1.
Stasera Rashid mi vuole nuda. «Il tuo desiderio è legge» gli rispondo, come sempre. Mi spoglio in fretta. Se avesse voluto uno spogliarello l’avrebbe chiesto. Lui mi guarda dal divano, le braccia aperte, sullo schienale. Rilassato. Nella luce soffusa del salone i suoi occhi neri brillano come gioielli.
Quando sono nuda mi fa segno con la testa di salire sulla moto in esposizione su una pedana. L’arredamento di questa sala è ispirato ai classici della strada americani. Quella su cui salgo è una Harley degli anni ottanta.
Mi allungo sul sedile, il busto sul serbatoio e le mani strette alla forcella. Il cuoio duro tra le cosce mi fa sospirare, il metallo freddo a contatto con i seni mi fa indurire i capezzoli.
Sono eccitata. Sono sempre eccitata, quando Rashid mi guarda. Mi avrebbe scaricata da un pezzo se non sentisse che provo piacere. Non è un uomo facile da soddisfare. Se le cose non vanno come si aspetta, difficilmente si lamenta, ma alla fine ti volta le spalle. Non so neppure come faccio a saperlo. Non ne abbiamo mai parlato, è solo una cosa che so. Ovvia.
Credo che questa mia comprensione istintiva di quello che vuole sia il principale motivo della lunga durata del nostro rapporto: quasi tre anni. Potrebbe avere qualsiasi altra donna o quasi – e le ha – ma sono io quella che vive nel suo appartamento di Manhattan e che lo intrattiene la maggior parte delle sere, quando è negli Stati Uniti.
Ora si alza dal divano e si avvicina. Osserva per qualche minuto il mio corpo in esposizione.
Quando la sua mano si posa sulla mia schiena, non riesco a evitare di inarcarmi, di sollevare il sedere in un’offerta muta. Socchiudo gli occhi, il respiro accelerato, e nella gola mi nasce un suono simile alle fusa dei gatti. Voglio che mi tocchi. Che mi guardi. Che si ecciti grazie a me.
La mano di Rashid scivola fino al mio sedere. Preme verso il basso, facendo aderire il mio sesso al cuoio lucido della sella. Mi strofino lentamente, guardandolo. Lo vede che sto già godendo? Lo capisce che il mio grilletto è dritto, stimolato, e il piacere mi ha già bagnato la fica?
Si allontana. Non mi tocca come potrebbe. Come vorrei. Non sento i suoi polpastrelli sui seni o sulle cosce.
Quando torna verso di me si sta infilando un guanto. Sospiro più forte, sperando che mi tocchi dietro. Lo guardo in silenzio. Non imploro mai, finché non mi chiede di farlo. Be’, tranne rarissime eccezioni.
Ma stasera sono padrona di me. Il mio scopo è prima soddisfare lui, poi soddisfare me stessa, non viceversa.
Mi lubrifica dietro e io mi mordo le labbra per non gemere ad alta voce. Pregusto il piacere. I suoi occhi sono velati e distanti. Vuole vedermi impazzire di godimento, prima di concedersi.
Lo capisco come nessun’altra al mondo. È stato lui a dirlo, una sera in cui aveva voglia di parlare. Non succede molto spesso, non succede quasi mai.
Mi stuzzica dietro con la punta di un dito. La infila nel mio buchino, forzandolo lentamente. Gemo. Non riesco a stare in silenzio, quando fa così. Vedo che sorride.
Il piacere è sempre più forte, mentre lui mi fa dentro e fuori dal sedere con un dito. Ogni volta in cui entra, mi sento violata ed è questo a eccitarmi. Questo e la semplice tensione. Il mio sesso gocciola e io mi struscio con sempre più enfasi sul sellino. Schiaccio il mio clitoride, mentre il piacere anale si fa rovente.
Chiudo gli occhi, stringo forte la forcella e vengo. Vengo tremando, il corpo percorso da un’estasi quasi dolorosa, il sesso e il sedere che pulsano all’unisono.
