CAPITOLO UNO
Avery si sentiva come se avesse passato le ultime due settimane in una strana camera di isolamento. Vi era entrata di sua volontà perché onestamente, non era interessata a nessun altro posto, solo alla stanza d’ospedale dalle pareti sterili dove Ramirez era debolmente aggrappato alla vita.
Di tanto in tanto, il suo cellulare vibrava per l’arrivo di una chiamata o di un messaggio, ma lei lo controllava di rado. La sua solitudine era interrotta solo dalle infermiere, i dottori e Rose. Avery sapeva che probabilmente stava spaventando la figlia. A dire la verità, stava iniziando a spaventare anche se stessa. Era già stata depressa, durante la sua adolescenza e dopo il divorzio, ma quella era una cosa nuova. Andava oltre la depressione, la portava a chiedersi se la vita che stava vivendo fosse davvero ancora la sua.
Due settimane prima, tredici giorni per essere precisi, era successo. Ramirez era improvvisamente peggiorato dopo un intervento chirurgico per riparare i danni lasciati dalla ferita di un proiettile che era stato a un centimetro dal perforargli il cuore. Da allora non era ancora migliorato. I dottori avevano detto che era andato in arresto cardiaco. Era in uno stato molto precario, avrebbe potuto riprendersi e guarire totalmente ma anche andarsene con la stessa facilità. Non era possibile prevederlo per certo. Aveva perso molto sangue nella sparatoria, tecnicamente era morto per quarantadue minuti dopo l’arresto cardiaco, e la situazione non era rosea.
La gravità di quell’evento si era sommata all’altra terribile notizia che aveva ricevuto appena venti minuti dopo aver parlato con il dottore.
La notizia che Howard Randall era riuscito a evadere di prigione. E due settimane più tardi non era ancora stato ripreso. Se avesse avuto bisogno di ricordarsi di quel fatto agghiacciante (e non le serviva), lo poteva vedere in televisione ogni volta che si decideva ad accenderla. Sedeva come uno zombie nella stanza di Ramirez, e guardava le notizie. Anche quando la fuga di Howard non era la principale, appariva comunque di continuo sul fondo dello schermo.
Howard Randall ancora disperso. Le autorità non hanno risposte.
Tutta la città di Boston era nervosa. Era come essere sull’orlo di una guerra con un paese imprecisato e in attesa che le bombe iniziassero a cadere. Finley aveva cercato di chiamarla diverse volte e anche Connelly aveva fatto capolino nella stanza in due casi. Persino O’Malley era sembrato preoccupato per lei, e l’aveva espresso in un semplice messaggio che rileggeva ancora con una riconoscenza inespressa.
Prenditi il tuo tempo. Se hai bisogno di qualsiasi cosa, chiama.
Le stavano dando il tempo di piangere la sua perdita. Lo capiva e le sembrava un po’ sciocco, dato che Ramirez non era ancora morto. Ma era anche per permetterle di elaborare il trauma di ciò che le era successo durante l’ultimo caso. Sentiva ancora freddo quando ci pensava, ricordando la sensazione di essere sul punto di morire congelata in due diverse occasioni, dentro un freezer industriale e cadendo in acque congelate.
Ma alla base di tutto c’era il fatto che Howard Randall era in libertà. In qualche modo era scappato, rafforzando la sua immagine già enigmatica. Aveva visto sui telegiornali che gente meno che rispettabile lo stava elogiando sui social media per le abilità da escapologo dimostrate durante l’evasione e nella sua sparizione senza alcuna traccia.
Avery rifletteva sugli ultimi eventi, sdraiata su una delle poltrone reclinabili che un’infermiera gentile aveva spostato lì dentro per lei la settimana prima, avendo capito che non sarebbe andata da nessuna parte. Le sue riflessioni furono interrotte da un ding del telefono. Era l’unico suono che si permetteva in quei giorni, un segno che Rose si stava facendo viva.
