potevo sentirne la durezza, il calore. Potevo annusare il profumo muschiato della mia eccitazione, del sesso. Sentivo la sua bocca che succhiava la pelle sensibile del mio collo, la sua presa forte come l’acciaio che mi teneva in posizione e il solido muro dietro di me che non mi lasciava alcuna via di fuga dallo sferzare del suo corpo dominante. Riuscivo a sentire la sua potente mole mentre mi ci avvinghiavo con le cosce. Sentivo il movimento dei muscoli del suo sedere mentre mi penetrava.
Inclinai la testa all’indietro e gridai il suo nome, quel nome che significava tutto per me.
“Signorina Mills.”
La voce era delicata, quasi timida, e non era la sua. La ignorai e mi misi a pensare a come il suo cazzo mi stava riempiendo. Non ero mai stata dilatata in quel modo prima, e il leggero bruciore si univa al piacere della sua cappella rossa che scivolava sui punti più sensibili dentro di me.
“Signorina Mills.”
Sentii una mano sulla mia spalla. Fredda. Piccola. Non era la sua mano, perché nel sogno lui mi afferrava il culo, stringendolo mentre andava a fondo e mi bloccava contro il muro.
Mi svegliai di soprassalto e scostai il braccio dal tocco appiccicaticcio dell’estraneo. Sbattei gli occhi un paio di volte, per poi realizzare che la donna davanti a me era la Direttrice Morda. Non era l’uomo del sogno. Oh, Dio, era stato un sogno.
Sobbalzai e cercai di riprendere fiato mentre la osservavo.
Era lei la realtà. La Direttrice Morda si trovava con me nella stanza. Non ero stata scopata da un maschio con un cazzo enorme e con le parole di un amante esigente. La donna aveva l’espressione di un gatto costipato e forse fu il mio viso a farle fare un passo indietro. Come osava interrompere quel sogno? Il miglior sesso che avevo fatto non ci si avvicinava nemmeno. Diamine, quello sì che era un sogno eccitante. Non avevo mai fatto del sesso così brutale, sbattuta contro un muro, ma ora lo volevo. Le mie pareti interne si contrassero al ricordo della sensazione di quel cazzo. Le mie dita bramavano afferrare di nuovo le sue spalle. Volevo avvolgere la sua vita con le mie caviglie, affondargli i talloni nel culo.
Quel sogno erotico era fuori di testa. Ora, Dio, era quasi mortificante che non fosse stato reale. No, era mortificante il fatto che avrei dovuto essere preparata per unirmi alle prime linee della coalizione, non per recitare come porno star. Avevo immaginato che il processo di preparazione comprendesse una visita medica, un impianto anticoncezionale e forse una valutazione psichiatrica. Ero già stata nell’esercito, ma non nello spazio. Quanto poteva essere diverso? Che tipo di preparazione era costringermi ad avere un sogno erotico. Era perché ero una donna? Volevano assicurarsi che non sarei saltata addosso a un commilitone? Era ridicolo, ma quale altro motivo poteva esserci per un sogno erotico così eccitante?
“Che cosa?” latrai, ancora arrabbiata per essere stata strappata via da quel piacere e imbarazzata per essere stata colta in uno stato così emotivamente vulnerabile.
Sobbalzò, chiaramente poco abituata al comportamento rude delle nuove reclute. Strano, dal momento che aveva a che fare con esse ogni giorno. Aveva detto che era nuova qui al centro di smistamento, ma non si era capito quanto nuova. Con la fortuna che avevo, probabilmente era il suo primo giorno.
“Mi dispiace averla disturbata.” La sua voce era mite. Mi ricordava un topo. Capelli castani scialbi, lisci e lunghi. Niente trucco e un’uniforme che la faceva sembrare pallida. “Il suo test è stato completato.”
