ANTEFATTI
L'astio per il prozio era nato in Bruno più di vent’anni prima.
Era il 1963. Studente, aveva iniziato il secondo anno di Economia e Commercio, come s’intitolava allora la laurea economica torinese, in previsione d’unirsi al papà nella professione.
Un pomeriggio sul tardi, inaspettatamente, suo padre, agente di borsa, era stato contattato per telefono dal cavaliere, che gli aveva chiesto di fissargli un appuntamento in studio "per importanti comunicazioni circa lo splendido futuro che voglio preparare a mio nipote, cioè a tuo figlio".
Il papà era rimasto divertito e insieme sconcertato da quella telefonata, per l'artificiosa burocratica espressione usata dal parente e perché gli pareva ridicola l'idea che "da quell'artigiano", e non dallo studio professionale, potesse venire "uno splendido futuro" al suo ragazzo.
Alla morte della moglie, quando il bimbo aveva solo tre anni, il dottor Seta aveva promesso di non risposarsi e dedicarsi a Bruno soltanto; ma, non riuscendo a seguirlo a sufficienza negli studi, s'era costretto a metterlo in collegio sin dalla quarta elementare. Benché liberale agnostico, aveva scelto, per la sua buona fama, "un serio istituto di religiosi" dove sapeva che il figlio sarebbe stato seguito bene: "...ma solo fino alla licenza media inferiore!". Adolescente, l'aveva liberato e iscritto alle sue venerate scuole laiche; ed era stato nelle superiori, a causa di atei maestri, che Bruno aveva perso la fede in Dio.
Avendo dunque dedicato al figlio, al meglio di quanto potesse, la sua propria vita, papà Seta era rimasto apparentemente divertito, e in fondo dispiaciuto, che altri improvvisamente si proponesse quale fattore del futuro di Bruno.
Quel parente d'acquisto, che in matura età aveva sposato la zia della defunta madre di Bruno, verso la fine degli anni '40 del XX secolo aveva creato un'aziendina artigianale di giocattoli: lui e un paio di dipendenti. Poiché le due famiglie non si frequentavano, nient’affatto si sapeva che, sull'espansione economica degli anni '50 e primi '60, il cavaliere avesse ingrandito l'impresa fino a divenire industriale del giocattolo e degli stampati plastici con quasi duecento operai e un fatturato assai grande.
Troppo avanti negli anni, i coniugi non avevano avuto figli, e proprio per questo l'imprenditore aveva contattato il papà di Bruno.
Non appena ricevuto dal dottor Seta, il cavaliere aveva esordito: "Io non ho eredi, nemmeno lontani parenti. Non voglio che alla mia morte la fabbrica vada allo Stato, perché dove mettono le mani quelli, va tutto in malora; e mia moglie, se pure mi sopravvivesse, non sarebbe in grado di gestirla. Per lei, ho già provveduto: un usufrutto enorme, pari a un terzo del reddito dello stabilimento," – qui s'era interrotto per un attimo, aspettando di cogliere uno sguardo d'ammirazione del Seta – "ben inteso, alla mia morte". Intanto, aveva messo una mano in tasca a toccare, così più avanti si sarebbe dedotto, un suo chiodo: come Bruno avrebbe poi saputo, l'uomo, superstiziosissimo, considerava quell'oggetto il portafortuna di tutta la sua vita.
Aveva proseguito: "Voglio che il mio nome, nella mia ditta, resti a mia memoria nei secoli!"
Il dottor Seta per poco non gli aveva riso in faccia: Magari più dell'impero romano aveva, solo, pensato, e avrebbe ripetuto al figlio. Era riuscito, tuttavia, a rimanere serissimo.
L'altro, intanto: "La mia industria è ormai formidabile. Rende un mucchio di soldi, altro che il tuo studiolo!"
Proprio così aveva detto, studiolo; ma, come nel suo carattere, il padre di Bruno era rimasto impassibile, pur pensando: "Il solito bifolco" e, tendendogli la mano per congedarlo, gli aveva risposto: "Dovrò chiedere al ragazzo, è lui che deve decidere. T’informerò quanto prima."
L'altro aveva storto la bocca in un mezzo sorriso e una mezza smorfia, come a intendere: "Adesso sono i ragazzini a decidere? Con un'offerta così!" e se n’era andato; però, giunto alla porta dello studio s'era girato e, guardandosi prima attorno per assicurarsi d’avere l’attenzione delle impiegate, aveva soggiunto: "Rammenta: Bruno dovrà impegnarsi per iscritto, anche per i suoi eredi, che la fabbrica si chiamerà, per sempre, col mio nome: Industria Cavalier Olindo Pittò!"
L'uomo, notorio ateo, s'era illuso di sopravvivere nell'intestazione della sua ditta.
