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LAVANDA
Avrei dovuto ascoltare il sermone del prete, dal momento che era un oratore piuttosto abile. L’argomento di quella mattina sul perdono mi sarebbe stato sinceramente d’aiuto, ma la mia mente era diretta altrove. Dio non poteva davvero biasimarmi, dal momento che Jackson Reed era seduto sulla panca di fronte a me. Per via della sua stazza, non riuscivo a vedere il prete senza chinarmi verso sinistra e scontrarmi con la testa di Ortensia. Avrei potuto semplicemente chiudere gli occhi e lasciare che la parola di Dio mi scorresse dentro, ma invece approfittavo dell’occasione che Dio mi stava concedendo per rifarmi gli occhi con l’uomo che aveva attirato per primo la mia attenzione nell’istante in cui aveva messo piede per la prima volta sul nostro ranch.
In nessun altro momento avrei potuto starmene seduta a fissare spudoratamente Jackson, specialmente da così vicino, dal momento che non solo se ne sarebbe accorto, ma lo stesso sarebbe valso per le mie sorelle – le sei che ancora vivevano a casa – sedutte tutte in fila lungo la panca ai miei lati. Mentre io cercavo di guardarlo di nascosto, le mie sorelle non erano altrettanto discrete. In effetti, spesso si accalcavano ad una finestra della casa a gruppi di due o tre se lui si trovava nei paraggi.
Jackson aveva i capelli molto chiari, tagliati corti ai lati e un po’ più lunghi in cima. Li teneva pettinati con una riga a destra e, per quanto non riuscissi a vederglieli, sapevo che gli ricadevano sulla fronte. Erano segnati dal cappello che si teneva in grembo. La pelle sulla sua nuca era abbronzata e, quando si voltava leggermente di lato, riuscivo a scorgere la sua mascella rasata. Ne conoscevo i lineamenti squadrati così come la lunga linea del naso, le sopracciglia folte e gli occhi azzurrissimi. Aveva degli occhi che, quando li puntava su di me, non vedeva solamente me, ma dentro di me. Era decisamente snervante e, ogni volta che Jackson mi parlava, mi si annodava la lingua e diventavo tutta agitata.
Ecco perchè mi concedevo quell’ora per assimilare tutti i dettagli che altrimenti non avrei notato. Di sicuro Dio mi aveva concesso quell’occasione di proposito. Osservai il tessuto morbido e blu della sua camicia di flanella che sicuramente si abbinava ai suoi occhi, i peli chiarissimi sui suoi lobi, visibili quando il sole che attraversava le finestre della chiesa cadeva su di lui alla giusta angolazione. Quando inspiravo, riuscivo a cogliere un accenno del suo odore. Menta e cuoio.
Una gomitata da parte di Ortensia interruppe i miei pensieri. Agitò le sopracciglia e piegò la testa in direzione di Jackson, dicendomi silenziosamente quanto lo trovasse attraente. Non c’era bisogno di parole, dal momento che lei, Violetta ed Iris ne avevano sprecate abbastanza sul suo conto da quando era arrivato due mesi prima. In tutta risposta, io afferrai il mio innario dal retro della panca di fronte a me e lo aprii alla pagina indicata dal prete. Quando il pianoforte cominciò a suonare, non furono le parole della canzone a catturare la mia attenzione, ma il forte baritono di fronte a me che le cantava. Avevo appena scoperto una cosa nuova su Jackson Reed: sapeva cantare molto bene.
Quando la messa finì poco tempo dopo, ci alzammo e Ortensia si chinò per sussurrarmi all’orecchio. «Hai la minima idea di cosa parlasse il sermone?» Ridacchiò ed io mi accigliai. Attesi che Violetta, dall’altro mio lato, si spostasse in corridoio così da poterla seguire.
«Jackson, avete trovato il sermone istruttivo?» chiese Violetta. Lei non era timida quando si trovava con quell’uomo e non esitava ad attirarlo in una conversazione, palesando il proprio interesse per lui. Era chiaro, quantomeno a me, che lui non ricambiasse affatto quel sentimento, ma le offriva delle risposte neutrali che non si sbilanciassero.