Guardai in basso verso il mio corpo, accigliandomi. Mi sembrava di essere nell’ufficio di un dottore, con il camice da ospedale con il logo rosso ripetuto su tutto il materiale ruvido. La sedia era come quella di un dentista, ma le cinghie ai polsi erano piuttosto sgradite. Gli diedi uno strattone per testarne la resistenza, ma non cedevano. Ero in trappola. Decisamente non era una sensazione piacevole. Mi fece pensare al sogno, nel quale lui mi teneva i polsi bloccati sopra la testa, cosa che invece mi era piaciuta. Un sacco. A parte per il fatto di avermi costretta a dirgli che avevo intenzione di sottomettermi e di essere in suo potere. Non aveva senso, perché odiavo essere sotto il controllo di chiunque. Quando andavo in giro con gli amici ero io a guidare. Ero io a organizzare le feste di compleanno. Facevo la spesa per la mia famiglia. Avevo un padre e tre fratelli, tutti prepotenti. Sebbene mi avessero cresciuta per essere prepotente come loro, non mi avevano mai permesso di dire loro cosa fare. Mi importunavano, mi prendevano in giro, spaventavano qualsiasi uomo vagamente interessato a me. Si erano arruolati nell’esercito ed io li avevo seguiti. Volevo aver il controllo tanto quanto loro.
Ora, queste dannate cinghie mi facevano sentire in trappola. Bloccata senza via di fuga. Lanciai un’occhiataccia alla direttrice.
Le sue spalle si ammosciarono, rimpicciolendosi di qualche centimetro.
“Il mio test è stato completato? Non le interessano le mie abilità con le armi da fuoco? Nel combattimento a mani nude? Nel pilotaggio?
Si inumidì le labbra e si schiarì la gola. “Le sue… abilità sono notevoli, ne sono sicura, ma a meno che non riguardino i test appena effettuati… no.”
Le mie abilità in battaglia erano molte, poiché avevo anni di esperienza, probabilmente più della maggior parte delle reclute della coalizione. Da quanto ne sapevo, tutti i test consistevano in simulazioni come quella che avevo appena dovuto sopportare, la quale era stata bizzarra, ma forse più rapida dei test condotti con armi da fuoco o su un velivolo militare. Quel sogno erotico era qualche tipo di nuovo test? Non ero una ninfomane, ma non avrei comunque rifiutato un uomo attraente, se si fosse presentata l’occasione. Comunque, conoscevo la differenza tra la camera da letto e il campo di battaglia. Perché gli interessavano le mie inclinazioni sessuali? Credevano che una donna umana non sarebbe riuscita a resistere a un seducente alieno? Diamine, ero stata circondata da attraenti maschi alfa per tutta la vita. Resistere non era un problema.
O forse stavano cercando di dimostrare che c’era qualcosa che non andava in me, cosicché avevo evocato l’immagine di una donna dominata e bloccata contro un muro da un uomo eccitato e ben dotato? Eppure non era stato prepotente. Non avevo avuto paura di lui. Io lo volevo. Ne avevo bisogno. Non c’erano state esplosioni, a meno che non si consideri il fatto che ero quasi venuta quando mi aveva penetrato fino in fondo. Contrassi di nuovo i muscoli del mio inguine, con l’intensità del sogno che mi faceva bramare di essere riempita dal seme caldo di quell’uomo enorme.
Era il mio turno di schiarirmi la gola.
Un battito alla porta fece girare la direttrice sui suoi tacchi dalle suole di gomma.
Entrò un’altra donna in un uniforme identica, ma indossata con molta più sicurezza e con fare esperto.
“Signorina Mills, sono la Direttrice Egara. Vedo che ha completato i test.” La Direttrice Egara aveva i capelli castano scuro, gli occhi grigi e la postura di una ballerina. Aveva la spalle squadrate e un corpo snello e ben retto. Tutto di lei comunicava educazione, sicurezza, raffinatezza.
L’esatto opposto del quartiere nel quale ero cresciuta. La direttrice diede un’occhiata al tablet che portava con sé. Supposi che il cenno che fece con la testa indicasse che era soddisfatta, ma la sua espressione era severa e non concedeva nulla.