"Cosa ne penserebbe il Foscolo?" ne aveva poi scherzato col figlio, dopo averlo informato, il dottor Seta citando il poeta dei Sepolcri, che molto amava; e aveva concluso: "Tu, intanto, pensaci, perché la proposta è interessante; e tieni presente che potresti prendere lo stesso la laurea, lavorando e studiando dopo cena sui libri; la testa e la grinta, le hai."
Il papà aveva già chiesto informazioni sull'azienda Pittò, che erano state ottime. Dopo alcuni giorni l'offerta era stata verbalmente accettata, ma col patto che non soltanto per testamento, sempre revocabile, Bruno avrebbe acquisito i suoi diritti ma, di lì a due anni, la ditta individuale sarebbe stata trasformata in società per azioni e al giovane, che avrebbe lavorato gratis, si sarebbe intestato il dieci per cento della proprietà; quindi, il due per cento a ogni biennio fino a raggiungere un terzo delle azioni; il resto sarebbe venuto, per lascito testamentario, alla morte del cavaliere. Per evitare al figlio un impegno irrinunciabile, e considerando che la maggiore età si raggiungeva a quei tempi solo a ventun anni, il padre aveva preferito che si rimanesse, per il momento, sulla semplice parola, senza atti scritti.
Il carattere dell'industriale era venuto quasi subito in luce. Sebbene sapesse esprimersi con proprietà, grazie forse a molte letture e, di certo, alle rigorose scuole elementari d’un tempo, era rozzo più di quanto le descrizioni di papà Seta avessero lasciato supporre, prepotente coi sottoposti e umilissimo coi potenti, fra i quali includeva gli industriali più ricchi di lui. Per Seta figlio, educato alla libertà e al rispetto per il prossimo, la comunanza era stata difficile.
Bruno era entrato in fabbrica in quello stesso '63, accompagnato dal Pittò, il primo un poco intimidito, l'altro, l'industriale, tronfio ma disponibile, e sarebbe stata l'unica volta, con l'aria d'un sovrano che mostrasse, compiacendosene altamente, il proprio regno al principe ereditario.
Dopo averlo condotto e ricondotto per ogni luogo dello stabilimento, il prozio l'aveva presentato – "Mio nipote, l'erede" – ai due dirigenti dell'opificio, quello tecnico, il signor Tirlotti, bi-diplomato perito chimico e perito industriale e con la testa d'un ingegnere, ma paga più bassa, e quello amministrativo, il dottor Fringuella, un alto stempiatissimo scapolo cinquantenne un po' gibboso e magrissimo, giallognolo di pelle e con un enorme naso che pareva sempre avvinazzato e, nell'ultimo tempo della permanenza di Bruno in fabbrica, lo sarebbe stato sicuramente, con aggravamento della sua conclamata malattia di fegato. Il Fringuella, da poco più di otto mesi, sbucando dal buio di precedenti professioni e contento del non pingue stipendio, era stato assunto dal padrone al posto di un certo Dialzi. Il suo predecessore era stato licenziato in tronco "per aver rubato", ma giammai, stranamente, denunciato all'autorità giudiziaria, sebbene gli ammanchi fossero stati di cento milioni di lire di quegli anni1 . Inoltre, e ciò era anche più strano, l'uomo aveva continuato, e seguitava, a presentarsi quasi ogni mese in azienda chiedendo e ottenendo di parlare col cavaliere. Si sospettava, per alcune spiate dietro la porta da parte del Fringuella, che l'industriale elargisse all'altro somme di denaro. La certezza era venuta finalmente una volta che, apposta, nulla fingendo, il direttore amministrativo era entrato nella stanza e, scusandosi per il disturbo, aveva colto il Pittò pagare il Dialzi. Appena l'altro s'era congedato, il principale, rosso in volto, s'era avvicinato al dottore e aveva biascicato, come a scusarsi – ma chi avrebbe potuto credergli? –: "Dopotutto, fa pena, no?"
Ricatto?
