Capitolo II L’isola misteriosa
Un profondo silenzio seguì la triste narrazione dell’indiano. Tremal-Naik, diventato ad un tratto cupo e nervosissimo, s’era messo a passeggiare dinanzi al fuoco, colla testa china sul petto, la fronte aggrottata e le braccia incrociate.
Kammamuri, agghiacciato dal terrore, meditava aggomitolato su se stesso. Persino il cane aveva cessato di fare udire il suo lamentevole urlo e s’era sdraiato a fianco di Darma.
Le note acute del misterioso ramsinga strapparono il cacciatore di serpenti dalle sue meditazioni. Alzò il capo come un cavallo di battaglia che ode il segnale della carica, gettò un’occhiata profonda nella deserta jungla sulla quale ondeggiava allora una densa nebbia, carica d’esalazioni velenose, girò su se stesso e, avvicinandosi bruscamente ad Aghur, gli disse: «Hai udito mai il ramsinga?»
«Sì, padrone, rispose l’indiano», ma una sola volta.
«Quando?»
«La notte che scomparve Tamul, vale a dire sei mesi fa».
«Sicché credi anche tu, come Kammamuri, che segnali una disgrazia?»
«Sì, padrone».
«Sai chi è che lo suona?»
«Non lo seppi mai».
«Credi tu che il suonatore abbia relazione coi misteriosi abitanti di Raimangal?»
«Lo credo».
«Chi sospetti che siano quegli uomini?»
«Sono poi uomini?»
«Non credo che siano le anime dei morti».
«Allora saranno pirati», disse Aghur.
«E quale interesse possono avere, per assassinare i miei uomini?»
«Chissà, forse quello di spaventarci e di tenerci lontani».
«Dove supponi che abbiano le loro capanne?»
«L’ignoro, ma oserei dire che ogni notte si radunano sotto la fosca ombra del banian sacro».
«Sta bene», disse Tremal-Naik. «Kammamuri, prendi i remi».
«Cosa vuoi fare, padrone?» chiese il maharatto.
«Recarmi al banian».
«Oh! Non farlo, padrone!» gridarono a un tempo i due indiani.
«Perché?»
«Ti ammazzeranno come hanno ammazzato il povero Hurti».
Tremal-Naik li guardò con due occhi che mandavano fiamme.
«Il cacciatore di serpenti non tremò mai in sua vita, né tremerà questa sera. Al canotto, Kammamuri!» esclamò egli, con un tono di voce da non ammettere replica.
«Ma, padrone!»
«Hai paura forse?» chiese sdegnosamente Tremal-Naik.
«Sono maharatto!» disse l’indiano con fierezza.
«Va’ allora. Questa notte io saprò chi sono quegli esseri misteriosi che mi hanno dichiarato la guerra: e chi è colei che mi ha stregato».
Kammamuri prese un paio di remi e si diresse verso la riva. Tremal-Naik entrò nella capanna, staccò da un chiodo una lunga carabina dalla canna rabescata, si munì di una gran fiasca di polvere e si passò nella cintola un largo coltellaccio.
«Aghur, tu rimarrai qui», diss’egli, uscendo. «Se fra due giorni non saremo ritornati, verrai a raggiungerci a Raimangal colla tigre o con Punthy».
«Ah! Padrone…»
«Non ti senti il coraggio bastante [35] per venire laggiù?»
«Del coraggio ne ho, padrone. Volevo dire che fai male a recarti in quell’isola maledetta».
«Tremal-Naik non si lascia assassinare, Aghur».
«Prendi con te Darma. Potrebbe esserti utile».
«Tradirebbe la mia presenza ed io voglio sbarcare senza esser veduto, né udito. Addio, Aghur».
Si gettò la carabina ad armacollo [36] e raggiunse Kammamuri, che lo attendeva presso un piccolo gonga, un rozzo e pesante battello, scavato nel tronco di un albero.
«Partiamo», disse.
Saltarono nel battello e presero il largo, remando lentamente ed in silenzio. Un’oscurità profonda, resa densa da una nebbia pestilenziale che ondeggiava sopra i canali, le isole e le isolette, copriva le Sunderbunds e la corrente del Mangal. A destra ed a sinistra si estendevano masse enormi di bambù spinosi, di cespugli fitti, sotto i quali si udivano brontolare le tigri e sibilare i serpenti, di erbe lunghe e taglienti, confuse, amalgamate, strette le une alle altre in modo da impedire il passo.
In lontananza, però, sulla fosca linea dell’orizzonte, spiccavano qua e là alcuni alberi, dei manghi carichi di frutta squisite, dei palmizi tara, dei latania e dei cocchi dall’aspetto maestoso, con lunghe foglie disposte a cupola.