Avrei voluto avere metà della sua compostezza, poiché sentii un cupo cipiglio oscurarmi il volto. “C’è un motivo per il quale mi trovo legata a questa sedia?”
L’ultima cosa che ricordavo era che mi trovavo seduta davanti al piccolo topo – che ora era praticamente nascosto accanto alla direttrice autoritaria – e che prendevo una piccola pillola dalle sue mani. L’avevo mandata giù con un bicchiere d’acqua. Ora mi trovavo nuda sotto il camice – potevo sentire il mio sedere nudo contro la plastica dura – e legata. Se proprio dovevo essere vestita in qualche modo, di sicuro questo ridicolo camice ospedaliero non era la cosa giusta, lo sarebbe stato piuttosto un’uniforme da guerriero della coalizione.
La direttrice mi lanciò un occhiata e mi offrì un sorriso sicuro. Tutto di lei sembrava professionale, al contrario del topo.
“Alcune donne reagiscono vigorosamente ai test. Le cinghie sono per la sua sicurezza.”
“Allora non le dispiacerà rimuoverle adesso?”
Sentivo di non avere il controllo con le braccia bloccate. Se ci fosse stato un qualche pericolo avrei potuto scalciare contro un assalitore, perché avevo le gambe libere, ma sicuramente avrei offerto un bello spettacolo quando avrei alzato la gamba.
“Non fino a quando non avremo finito. Lo richiede il protocollo,” aggiunse, come se avesse fatto qualche differenza.
Prese una sedia dal tavolo davanti a me e il topo si accomodò accanto a lei.
“Prima di procedere dobbiamo farle delle domande standard, Signorina Mills.”
Cercai di non portare gli occhi al cielo, conoscendo la pignoleria dell’esercito per quanto riguardava scartoffie e organizzazione. Non avrei dovuto essere sorpresa che un’organizzazione militare composta da oltre duecento pianeti membri volesse rendermi le cose difficili. Il mio arruolamento nell’esercito degli Stati Uniti aveva richiesto giorni di scartoffie, e si trattava di un piccolo Stato su un piccolo pianeta blu in mezzo a centinaia di altri. Diamine, sarei stata fortunata se le procedure della coalizione aliena ci avessero messo due mesi.
“Bene,” replicai impaziente di terminare. Avevo un fratello da trovare e stavo perdendo tempo. Ogni secondo che passavo bloccata qui sulla Terra era un’occasione in più per far sì che il mio fratello fuori di testa facesse qualcosa di stupido e si facesse uccidere.
“Il suo nome è Sarah Mills, esatto?”
“Sì.”
“Non è sposata.”
“No.”
“Niente figli?”
Ora alzai gli occhi al cielo. Non mi sarei offerta volontaria per un servizio militare attivo nello spazio profondo in lotta contro il terribile Alveare se avessi avuto figli. Stavo per firmare per un servizio di due anni e non avrei mai lasciato dei figli. Nemmeno per la promessa che avevo fatto a mio padre sul suo letto di morte.
“No. Non ho figli.”
“Molto bene. È stata assegnata al pianeta Atlan.”
Aggrottai la fronte. “Ma non è per niente vicino alle prime linee.” Sapevo dove avevano luogo i combattimenti perché i miei due fratelli, John e Chris, erano morti lì nello spazio e il mio fratello più giovane, Seth, stava ancora combattendo.
“Esatto.” Guardò oltre le mie spalle con quello sguardo vago di qualcuno che sta pensando. “Se ne so abbastanza di geografia, Atlan è circa a tre anni luce dal più vicino avamposto attivo dell’Alveare.”
“E allora perché sto andando lì?”
Fu la volta della direttrice di aggrottare la fronte, con lo sguardo concentrato sul mio viso. “Perché è da lì che viene il suo compagno prescelto.”
Spalancai la bocca guardando la donna, strabuzzando tanto gli occhi che mi sembrò dovessero schizzarmi fuori dalla testa. “Il mio compagno? Perché dovrei volere un compagno?”