Avery controllò il cellulare e vide che la figlia le aveva mandato un messaggio. Volevo solo vedere come stai, diceva. Sei ancora chiusa in ospedale? Smettila. Vieni fuori e bevi qualcosa con tua figlia.
Più per dovere che altro, Avery le rispose. Non hai ancora 21 anni.
La replica arrivò immediatamente, dicendo: Oh, mamma, sei adorabile. Ci sono molte cose che non sai di me. Potresti imparare alcuni di questi segreti se uscissi con me. Solo una sera. Lui starà bene anche senza di te a vegliarlo…
Avery mise da parte il telefono. Sapeva che Rose aveva ragione, la possibilità che Ramirez decidesse di risvegliarsi proprio mentre lei era via la tormentava. E non ci sarebbe stato nessuno a dargli il benvenuto, a prenderlo per mano e a raccontargli che cosa era successo.
Si alzò dalla poltrona e gli si avvicinò. Il suo aspetto debole, attaccato a tutte quelle macchine e con un tubo infilato in gola, non la turbava più. Quando ripensava al motivo per cui era lì, a come si era preso una pallottola che sarebbe potuta essere diretta a lei, le appariva più forte che mai. Gli passò le mani tra i capelli e gli baciò la fronte.
Poi prese la sua mano tra le proprie e si sedette sul bordo del letto. Anche se non lo avrebbe mai ammesso a nessuno, gli aveva parlato diverse volte, sperando che lui potesse sentirla. Lo fece anche in quel momento, all’inizio sentendosi un po’ sciocca, come sempre, ma poi ricadendo nell’abitudine con naturalezza.
“Quindi, ecco come è la situazione,” disse al partner. “Non esco dall’ospedale da quasi tre giorni. Mi serve una doccia. Mi piacerebbe mangiare un pasto decente e bere una bella tazza di caffè. Vado via per un pochino, okay?”
Gli strinse la mano, e il suo cuore si spezzò quando si rese conto che stava ingenuamente aspettando che lui gliela stringesse a sua volta. Lo fissò supplicante, sospirò, e poi prese il cellulare. Prima di uscire dalla stanza, lanciò un’occhiata alla televisione. Afferrò il telecomando per spegnerla e fu salutata dal volto che aveva cercato con tanto impegno di ignorare nelle ultime due settimane.
Howard Randall la fissava, la sua foto segnaletica riempiva mezzo schermo mentre un presentatore dall’aria seria leggeva qualcosa su un telesuggeritore. Avery spense la televisione per il disgusto e uscì rapidamente dalla stanza, come se l’immagine di Howard sullo schermo fosse stata un fantasma, teso ad afferrarla.
***
Sapere che Ramirez era stato pronto a trasferirsi da lei (e, a giudicare dall’anello che era stato scoperto nella sua tasca dopo che era stato colpito, a chiederle di sposarlo) rese il suo ritorno a casa un’esperienza tetra. Quando entrò nell’appartamento, si guardò intorno con aria assente. Il posto le sembrava morto. Dava la sensazione che nessuno vi avesse vissuto per anni, un’abitazione in attesa di essere svuotata, ridipinta e affittata a qualcun altro.
Pensò di chiamare Rose. Sarebbero potute stare un po’ insieme e mangiare una pizza. Ma sapeva che la figlia avrebbe voluto parlare di quello che stava succedendo e Avery non era ancora pronta. Di solito elaborava le cose piuttosto rapidamente, ma quella era diverso. Ramirez tra la vita e la morte e Howard in libertà… era troppo.
Tuttavia… anche se l’appartamento non le sembrava più una casa, non vedeva l’ora di stendersi sul divano. E il letto aveva il suo nome scritto sopra.
È ovvio che questa sia ancora casa tua, pensò. Solo perché Ramirez potrebbe non farcela e non venire mai a vivere qui con te, non significa che non sia più casa tua. Non essere così maledettamente drammatica.
Ed eccolo lì, chiaro come il giorno. Fino ad allora era riuscita evitare di pensare alla realtà, ma così esplicitata, era più traumatizzante di quanto avesse previsto.