Lui guardò Violetta e sorrise. In quel preciso istante fui gelosa di lei, dal momento che le aveva rivolto un sorriso e lei non lo apprezzava. Lo desiderava, quello era praticamente certo, ma non comprendeva il valore delle attenzioni di Jackson.
«Ha qualcuno cui dovrebbe offrire perdono?» le chiese lui. Lei uscì in corridoio e lui allungò una mano facendomi cenno di seguirla. Il resto della panca delle Lenox ci seguì in corridoio e la conversazione si interruppe fino a quando non fummo nuovamente fuori.
«Io dovrei perdonare Violetta, dal momento che si è presa il nastrino che avevo in mente di aggiungere alla mia cuffia,» replicò Iris.
«Ha usato anche il mio sapone al lillà,» aggiunse Ortensia.
Violetta non sembrava minimamente pentita. «Sì, ma si è trattato di uno scambio. Ti ho dato un po’ di pizzo da aggiungere al tuo nuovo abito in cambio del nastrino.» Si voltò verso Ortensia e la indicò. «Quello non è il tuo sapone; era mio sin dall’inizio. L’ho ricevuto per il mio compleanno, quindi dovrei essere io a perdonare te.»
Le tre continuarono a parlare a vuoto, discutendo su chi avesse ragione, dimenticandosi di Jackson. Lui si limitò a sogghignare e ad andare a raggiungere suo padre, in piedi lì ai margini del gruppo. Anch’io me ne stavo ai margini, ma dall’altro lato. Una volta che tutti ebbero ringraziato il prete alla porta e ci ebbero raggiunti nel prato di fronte alla chiesa, la signorina Esther battè le mani per attirare la nostra attenzione.
Tra le due sorelle che avevano salvato otto orfane dalle conseguenze del grande incendio di Chicago, la signorina Esther era la più pragmatica. Non permetteva alcun battibecco, da parte di nessuno. Ecco perchè interruppe Violetta, Iris e Ortensia. «Voi tre.» Le indicò. «La signora Thomas ha bisogno di aiuto col cibo. Andate a trovare un modo per rendervi utili, e lontane l’una dall’altra.» Lanciò a tutte quante un’occhiata severa, e per quanto loro sembrassero vagamente mortificate, sussurrarono tra loro mentre si allontanavano in direzione del ruscello per il picnic organizzato dopo la messa. I grandi pioppi che seguivano il corso d’acqua serpeggiante offrivano l’unica ombra che si riuscisse a trovare nel raggio di miglia.
«Margherita e Petunia, voi dovete andare ad aiutare con i giochi per i bambini.»
Loro annuirono e se ne andarono facendo molte meno storie delle sorelle.
«Dalia, tu puoi aiutare noi a recuperare il nostro cibo dal carro.»
La signorina Trudy lasciò delegare tutti i compiti alla signorina Esther mentre il gruppo si voltava verso il nostro carro e i nostri cesti carichi di cibo che avevamo preparato per contribuire al picnic.
Il Grande Ed camminava fianco a fianco con la signorina Esther e tenevano le teste vicine parlando seriamente di qualcosa. Io mi resi conto di essere stata lasciata da sola con Jackson.
«Non avete bisogno del mio aiuto?» chiesi ad alta voce. Cercai di non far trapelare il panico mentre ponevo la domanda alla signorina Trudy. Lei si voltò verso di me e sorrise. «Abbiamo tutto sotto controllo. Tu hai lavato i piatti a colazione, per cui puoi goderti il picnic.»
Nel giro di un solo minuto, la signorina Esther aveva portato via l’intera famiglia Lenox come se fossimo state un reggimento dell’esercito, in tutta fretta, lasciandoci soli.
Il cuore mi batteva all’impazzata e mi sudavano i palmi delle mani dal nervoso. Guardai ovunque meno che in direzione del robusto uomo che avevo accanto. Mi schiarii la gola. «Buona giornata, signor Reed.»
Mentre stavo per voltarmi e fuggire, lui mi afferrò per una spalla – per quanto delicatamente – e mi fermò, facendomi girare. Era la prima volta che mi toccava a parte l’avermi aiutata a scendere dal carro un paio di volte, e la sua grossa mano fu molto calda, perfino attraverso il tessuto del mio abito. Trasalii a quel contatto, non perchè avessi paura di lui, ma piuttosto perchè avevo paura di me stessa.
