Capitolo V-1

2117 Words
Capitolo V La “vergine della pagoda” Quella pagoda, del più puro stile indiano, era la più bella che Tremal-Naik avesse veduto nelle Sunderbunds. Costruita tutta in granito bigio era alta più che sessanta piedi, con una base larga quanto due terzi dell’altezza, contornata da stupendi colonnati, scolpiti con quella valentia che distingue la razza indiana. Man mano che la pagoda saliva, andava a poco a poco restringendosi sino a terminare in una specie di cupola sormontata da una gigantesca palla di metallo, con una punta assai aguzza sostenente il misterioso serpente colla testa di donna. Agli angoli della pagoda, scorgevansi il Trimurti indiano, figurato da tre teste sopra un solo corpo sostenuto da tre gambe e, qua e colà, una moltitudine di sculture strane, curiose, rappresentanti molte figure della storia sacra degl’indiani, Brahma, Siva, Visnù, Parvadi, la sinistra dea della morte seduta sopra un leone, Darma-Ragia, il Plutone degl’indiani e molte altre divinità, nonché un gran numero di mostri spaventevoli e di teste d’elefanti colle proboscidi tese. Tremal-Naik, come si disse, si era fermato di colpo, sorpreso di trovarsi dinanzi ad una pagoda, là dove credeva di trovare la selvaggia jungla. «Una pagoda!» aveva esclamato egli. «Sono perduto!» Gettò un rapido sguardo all’intorno. Egli si trovava in una specie di radura d’una estensione di oltre mezzo miglio, sgombra affatto d’ogni cespuglio e d’ogni bambù. «Sono perduto!» ripeté egli, con ira. «Se non trovo un nascondiglio, fra cinque minuti mi pioveranno addosso quei terribili uomini e mi strangoleranno». Ebbe per un istante l’idea di ritornare indietro e di riguadagnare la jungla per nascondersi, ma vi erano più di ottocento metri da percorrere, cioè il tempo sufficiente perché gli inseguitori lo scoprissero. Pensò alle ruine che contornavano lo stagno, ma non presentavano nascondigli di sorta. «E se salissi lassù», mormorò egli, guardando la sommità della pagoda. «E perché no?» Un uomo come lui, rotto ad ogni sorta d’esercizi e che possedeva una forza erculea congiunta ad un’agilità straordinaria da muovere ad invidia una scimmia guenù, era capace di issarsi fino alla cupola aggrappandosi ai colonnati ed alle sculture che collegavansi in modo da formare un’erta e bizzarra gradinata. Si slanciò verso la pagoda, dopo d’aver disarmato la carabina e di aversela gettata dietro le spalle, stette qualche istante ad udire, e rassicurato del profondo silenzio che colà regnava, imprese l’ardita scalata. Con una rapidità sorprendente salì su una colonna e di là si slanciò sulle pareti del tempio aggrappandosi alle gambe delle divinità, inerpicandosi sui loro corpi, posando i piedi sulle loro teste, afferrandosi alle proboscidi degli elefanti e alle corna dei buoi del dio Siva. Cosa strana, incomprensibile, misteriosa: man mano che saliva sentivasi il cuore battere precipitosamente, le membra acquistare una forza straordinaria. Egli sentivasi come attirato da una forza irresistibile verso la sommità della pagoda, ed al contatto di quelle fredde pietre provava delle sensazioni sconosciute, inesplicabili. Potevano essere le due del mattino, quando, dopo d’avere eseguito venti manovre aeree da far gelare il sangue ad un ginnasta e di aver corso altrettante volte il pericolo di capitombolar giù e di sfracellarsi il cranio, giunse alla cupola. Con un ultimo slancio s’aggrappò alla gigantesca palla di metallo, sormontata dalla punta sostenente il serpente colla testa di donna. Con sua sorpresa egli si trovò ondeggiante al di sopra di una larga apertura, profonda ed oscura