Capitolo 1

2274 Words
1 ROSA La cucina alle sei del mattino assomigliava un po’ a ciò che mi ricordavo degli incroci affollati di Chicago – piena di gente, rumorosa e leggermente pericolosa. Con dieci donne in casa, non c’era mai un po’ di silenzio, mai un po’ di pace. Era sempre la stessa storia, giorno dopo giorno. Dalia litigava con la signorina Esther su come si sarebbe dovuto cuocere il bacon. Petunia se ne stava alle spalle di Violetta e le acconciava i capelli biondi in un’altra fantasiosa creazione. Ortensia apparecchiava la tavola con un gran baccano di piatti, impaziente di mangiare. Lavanda sedeva al grande tavolo canticchiando tranquillamente tra sè mentre ricuciva un bottone. Iris e Margherita molto probabilmente stavano ancora dormendo o quantomeno la tiravano per le lunghe nel vestirsi per evitare le faccende mattutine. Io mi fermai e guardai quella baraonda, scuotendo la testa di fronte alla sensazione di claustrofobia che generava quell’ambiente. Non era cambiato nulla. Quella stanza non era cambiata sin dal primo giorno in cui eravamo arrivate tutte da Chicago sedici anni prima. A parte essere cresciute in età, non era cambiato nessuno: le nostre personalità erano variegate come al solito. Tranne la mia. Io ero cambiata. Perchè tutti mi davano fastidio? Perchè quella casa all’improvviso mi sembrava così piccola? Perchè le mie sorelle mi sembravano tanto irritanti? Perchè mi sembrava di soffocare? Volendo fuggire, lasciai cadere la manciata di legna che avevo tra le braccia nel cestino accanto alla stufa e tornai subito fuori, attraversando il prato e diretta alle stalle. Trassi dei respriri profondi inalando la fresca aria mattutina nel tentativo di calmarmi. Era troppo presto per essere nervosi, specialmente per via della semplice routine mattutina di sempre. «Rosa!» la voce della signorina Trudy arrivò fino a me. C’era più che un distacco fisico tra noi due: c’era una separazione emotiva. Mi fermai e mi voltai con un sospiro, ravviandomi i capelli ribelli dietro l’orecchio. La donna che aveva cresciuto otto bambine orfane, inclusa me, sollevò un fagotto. «Se non vuoi mangiare a tavola, almeno portati via qualcosa.» Aveva i capelli raccolti in una semplice crocchia sulla nuca, le striature grigie tra i suoi capelli rossi che riflettevano la luce del sole che stava appena spuntando sopra le montagne. Era ancora bellissima, nonostante le sottili rughe che dimostravano la sua età. Mentre salivo i gradini per prendere il cibo, scorsi della preoccupazione nei suoi occhi verdi, ma mi rifiutai di parlarne. Sentii l’odore di biscotti e di bacon e il mio stomaco brontolò. «Grazie,» risposi, con l’accenno di un sorriso a tendermi le labbra. «Dove te ne vai?» mi chiese lei, con voce calma e placida. Non urlava mai, non alzava mai la voce. Nessuno si allontanava senza dire dove volesse andare, dal momento che sia il ranch che tutto il Territorio del Montana che lo circondava era pieno di pericoli. «Seguirò lo steccato alla ricerca di punti che possano aver bisogno di essere riparati.» Non c’era alcuno steccato danneggiato. Lo sapevo io e lo sapeva anche la signorina Trudy, ma lei si limitò ad annuire leggermente, permettendomi di fuggire. Insicura di cos’altro dire, mi voltai per dirigermi verso le stalle. Non potevo dirle che fossi infelice, per quanto ero certa che lo sapesse. Dirlo ad alta voce mi avrebbe fatta sembrare un’ingrata. Lei e la signorina Esther fornivano una casa stabile e amorevole a tutte noi. Sarei cresciuta in una grande città, senza mai conoscere gli spazi aperti e il vasto cielo del Montana se non ci avessero rivendicate tutte, portandoci ad ovest. Quel pensiero mi fece prudere un punto sopra al cuore, il senso di colpa e l’irrequietezza che mi attanagliavano. A prescindere dalla profondità del suo affetto o dal legame che mi univa alle altre ragazze, io avevo bisogno di qualcosa di più. Avevo bisogno di fuggire. * * * «Qualunque cosa ti abbia fatto quello steccato, di sicuro adesso gli dispiace.» La voce profonda che mi arrivò alle spalle fu una tale sorpresa che mi colpii il pollice con il martello. Mi ero trovata ad un miglio dalla casa quando avevo deciso di sfogare un po’ delle mie frustrazioni sullo steccato. Il palo aveva un chiodo che fuoriusciva leggermente ed io avevo cominciato a batterlo, continuando a colpirlo anche dopo averlo risistemato nel legno. Lo stavo ancora martellando quando lui mi aveva colta alla sprovvista. Trassi un brusco respiro di fronte al dolore lancinante alla punta del pollice, tenendomelo alla