«Oh, no, non lo farai, Lavanda Lenox.»
Io piegai indietro la testa e lo guardai da sotto l’orlo della mia cuffia. Si era rimesso il cappello e il suo volto era in ombra, ma riuscivo ancora a vedere i suoi occhi azzurri. «Non ho intenzione di lasciarti scappare questa volta.»
«Io... io non sto scappando,» protestai.
Lui rimosse la mano e si chinò così che ci trovammo faccia a faccia. «No? Fuggendo, allora. Speravo di condividere il tuo pasto con te, se solo tu mi invitassi a farlo.»
Io rimasi in silenzio. Era una strategia che avevo imparato molto tempo prima, dal momento che era spesso meglio tenere a freno la lingua piuttosto che parlare.
«Devo chiedermelo.» La sua mano sfregò sull’accenno di barba che aveva sul mento. Mi domandai che sensazione mi avrebbe dato sotto le mie dita. «Puzzo?»
Io spalancai gli occhi alla sua domanda. «Puzzare?» Non potevo dirgli che sapeva deliziosamente di menta o cuoio. Sarei sembrata ridicola.
«Ogni volta che ti sono vicino, tu ti agiti come un cavallo riottoso. Sto cominciando a pensare che magari c’è qualcosa che non va in me. Mi sono fatto un bagno solamente questa mattina, ma magari puzzo.»
Il pensiero di Jackson in una vasca, nudo e a sfregarsi il sapone sul suo corpo robusto, mi fece sudare il labbro superiore. Scossi la testa. «No, non puzzate.»
Lui sogghignò ed io trattenni il fiato. Era l’uomo più bello che avessi mai visto. Sapevo che altre donne pensavano che John Mabry, in paese, fosse di bell’aspetto, e forse avevano ragione, ma Jackson faceva sembrare quell’uomo insignificante. Sospirai tra me. Dubitavo che avrei mai trovato qualcun altro che mi facesse provare ciò che mi suscitava Jackson.
«Bene,» disse lui. «Allora ho fatto qualcos’altro?»
Io scossi la testa, dal momento che lui non aveva fatto proprio nulla. Regivo a lui come avevo sempre fatto, con tanta attrazione quanto leggero panico.
«Allora non sono io?» domandò.
Scossi di nuovo la testa.
«Bene. Ne sono molto sollevato, Lavanda.» Io feci un passo indietro, ma lui scosse la testa. «Non così di fretta. Se non sono io, allora sei tu.»
Mi portai una mano sul petto. «Io?» squittii.
Adesso ero veramente nervosa, dal momento che si stava avvicinando troppo alla verità. Per quanto bramassi le attenzioni che mi stava al momento riservando, non potevo permettergli alcun gesto formale di attrazione. Non potevo – non volevo – sposarmi e non era giusto che Jackson mi rivolgesse alcun genere di attenzione. Non ne ero degna. Ero sempre assalita dai sensi di colpa per il fatto di essere sopravvissuta, mentre la mia amica Jane era morta. Già solo quello mi bastava a impedirmi di godermi alcun genere di piacere. Lei era annegata nello stesso ruscello vicino al quale ci trovavamo, mentre io ero sopravvissuta. Eravamo entrate entrambe nell’acqua per rinfrescarci e giocare, ma ero stata io quella ad uscirne. Dalla tomba, Jane non poteva sposarsi, non poteva avere una famiglia, non avrebbe mai consociuto l’amore o il desiderio, la lussuria, nè nulla di reale. Se lei non poteva avere nessuna di quelle cose, allora non potevo farlo nemmeno io.
«Mi stai evitando ed io dovrei trovare scortese il fatto di venire snobbato, ma invece lo trovo allettante.»
Mi accigliai e, con mia sorpresa, lui sollevò un pollice per sfregarmi il punto della mia fronte su cui si formava una piccola V. Il suo sguardo sostenne il mio ed io non riuscii a distoglierlo. Avrei voluto, ma... proprio non potevo.
«Allettante?» Mi leccai le labbra secche. «Non capisco.»