quanto un pozzo, attraversata da una sbarra di bronzo sulla quale trovò modo di appoggiare i piedi. «Dove sono?» si chiese egli. «Questo pozzo, senza dubbio, deve menare [54] nell’interno della pagoda». Abbandonò la grande palla e s’aggrappò alla sbarra guardando giù, ma non vide che tenebre; tese l’orecchio, ma il più profondo silenzio regnava sotto di lui, segno evidente che nessuno trovavasi nella pagoda. Una cosa che lo colpì fu una corda abbastanza grossa, formata d’un vegetale lucente e flessibilissimo, annodata alla sbarra e che scompariva giù nell’apertura. L’afferrò e riunendo le sue forze la tirò a sé; s’accorse subito che alla estremità v’era attaccato un corpo alquanto pesante il quale, alla trazione, ondeggiò tintinnando. «Deve essere una lampada», disse Tremal-Naik. Ad un tratto si batté la fronte. «Ora mi ricordo!» esclamò egli con viva emozione. «Sì… quei due uomini parlavano di una pagoda… di una vergine che veglia… Giusto Visnù, sarebbe mai… S’arrestò e portò ambo le mani al cuore che batteva con veemenza straordinaria. Egli provava allora un’emozione analoga a quella che sentiva in quelle sere che trovavasi dinanzi alla strana visione. Fu un lampo. S’aggrappò a quella corda e si mise a scendere nelle tenebre, quantunque ignorasse ancora dove andasse a finire e ciò che lo attendeva laggiù. Pochi minuti dopo, i suoi piedi battevano su di un oggetto arrotondato, il quale mandò un suono metallico che gli echi del tempio ripeterono più volte. Stava per curvarsi per vedere cos’era, quando un cigolio simile a quello di una porta che gira sui cardini, giunse ai suoi orecchi. Guardò sotto di sé e gli parve di scorgere, fra le tenebre, un’ombra che muovevasi, ma senza produrre rumore di sorta. «Chi può esser mai?» si chiese egli, rabbrividendo. Con una mano, estrasse una pistola e l’impugnò deciso di vendere caramente la vita, se veniva scoperto, e attese coll’immobilità d’una statua di granito. Un sospiro profondo salì fino a lui; quel sospiro lo impressionò in un modo nuovo, misterioso. Gli sembrò che gli avessero vibrato una pugnalata in cuore. «Sono pazzo o stregato», mormorò egli. L’ombra si era fermata dinanzi ad una massa nera, enorme che trovavasi proprio al disotto della fune. «Eccomi, orribile divinità!» esclamò una voce di donna che scosse Tremal-Naik fino al fondo dell’anima. Tremal-Naik al colmo della sorpresa udì una materia liquida precipitare sul suolo e sentì spandersi per l’aria un profumo soave. «Mostruosa gente!» pensò egli. «Eppure quell’ombra ha una voce dolce come le note del saranguy… È strana! Tremo come se avessi la febbre. Perché?» «Ti odio!» esclamò la medesima voce, con profonda amarezza. «Ti odio, spaventevole divinità, che mi condannasti ad eterno martirio dopo d’avermi distrutto tutto ciò che avevo di più caro sulla terra. Assassini, possiate essere maledetti in questa e nell’altra vita!» Uno scoppio di pianto seguì la maledizione che quell’essere misterioso aveva scagliato su quegli uomini che aveva chiamato assassini. Tremal-Naik per la seconda volta fremette in tutte le membra e lui, l’uomo dall’animo inaccessibile, lui, il selvaggio figlio della jungla, lui, il cacciatore di serpenti, per la prima volta in sua vita, si sentì commosso. Ebbe per un istante l’dea di lasciarsi cadere nel vuoto. Ma un po’ di diffidenza lo trattenne. Del resto era troppo tardi, poiché l’ombra s’era allontanata scomparendo nelle tenebre e poco dopo udì il cigolio della porta che schiudevasi. «Ma che non possa svelare adunque [55] questo mistero?» mormorò Tremal-Naik, quasi con rabbia. «Ma chi sono adunque questi