base con l’altra mano. Mi lasciai sfuggire un paio di parole ben poco da signorina mentre facevo una smorfia, camminando in cerchio. «Chance Goodman!» urlai, la mia rabbia e il mio dolore forti e chiari. «Non ci si avvicina di soppiatto alla gente a quel modo.» Aveva dieci anni più di me e viveva sul ranch più vicino. I suoi genitori erano morti qualche anno prima e, con grande successo, lui aveva rilevato la loro proprietà, aggiungendo altro bestiame e rendendo perfino disponibili i suoi tori migliori per la monta. Quell’ultima cosa mi faceva sempre arrossire ogni volta che ci pensavo, dal momento che sapevo che cosa succedeva tra un uomo e una donna – la signorina Trudy e la signorina Esther erano state propietarie di un bordello in passato e avevano fatto quel discorsetto speciale a tutte quante – e mi ero sempre immaginata il volto di Chance nel pensare a certi atti. Avevo visto uno dei suoi tori e il... il coso che gli penzolava sotto al ventre e mi ero chiesta che aspetto avrebbe avuto Chance. Ce l’avrebbe avuto grosso anche lui? Sarebbe stato altrettanto aggressivo nel montarsi una donna? Mi si indurivano sempre i capezzoli e mi sentivo bagnare tra le gambe ogni volta che mi immaginavo uno scenario simile. Non c’erano altri uomini nel raggio di cinquanta miglia che fossero un esemplare tanto raffinato di maschio adulto quanto Chance Goodman. L’avevo pensato all’età di nove anni e lo pensavo ora che ne avevo diciannove. Aveva i capelli color cioccolato che teneva piuttosto lunghi. Era molto più alto di me; io gli arrivavo solamente alla spalla e la cosa mi faceva sentire... femminile. C’erano otto donne in casa che se ne andavano in giro pensando solamente a pizzo e nastrini mentre io ero più interessata al cuoio delle selle e alla marchiatura. Chance, però, mi faceva spesso desiderare di essermi pettinata i capelli o di aver indossato degli abiti che mi facessero sembrare più attraente, quantomeno ai suoi occhi. Non erano le sue spalle ampie o gli avambracci muscolosi che mi facevano battere forte il cuore ogni volta che lo vedevo. Non era il modo in cui una fossetta gli scavava sempre la guancia quando sorrideva. Non erano la sua mascella squadrata nè le mani grandi quanto i suoi occhi scuri ad attirarmi. Era l’unica persona che superava qualunque facciata avessi eretto per nascondere la mia vera natura. Era come se fossi costantemente esposta, come se ogni mia emozione e sensazione fosse trasparente come acqua di sorgente per lui. Non potevo nascondermi da lui, nemmeno quando, come in quel momento, me lo trovavo dritto di fronte. «Vieni, fammi vedere.» Mi prese la mano mentre mi voltavo verso di lui. Prima che potessi allontanarmi, lui la sollevò così da poterla osservare, poi, con mia totale sorpresa, si infilò il mio pollice ferito in bocca. Io spalancai la mia, sconvolta. Il mio pollice era dentro la bocca di Chance Goodman... ed era una bella sensazione. La sua lingua scorse sulla punta ferita, succhiandola come a volerne attenuare il dolore come avrebbe fatto col veleno di un morso di vipera. La sua bocca era calda e umida e il mio dito pulsava – così come altri punti – e non per via del martello. «Cosa... cosa stai facendo?» chiesi, le mie parole che fuoriuscivano in un borbottio confuso. Chance non mi aveva mai nemmeno toccata prima. Mi aveva porto i palmi intrecciati per sfruttarli come gradino in modo da montare a cavallo, ma non era stato nulla in confronto a quello. Il modo in cui i suoi occhi scuri catturarono i miei mentre la sua lingua mi scorreva sul pollice fu una novità. Delicato, possessivo, eccitante. Dio, era la cosa più carnale che avessi mai provato e si trattava solamente del mio pollice! Cosa mi sarebbe successo se si fosse preso altre libertà ancora maggiori? A quel pensiero allettante e molto spaventoso, ritrassi di scatto la mano. Lui avrebbe potuto facilmente tenersela, dal momento che era molto più forte di me, ma mi lasciò andare di sua spontanea volontà. «Meglio?» mi chiese. La sua voce era profonda e roca, mi ricordava delle pietre nel fiume. Io potei solamente annuire in risposta, dal momento che ero ancora agitata. «Penso che questa sia la prima volta che ti ho lasciata senza parole.» L’angolo della sua bocca si curvò verso l’alto e comparve la sua fossetta. Io mi misi le mani sui fianchi, ignorando il dolore. «Che cosa vuoi?» chiesi, il mio tono aspro. Il suo sguardo mi scorse su tutto il corpo, scrutandomi. Sospirò. «In questo preciso istante? Voglio sapere cosa c’è che non va.» «A parte il mio dito?» Sollevai la