Un silenzio funebre, misterioso, regnava ovunque, rotto appena appena dal mortorio delle acque giallastre che radevano i rami arcuati dei paletuvieri e le foglie del loto e dal fruscio dei bambù scossi da un soffio di aria calda, soffocante, avvelenata.
Tremal-Naik, sdraiato a poppa, col fucile sottomano, taceva e teneva aperti gli occhi fissandoli ora sull’una e ora sull’altra riva, dove udivansi sempre rauchi brontolii e sibili lamentevoli. Kammamuri, invece, seduto nel mezzo, faceva volare il piccolo gonga, il quale lasciavasi dietro una scia di una fosforescenza ammirabile, da far quasi credere che quelle acque corrotte fossero sature di fosforo.
Ogni qual tratto, però, cessava di remare, ratteneva il respiro e stava alcuni istanti in ascolto, chiedendo di poi al cacciatore di serpenti se nulla avesse udito o veduto.
Era di già mezz’ora che navigavano, quando il silenzio fu rotto dal ramsinga, che si fece udire sulla riva destra, ma così vicino, da sospettare che il suonatore si trovasse a un centinaio di passi di distanza.
«Alto!» mormorò Tremal-Naik.
Non aveva ancora terminata la parola, che un secondo ramsinga rispose al primo, ma ad una distanza maggiore, intonando una melodia malinconica, quanto era brillante e viva l’altra. La musica indiana si basa su quattro sistemi che hanno un’intima relazione colle quattro stagioni dell’anno ed a ciascuno di essi viene applicato un tono e modo particolare.
È malinconica nella stagione fredda, viva ed allegra nel ringiovanire della stagione, languida nei grandi calori d’estate e brillante nell’autunno. Perché mai quei due istrumenti [37] suonavano così contrariamente? Era forse un segnale? Kammamuri lo temeva.
«Padrone», diss’egli, «siamo stati scoperti».
«È probabile», rispose Tremal-Naik, che ascoltava attentamente.
«Se ritornassimo? Questa notte non fa per noi».
«Tremal-Naik non ritorna mai. Arranca e lascia che i ramsinga suonino a loro piacimento».
Il maharatto riprese i remi spingendo innanzi il gonga, il quale non tardò a giungere in un luogo dove il fiume stringevasi a mo’ di collo di bottiglia. Un buffo d’aria tiepida, soffocante, carica d’esalazioni pestifere, giunse al naso dei due indiani.
Dinanzi a loro, ad un tre o quattrocento passi, apparvero molte fiammelle che vagolavano [38] bizzarramente sulla nera superficie del fiume. Alcune, come fossero attirate da una forza misteriosa, vennero a danzare dinanzi alla prua del gonga, allontanandosi dipoi con fantastica rapidità.
«Eccoci al cimitero galleggiante», disse Tremal-Naik. «Fra dieci minuti arriveremo al banian».
«Passeremo col gonga?» chiese Kammamuri.
«Con un po’ di pazienza si passerà».
«È male, padrone, offendere i morti».
«Brahma e Visnù [39] ci perdoneranno. Arranca, Kammamuri».
Il gonga, con pochi colpi di remo, raggiunse la stretta del fiume e sboccò in una specie di bacino, sul quale si intrecciavano i lunghi rami di colossali tamarindi, formando una fitta volta di verzura.
Colà galleggiavano parecchi cadaveri che i canali del Gange avevano trascinato fino al Mangal.
«Avanti!» disse il cacciatore di serpenti.
Kammamuri stava per ripigliare i remi, quando la volta di verzura, che copriva quel cimitero galleggiante, s’aprì per dar passaggio a uno stormo di strani esseri dalle ali nere, i trampoli lunghissimi, i becchi aguzzi e smisurati.
«Cosa c’è di nuovo?» esclamò Kammamuri sorpreso.
«I marabù», disse Tremal-Naik.
Infatti un centinaio di quei funebri uccelli del sacro fiume, calavano, starnazzando giocondamente le ali, posandosi sui cadaveri.
«Avanti, Kammamuri», ripeté Tremal-Naik.
Il gonga spinto innanzi, e dopo una buona mezz’ora, attraversato il cimitero, trovossi [40] in un bacino assai più ampio, completamente sgombro, che veniva diviso in due bracci da una aguzza punta di terra, sulla quale spiccava un grandissimo e singolare albero.
«Il banian!» disse Tremal-Naik.
Kammamuri a quel nome fremette. «Padrone!» mormorò, coi denti stretti.
«Non temere, maharatto. Deponi i remi e lascia che il gonga s’areni da sé sull’isola. Forse c’è qualcuno nei dintorni».
Il maharatto ubbidì sdraiandosi sul fondo del canotto, mentre Tremal-Naik, armata per ogni precauzione la carabina, faceva altrettanto.
Il gonga, trasportato dalla corrente che facevasi lievemente sentire, si diresse, girando su se stesso, verso la punta settentrionale dell’isola Raimangal, sede degli esseri misteriosi che avevano assassinato il povero Hurti.