Con aria mogia si diresse verso il bagno. Si spogliò, entrò nella vasca tirando le tende, e aprì l’acqua calda. Rimase ferma per diversi minuti senza toccare il sapone o lo shampoo, lasciando che l’acqua le sciogliesse i muscoli. Quando ebbe finito di lavarsi, chiuse la doccia, mise il tappo e fece scorrere l’acqua calda nella vasca. Mentre la riempiva si sedette, permettendosi di rilassarsi.
Quando l’acqua arrivò all’orlo, quasi sul punto di rovesciarsi oltre il lato della vasca, chiuse il rubinetto con un dito del piede. Chiuse gli occhi e si mise comoda.
L’unico suono nell’appartamento era il lento e ritmico gocciolio dell’acqua in eccesso dal rubinetto, e il suo respiro.
E poco dopo, un terzo rumore: il pianto di Avery.
Per la maggior parte si era controllata, non volendo mostrare quel lato di sé in ospedale e non volendo che Ramirez la sentisse, se ne era in grado. Qualche volta si era nascosta nel bagno della sua stanza a piangere per un po’, ma non aveva mai lasciato che le lacrime scendessero tanto liberamente.
Singhiozzò nella vasca da bagno e, così come la possibilità che Ramirez non ce la facesse, anche il pianto fu più traumatizzante di quanto non avesse previsto.
Continuò a piangere e non uscì dalla vasca fino a quando l’acqua non divenne tiepida e i piedi e le mani iniziarono a raggrinzirsi. Quando finalmente emerse, profumata nuovamente come un essere umano e idratata dal vapore, si sentiva molto meglio.
Dopo essersi vestita si prese persino il tempo di truccarsi un po’ e di dare un’aria presentabile ai propri capelli. Poi si avventurò in cucina, si versò una tazza di cereali per fare un pranzo tardivo e controllò il telefono, che aveva lasciato sul bancone della cucina.
A quanto pare, era stata piuttosto popolare mentre era in bagno.
Aveva ricevuto tre messaggi vocali e otto messaggi di testo. Venivano tutti da numeri che conosceva. Due erano linee telefoniche della centrale. Gli altri erano di Finley e Connelly. Uno dei messaggi era di O’Malley. Era stato l’ultimo ad arrivare, sette minuti prima, e andava dritto al punto. Il messaggio diceva: Avery, sarà meglio che tu risponda al tuo telefono del cazzo se ti importa del tuo lavoro!
Sapeva che era un bluff, ma il fatto che O’Malley, tra tutti, le avesse scritto, significava che stava succedendo qualcosa. O’Malley scriveva molto raramente. Doveva essere in ballo qualcosa di grosso.
Non si prese la briga di controllare i messaggi vocali. Invece chiamò Connelly. Non voleva parlare con Finley perché l’agente girava troppo intorno agli argomenti scomodi. E non aveva alcuna intenzione di parlare con O’Malley mentre era di cattivo umore.
Connelly rispose al secondo squillo. “Avery. Gesù… dove diavolo sei stata?”
“Nella vasca da bagno.”
“Sei al tuo appartamento?”
“Sì. È un problema? Ho visto un messaggio di O’Malley. Un messaggio. Che sta succedendo laggiù?”
“Senti… potremmo avere un grosso caso per le mani e se te la senti, vorremmo che venissi a lavoro. A dir la verità… anche se non te la senti, O’Malley ti vuole qui.”
“Perché?” chiese lei, incuriosita. “Che cosa c’è?”
“Ecco… vieni in centrale e basta, va bene?”
Lei sospirò, rendendosi conto che non le dispiaceva l’idea di tornare a lavoro. Forse le avrebbe dato un po’ di carica. Magari l’avrebbe tirata fuori dalla depressione in cui si era crogiolata nelle ultime due settimane.
“Che cosa c’è di così maledettamente importante?” domandò.
“C’è stato un omicidio,” disse “E siamo abbastanza certi che sia stato Howard Randall.”