mano. «Niente,» borbottai. «Rosa,» disse lui, alzando la voce in quel suo irritante tono d’avvertimento. «Che c’è? Una ragazza non può avere dei segreti?» Lui inarcò un sopracciglio scuro. «Da quando ti consideri una ragazza?» Abbassò lo sguardo sui pantaloni che indossavo al posto della gonna o dell’abito di qualunque altra femmina. Quella frecciatina mi fece male, dal momento che non faceva che confermare le mie insicurezze di prima. Non pensava a me come ad una donna. Pensava a me come a... Rosa. La semplice Rosa con indosso i pantaloni. Quale uomo avrebbe mai potuto interessarsi ad una donna che avrebbe preferito indossare un paio di pantaloni piuttosto che pizzo e nastrini? Quale uomo avrebbe potuto desiderare una donna che prendeva a martellate i pali di uno steccato? «Da quando...» Chiusi la bocca. «Oh, al diavolo.» Gli diedi le spalle e mi allontanai a grandi passi. «Dalia ti sta di nuovo dando fastidio?» esclamò lui. «O Ortensia si è mangiata la tua colazione?» Sapevo che stava scherzando con me, dal momento che non prendeva mai in giro le altre ragazze. Era troppo un gentiluomo. Ciò non gli impediva di prendersi gioco di me. Quando la signorina Trudy e la signorina Esther ci avevano trovate, orfane dopo il grande incendio di Chicago, non sapevano come ci chiamassimo. Perchè avessero attribuito a tutte quante il nome di un fiore, non l’avrei mai saputo. Trasferirci nel Territorio del Montana era stato un modo per ricominciare daccapo tutte quante, specialmente per la signorina Trudy e la signorina Esther. Ben lontano dagli anni che avevano trascorso a gestire il bordello di una grossa città, avevano desiderato una nuova vita e l’avevano trovata nella periferia della città di Clayton. Eravamo tristemente note come i fiorellini del Montana ed eravamo sempre state considerate come un gruppo di otto, mai come individui. «Sono tutte le stesse. Non è cambiato nulla.» «Vuoi qualcosa di diverso, dunque?» Appoggiò un fianco al palo malconcio dello steccato, rilassato e a proprio agio con sé stesso mentre mi offriva tutta la sua attenzione. Vidi il suo cavallo in lontananza, la testa china a brucare l’erba. Un uccellino vi volò sopra, le sue ali ferme mentre cavalcava una corrente d’aria. «Qualcosa di diverso? Ovvio che voglio qualcosa di diverso!» Agitai le braccia per aria mentre parlavo. «Voglio essere indipendente, selvaggia. Libera! Non bloccata in una casa piena di donne che chiacchierano per tutto il giorno di acconciature e lunghezza delle maniche degli abiti. Voglio fare ciò che ha fatto la signorina Trudy – cavarmela da sola e scoprire una vita tutta nuova in un territorio lontano.» Lui mi lasciò sfogare con pazienza. «Che cosa hai in mente di fare?» «Non lo so, Chance, ma sto per dare di matto. Non lo vedi? Non appartengo più a questo posto.» Chinai la testa a quella confessione, dal momento che sentivo la vergogna e il senso di colpa appesantirmi il cuore. La signorina Trudy e la signorina Esther avevano fatto così tanto per me, per tutte le ragazze, ed io stavo buttando via tutti quegli anni e tutto quell’amore. Premetti ancora una volta quel punto sul mio petto mentre sentivo salire le lacrime. Sollevando la testa al cielo, tirai su col naso e le scacciai. Io non piangevo. Non piangevo mai e ce l’avevo con Chance per avermi fatta sentire a quel modo. Con le sue lunghe falcate, lui mi si avvicinò attraversando l’erba alta e mi sollevò il mento con le dita, costringendomi a guardarlo. Mi cadde il cappello dalla testa, restando appeso alla lunga corda che avevo attorno al collo. Il suo odore, un misto di pelle calda, abete e cuoio, era un qualcosa che associavo solamente a lui. «No. Non appartieni più a questo posto.» Non riuscivo a credere che fosse d’accordo con me. L’unica persona che mi ero aspettata avrebbe lottato per me – che fosse mia amica – era d’accordo con me. Voleva che me ne andassi. Tirai via il mento dalla sua presa e andai a grandi passi fino al mio cavallo, montando rapidamente in sella. Usando le redini per far voltare l’animale, lanciai a Chance Goodman un’ultima occhiata. Era il momento di voltare pagina; lui me l’aveva appena confermato. Mi faceva male il cuore, con la consapevolezza che non l’avrei mai più rivisto. Mi rimisi il cappello in testa, gli diedi un leggero colpetto con un dito in segno di addio e me ne andai. Non mi faceva più male solamente la punta del pollice, ma anche il cuore.
Free reading for new users
Scan code to download app
Facebookexpand_more
  • author-avatar
    Writer
  • chap_listContents
  • likeADD