mostri che han bisogno di vittime?» «Chi è mai questa spaventevole divinità? Chi è questa donna che viene a maledire a mezzanotte, nell’ora dei delitti, dei fantasmi, delle vendette? Chi è questo essere, che mentre gli altri strangolano, piange? Che mentre gli altri mi fan ribrezzo, mi commuove! Che mentre gli altri han cupa la voce, l’ha dolce, soave come un’armonia celeste? Quest’essere, questa donna io la voglio vedere, io le voglio parlare e tutto mi svelerà. Non so, ma una voce interna mi dice che questa donna io l’ho veduta altre volte, ha fatto palpitare il mio cuore, che questa donna è… S’arrestò anelante, quasi spaventato. Una fiamma gli salì in volto e lo inondò di sudore». «Se fosse la mia visione!» esclamò egli con voce tremante per l’emozione. «Quando m’arrampicava [56] sul tempio io era commosso; quando scesi quaggiù io tremava. [57] Se fosse vero? Scendiamo». Si lasciò calare giù e posò i piedi su di un oggetto duro e scabroso, che diede quel suono particolare dei corpi metallici e specialmente dei bronzi. S’accorse di essere sopra alla massa nera, dinanzi alla quale la donna aveva versato quel profumo, maledetto e pianto. «Cos’è mai questo?» mormorò egli. Si chinò, appoggiò le mani su quella massa di bronzo e si lasciò scivolar giù, finché toccò terra. I suoi piedi sdrucciolarono su di una superficie liscia e umidiccia. «È qui che ella sparse il profumo», diss’egli. «L’odore che mi sale alle nari [58] me lo dice. Domani saprò dove mi trovo e con chi avrò da fare [59] ». Fece sei o sette passi brancolando fra le tenebre e si aggomitolò su se stesso, colle pistole in mano, aspettando che un raggio di luce illuminasse quel misterioso tempio. Passarono alcune ore senza che rumore alcuno turbasse il funebre silenzio che regnava in quel luogo; lassù, verso l’apertura, il cielo cominciava a rischiararsi e gli astri ad impallidire sotto i primi albori. Tremal-Naik, immobile, cogli occhi bene aperti e gli orecchi tesi, aspettava sempre con quella pazienza che è particolare alle razze asiatiche. Verso le quattro il sole apparve improvvisamente sull’orizzonte, illuminando la grande palla di bronzo che ergevasi sulla cima della pagoda e dall’ampia apertura scese un fascio di luce. Tremal-Naik scattò in piedi, sorpreso, sbalordito dallo spettacolo che offrivasi dinanzi a’ suoi occhi. Egli si trovava in una specie di immensa cupola, le cui pareti erano bizzarramente dipinte. Le prime dieci incarnazioni di Visnù, il dio conservativo degli indiani che ha la sua residenza nel Vaicondu o mare di latte del serpente Adissescien, erano dipinte all’ingiro, [60] circondate dai principali deverkeli o semi-dei venerati dagl’indiani, protettori degli otto angoli del mondo, abitatori del Sorgon, cioè un paradiso di quelli che non hanno tanti meriti per andare nel cailasson o paradiso di Siva. A metà della cupola v’erano scolpiti i cateri, giganteschi geni malvagi, che divisi in cinque tribù vanno errando pel mondo dal quale non possono uscire, né meritare la beatitudine promessa agli uomini, se non dopo d’aver raccolto un gran numero di preghiere. Nel mezzo della pagoda si elevava una grande statua di bronzo, rappresentante una donna con quattro braccia, di cui una brandiva una lunga daga [61] e un’altra una testa. Una grande collana di teschi le scendeva fino al collo dei piedi ed una cintura di mani e di braccia mozzate le stringeva i fianchi. La faccia di quell’orribile donna era tatuata, le sue orecchie erano adorne di anelli; la lingua dipinta di rosso cupo, del color del sangue, le usciva d’un buon palmo dalle labbra atteggiate ad un feroce