Intanto, da voci pettegole di fabbrica, soprattutto dal Fringuella, il giovane aveva presto raccolto le poche notizie disponibili sul Dialzi. Questi, orfano d'entrambi i genitori, sedicenne era stato assunto dal cavaliere nella sua neonata azienda artigiana, come tuttofare, paga quasi inesistente, vitto e alloggio in laboratorio. Lavorando senza badare a orari e a guadagni e adulando alquanto il cavaliere, ch’era uomo sensibilissimo alle lusinghe, era salito di grado, parimenti all'ingrandirsi della ditta, anche perché, certamente intelligente, studiando di sera era riuscito a diplomarsi ragioniere. Era dunque divenuto direttore amministrativo della Pittò, ma con stipendio da semplice impiegato. Una delle cose che, contro la giustizia, il cavaliere apprezzava di più era che un dipendente costasse meno della funzione che ricopriva e, insieme, non se ne lamentasse. Non capiva che ciò poteva significare minore competenza, o difficoltà a trovare un posto per l'età non più verde, così come per il Fringuella, col rischio, quindi, d'un minor attaccamento al lavoro se non di rancore per lo sfruttamento subito. Infine, quella lesina poteva, persino, costituire un'involontaria istigazione a rubare e proprio così, Bruno pensava, poteva essere stato per il Dialzi, come illecita integrazione, sia pur eccessiva, dell'inadeguato stipendio. Solo il direttore tecnico, coi suoi due diplomi ma nessuna laurea, era contento della propria paga, inferiore a quella d'un ingegnere ma superiore allo stipendio d'un perito; e soddisfattissimo era di lui il cavaliere perché quell'uomo, appassionato della sua professione, trovava soluzioni e proponeva innovazioni che si rivelavano sempre a puntino. Aveva, tra l'altro, creato una polvere che, mescolata all'acqua, formava una sostanza spalmabile e modellabile, utilissima agli appassionati di trenini e ai modellisti in genere per costruire plastici; infatti, ben presto asciutta, diveniva durissima, capace di sostenere pesi molto gravosi pur quando stesa in sottili strati. Per quel solo scopo il cavaliere l'aveva fabbricata e messa in vendita, sebbene il prodotto, peraltro mai da lui brevettato, si prestasse di certo a più vasti e utili usi. Il Pittò l'aveva battezzato, con titanica espressione: Polvere per costruire montagne; molto se ne vendeva a ingrossi e negozi di modellismo e giocattoli, in Italia e all'estero, e veramente un buon guadagno aggiunto ne era venuto, essendo basso il costo di produzione e non avendone avuto il perito Tirlotti alcun compenso extra, perché "aveva creato in orario di lavoro e con le attrezzature della fabbrica."
Bruno, che nessuna paga riceveva, avrebbe dovuto essere tra i collaboratori più apprezzati dal titolare zio e, per la verità, così era stato all'inizio. Inoltre, aveva goduto d'un singolare privilegio: il Pittò, il primo giorno, dopo la visita della fabbrica, l'aveva ricevuto nel suo ufficio e, sedutosi sulla dirigenziale poltrona dietro la presidenziale scrivania, innanzi a lui Bruno in piedi e quasi sugli attenti, gli aveva indirizzato un fervorino improvvisato di benvenuto e l'aveva autorizzato, unico in fabbrica, a non chiamarlo cavaliere, ma semplicemente zio. Il giovane così avrebbe fatto spontaneamente anche senza quel beneplacito ma, per la forma, gli aveva detto: "Grazie"; e l'altro ne era rimasto tutto compiaciuto, come chi avesse elargito chi sa che; ma aveva soggiunto: "Naturalmente, parlando di me con gli altri, non dirai mio zio ma il cavaliere." L'aveva, quindi, affidato alle cure del dottor Fringuella e nominato seconda autorità dell'ufficio amministrazione, scrivania appena più piccola di quella del direttore e che portava una gran targa con inciso Bruno Seta - Vicedirettore amministrativo; questo, invero, aveva fatto provare al giovane apprendista un non piccolo piacere. Purtroppo il cavaliere, sempre desideroso di risparmi, circa due anni dopo si sarebbe lasciato scappare con l'ormai esperto Bruno: "Così terremo solo te e manderemo via quel mangiapane a tradimento del Fringuella", e proprio mentre quell'altro, forse già sospettando, era lì a due passi, dietro la porta, ad ascoltare. Invano il giovane aveva poi rassicurato il dottore che lui non ci pensava neanche di prendergli il posto; da quel momento, e non per sua colpa, l'avrebbe avuto per nemico.
Oltre alle mansioni di vertice, quasi ogni giorno ce n'erano state altre, assai meno nobili ma che il titolare ben più apprezzava. Per non mantenere due furgoni con autista, di cui uno sarebbe stato usato solo parzialmente, per le consegne minori lo zio s'era comprato a suo tempo un macchinone familiare perché servisse, oltre che di rappresentanza, a consegne di merce nella zona, a cui lui stesso aveva provveduto fin all'arrivo del nipote, ma rischiando, negli ultimi tempi, non pochi incidenti per il recente accecamento d'un occhio dovuto a una cataratta mal operata. Dunque, Bruno aveva avuto, al suo posto, l'incarico di fattorino di complemento in Mercedes Benz. Per buona misura, il cavaliere gli aveva conferito la mansione di suo autista personale. Infatti l'altro corriere dipendente, prima adibito, con cappello da chauffeur, anche a tal compito, e in ore che avrebbero dovuto invece essere libere, non avendone mai avuto compenso straordinario s'era infine lamentato col Fringuella, che l'aveva sostenuto col principale. Allora, il Pittò aveva trovato la semplice e immediata soluzione di nominare il gratuito nipote a quel posto: "Prova se ti va bene il berretto di quel pelandrone", gli aveva ordinato con noncuranza, porgendoglielo.