Un silenzio profondo regnava in quel luogo. Non si udiva nemmeno lo stormire dei giganteschi bambù, essendo cessato il venticello notturno, né le note dei ramsingo. Il fiume stesso pareva che fosse diventato d’olio.
Tremal-Naik, di quando in quando, però, alzava con precauzione la testa e scrutava attentamente le rive, per nulla rassicurato da quel silenzio. Il gonga si arenò, con un lieve strofinio, a un centinaio di passi appena dal banian, ma i due indiani non si mossero.
Passarono dieci minuti d’angosciosa aspettativa, poi Tremal-Naik ardì alzarsi. Prima cosa che gli diede nell’occhio, fu una forma nera, confusa, distesa fra le erbe, ad una ventina di metri dalla riva.
«Kammamuri», mormorò. «Alzati ed arma le tue pistole».
Il maharatto non se lo fece dire due volte. «Cosa vedi, padrone?» chiese egli con un filo di voce.
«Guarda laggiù».
«Eh!» Fe’ il maharatto, sbarrando gli occhi. «Un uomo!»
«Zitto!»
Tremal-Naik alzò la carabina prendendo di mira quella massa nera che aveva l’apparenza d’un essere umano sdraiato, ma l’abbassò senza scaricarla.
«Andiamo a vedere cos’è, Kammamuri», diss’egli. «Quell’uomo non è vivo».
«E se fingesse d’essere morto?»
«Peggio per lui».
I due indiani sbarcarono, dirigendosi quatti quatti verso quell’individuo che non dava segno di vita. Erano giunti ad una diecina di passi, quando un marabù si alzò rumorosamente volando verso il fiume.
«È un uomo morto», mormorò Tremal-Naik. «Se fosse…»
Non terminò la frase. In quattro salti raggiunse quel cadavere; una sorda esclamazione gli uscì dalle labbra contorte per l’ira. «Hurti!» esclamò.
Infatti quel cadavere era Hurti, il compagno dell’indiano Aghur.
L’infelice era disteso sul dorso, colle gambe e le braccia raggrinzate, probabilmente per lo spasimo, la faccia spaventosamente scomposta e gli occhi aperti, schizzanti dalle orbite. Le ginocchia erano rotte e insanguinate ed egualmente i piedi, segno evidente che era stato trascinato per qualche tratto sul terreno, forse quando era ancora agonizzante, e dalla bocca sbarrata uscivagli d’un buon palmo la lingua.
Tremal-Naik sollevò lo sventurato indiano per vedere in qual luogo era stato colpito, ma non trovò sul corpo di lui alcuna ferita. Esaminandolo però meglio, vide attorno al collo una lividura assai marcata e dietro il cranio una contusione, che pareva prodotta da una grossa palla o da un sasso arrotondato.
«L’hanno stordito prima e poi strangolato», diss’egli, con voce sorda.
«Povero Hurti», mormorò il maharatto. «Ma perché assassinarlo e in questo modo?»
«Lo sapremo, Kammamuri, e ti giuro che Tremal-Naik non lascerà impunito il delitto».
«Ma temo, padrone, che gli assassini siano molto potenti».
«Tremal-Naik sarà più potente di loro. Orsù, ritorna al canotto».
«E Hurti? Lo lasceremo qui?»
«Lo getterò nelle sacre acque del Gange domani mattina».
«Ma le tigri, questa notte lo divoreranno».
«Sul cadavere di Hurti veglia il cacciatore di serpenti».
«Ma come? Non ritorni tu?»
«No, Kammamuri, io rimango qui. Quando avrò sbrigato le mie faccende, abbandonerò quest’isola».
«Ma tu vuoi farti assassinare».
Un sorriso sdegnoso sfiorò le labbra del fiero indiano.
«Tremal-Naik è un figlio della jungla! Ritorna al canotto, Kammamuri».
«Oh mai, padrone!»
«Perché?»
«Se ti accade una disgrazia, chi ti aiuterà? Lascia che t’accompagni e ti giuro che ti seguirò dove tu andrai».
«Anche se io mi recassi a trovare la visione?»
«Sì, padrone».
«Rimani con me, prode maharatto, e vedrai che noi due faremo per dieci. Seguimi!»
Tremal-Naik si diresse verso la riva, afferrò il gonga a tribordo e con una violenta scossa lo rovesciò, calando a picco.
«Cosa fai?» chiese Kammamuri, sorpreso.
«Nessuno deve sapere che noi siamo qui giunti. E ora, a noi lo svelare il mistero».
Cambiarono la polvere alle carabine ed alle pistole, onde essere sicuri di non mancare al colpo, e si diressero verso il banian, la cui imponente massa spiccava fieramente nella profonda tenebra.