I suoi occhi caddero per un brevissimo istante sulla mia bocca. «Tu non sei come le altre. La loro... infatuazione è palese e sciocca. Come tu ben sai, non è ricambiata. Per qualche motivo, devo trovare attraente l’unica donna che non vuole avere assolutamente nulla a che fare con me.»
Lui trovava me attraente? Quando avrebbe potuto avere qualunque delle mie sorelle o perfino chiunque delle donne maritabili in città? Era interessato a me? Doveva esserci qualcosa che non andava in lui, ma mentre lo guardavo, non riuscivo a trovare proprio nulla.
«Non ti comporti così con mio padre, con Jed Roberts o con Micah Jones. Solamente con me.»
Gli uomini di cui parlava erano gentili con me. Uno era il figlio del proprietario del mercato, l’altro un proprietario terriero che mi aveva accompagnata a casa dopo la messa un paio di mesi prima. Erano gentiluomini perfettamente educati e competenti, ma non erano Jackson. Loro non mi facevano sentire come lui. Ero stata felice di non aver provato nulla per loro, dal momento che in questo modo il mio cuore non era stato in pericolo. Ma Jackson... Lui aveva rovinato tutto.
«Vostro padre... e gli altri, sono molto gentili.»
«Ma certo. Gentili. Nessun uomo, tuttavia, vorrebbe essere considerato gentile dalla donna che corteggia. Tu mi tratti in maniera diversa – scappi nella direzione opposta quando mi vedi, nascondendoti tra gli alberi così da non farti scorgere.»
Arrossii furiosamente, dal momento che una volta mi ero nascosta dietro un albero per evitare alcun genere di confronto con Jackson. Avevo pensato che non mi avesse vista, ma invece l’aveva fatto, tenendo però la cosa per sè.
«Jackson, mi scuso se-»
Lui mi posò un dito sulle labbra, zittendomi. Trasalii sorpresa a quel tocco. La punta del suo dito era morbida ed io avrei voluto baciarla, far perfino saettare fuori la lingua per scoprirne il sapore.
«Non voglio delle scuse. Quello che voglio dire – che sembro metterci troppo tempo a farti capire – è che ti comporti in maniera diversa quando ci sono io, il che mi porta a credere che tu sia tanto intrigata da me quanto lo sono io da te.»
Spostò il dito ed io aprii la bocca per contraddirlo, ma lui parlò per primo.
«Ho intenzione di corteggiarti, Lavanda Lenox, e finirà come dico io. Le cose sono andate come volevi tu per troppo tempo. Non mi eviterai più. È arrivato il momento di scoprire cosa sia questo-» indicò noi due «-e di agire di conseguenza.»
Ero elettrizzata e pietrificata, lusingata e mortificata al tempo stesso. «Jackson, io non posso... non posso accettare le vostre attenzioni, nè quelle di nessun altro.» Abbassai lo sguardo sui bottoni della sua camicia, dal momento che erano parole difficili e non sarei riuscita a tirarle fuori se l’avessi guardato in quegli occhi sinceri. Non potevo essere felice perchè la morte di Jane era stata colpa mia. Quell’incidente mi pesava sulle spalle e non era un fardello che potessi cedere a qualcun altro. Per cui avevo intenzione di sostenerlo e di negarmi il piacere di una vita che non mi meritavo. «Non posso sposarmi. Non lo farò, per cui dovreste cercarvi una donna che sia interessata a quello. A voi.»
Sollevai brevemente lo sguardo su di lui e lo vidi sorpreso, ma anche un tantino arrabbiato. Aveva lo sguardo assottigliato e la mascella serrata. Forse semplicemente non gli piaceva sentirsi rifiutato. Non aveva importanza. Mi sentivo come se il mio cuore fosse stato gettato a terra e calpestato da una mandria impazzita. «Addio,» sussurrai, le lacrime che mi occludevano la gola che non mi permisero di dire altro.
«Lavanda,» gemette Jackson.
Io scossi la testa e i bottoni della sua camicia si appannarono man mano che gli occhi mi si riempivano di lacrime. Dovevo fuggire prima di mettermi in ridicolo.
«Elizabeth Seabury,» sbottai. «Lei è interessata a voi. Sono sicura che sarebbe felice di condividere il proprio pasto con voi.» Non attesi che rispondesse, girai i tacchi e fuggii, una cosa che sapevo fare molto, molto bene.