sorriso; i polsi erano stretti da larghi braccialetti ed i piedi posavano su di un gigante coperto di ferite. Quella divinità, lo si capiva a prima vista, trasportata dalla ebbrezza del sangue, danzava sul corpo della vittima. Un altro oggetto strano, era una vaschetta di marmo bianco, incastonata nelle lucenti pietre del pavimento. Era colma di limpidissima acqua e dentro vedevasi nuotare un pesce di un bel giallo d'oro, piccolo e che somigliava assai ad un mango del Gange. Tremal-Naik non aveva mai visto nulla di simile. Egli si era fermato dinanzi alla mostruosa divinità e la contemplava con un misto di stupore e di paura. Chi era mai quella sinistra figura contornata di cranii ed ornata di mani e braccia mozze? Cosa significava quel pesciolino dorato nuotante in quella bianca vaschetta? Quale relazione avevano quei due strani simboli, coi feroci uomini che inseguivano e strangolavano i loro simili? «Che io sogni?» mormorò Tremal-Naik, stropicciandosi più volte le palpebre. «Io non comprendo nulla!» Non aveva ancor finito, che un leggero cigolio giungeva ai suoi orecchi. Si volse colla carabina in mano, ma quasi subito indietreggiò fino alla mostruosa divinità, rattenendo [62] a gran pena un grido di stupore e di gioia. Dinanzi a lui, sul limitare di una porta dorata, stavasene ritta una fanciulla di meravigliosa bellezza, col più angoscioso terrore dipinto sul volto. Poteva avere quattordici anni. La sua taglia era graziosa e di forme superbamente eleganti. Aveva i lineamenti d’una purezza antica, animati dalla scintillante espressione della donna anglo-indiana. La pelle era rosea, d’una morbidezza impareggiabile, gli occhi grandi neri e scintillanti come diamanti; un naso diritto che nulla aveva d’indiano, labbra sottili, coralline, schiuse ad un melanconico sorriso che lasciava scorgere due file di denti d’abbagliante bianchezza una opulenta capigliatura d’un castano cupo, fuliginoso, separata sulla fronte da un mazzetto di grosse perle, era raccolta in nodi ed intrecciata con fiori di sciambaga dal soave profumo. Tremal-Naik come si disse, era vivamente indietreggiato fino alla mostruosa statua di bronzo. «Ada! Ada! L’apparizione della jungla!» esclamò egli con voce soffocata. Non seppe dire di più e rimase lì, muto, ansante, trasognato a mirare quella superba creatura che continuava a fissarlo con profondo terrore. Ad un tratto quella fanciulla fece un passo innanzi lasciando cadere a terra l’ampio sari di seta, orlato d’una larga striscia azzurra, fregiata di complicati disegni, che ricoprivala come un ampio mantello. Un fascio di luce abbagliante l’avvolse, togliendola alla vista del cacciatore di serpenti che fu forzato a chiudere gli occhi. Quella fanciulla era coperta letteralmente d’oro e di pietre preziose d’inestimabile prezzo. Una corazza d’oro, tempestata dei più bei diamanti del Golconda e del Guzerate, decorata del misterioso serpente colla testa di donna, le racchiudeva tutto il seno e spariva in un largo scialle di cachemire trapunto d’argento, che cingevale i fianchi; molteplici collane di perle e di diamanti le pendevano dal collo, grossi come nocciuole; larghi braccialetti pur tempestati di pietre preziose le ornavano le nude braccia, ed i calzoncini larghi, di seta bianca, erano stretti sul collo dei piedi nudi e piccini, da cerchietti di corallo della più bella tinta rossa. Un raggio di sole, penetrato da uno stretto pertugio, battendo sopra quella profusione di ori e di gioie aveva per così dire immersa la giovanetta in un mare di luce d’un fulgore accecante.
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