Quando l’orgasmo di spegne Rashid non sfila il dito, anzi. Ne infila un altro. Brucia come fuoco. Faccio una smorfia di dolore e so che anche questo gli piace. Un pizzico di dolore lo accende – non per forza mio.
Mi tiene aperta, mentre con l’altra mano mi palpa un seno. Ah, il tormento. Il piacere e la bramosia.
Sale dietro di me. I suoi jeans mi accarezzano le natiche. Sento il suo corpo sul mio. Le mani sulle tette, il pacco sul sedere. Lo sento attraverso i pantaloni ed è pronto. La forma del suo membro è chiaramente percepibile e basta quella a farmi riempire la bocca di saliva.
Dio, il modo in cui mi stringe le tette... il modo in cui il suo corpo pesa sul mio...
Si slaccia i jeans e io mi inarco di più, gli struscio il sedere sul pacco, implorandolo silenziosamente di darmelo.
Rashid se lo tira fuori. Sento la forma conosciuta del suo glande sul buchino. Mi mette dentro tutta la punta con un unico movimento e io lancio un urletto. Brucia. Brucia e tira tutto, ma mi fa godere alla follia. Spero che mi affondi dentro, ma una parte del mio cervello sa che la posizione non lo consente. Si limita a tenermelo aperto e a spingere, schiacciandomi di più sul sellino. I miei gemiti sono disperati, ormai. Vorrei che mi scopasse forte come fa a volte. Vorrei che mi lasciasse dolorante e soddisfatta, distrutta e sazia.
Mi dibatto sotto il suo corpo. Ansimo e mugolo. Mi contorco di piacere.
E vengo, vengo di nuovo, contraendomi forte attorno alla sua cappella, bagnando il sedile sotto di me.
«Mmm... Polly» dice lui, la voce roca e lo stesso divertita. Gli piace vedermi capitolare così. Non resistere al piacere e venire troppo presto.
Mi prende per le cosce e mi tira su il sedere. Finisco a testa in giù o quasi, ho un capogiro. Lui si raddrizza e mi infilza sul serio, con foga. Il dolore è bestiale, ma lo sento grugnire come quando è vicino all’orgasmo, così mi mordo le labbra e lo aspetto, gli occhi invasi di lacrime. È grosso. È davvero grosso, non è una mia esagerazione. Mi sembra di rompermi e quello specifico tipo di dolore mi fa ricominciare a godere. A voce sempre più alta.
Mi finisce dentro quando la mia eccitazione sta ancora crescendo. Mi lascia andare, troppo spompato per continuare a tenermi in quella specie di posizione della carriola. Io scivolo da un lato e do una culata per terra.
Rashid ride, mi prende per un braccio e mi aiuta a rialzarmi. Ha la faccia sudata, i riccioli scuri attaccati alla fronte, la camicia chiazzata. Non si riallaccia i jeans, li tira su e basta. Scavalca la moto e mi prende per la vita. Ne ho ancora voglia, ma me lo tengo per me. In qualche modo lui se ne accorge lo stesso e dice: «Vuoi venire nel mio letto? Non ne hai ancora avuto abbastanza?».
Gli rivolgo un sorriso innocente. «Di te non ne ho mai abbastanza».
Emette una risatina divertita. Ondeggiamo allacciati per la vita lungo il corridoio che porta alla sua stanza.
«A volte penso che dovresti essere tu a pagare me» dice, spingendomi sul letto.
Ma so che scherza. Sa benissimo che se non mi pagasse me ne andrei.
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Mary Harvey Cornell già a diciott’anni sapeva qual era il suo obbiettivo nella vita: trovare un uomo ricco, ricchissimo, e sistemarsi a sue spese.
Era un’idea che veniva da lontano, se ne rendesse conto o meno.
Sua madre ci aveva provato prima di lei.
Ah, da giovane era stata uno schianto, Jennifer. Il tipo di ragazza che fa voltare gli uomini per strada, con il cuore spietato di un’orfana. Aveva aspettato di far voltare la testa giusta, quella di Melvin Cornell, imprenditore del tessile nato in South Carolina e trapiantato ad Atlanta.
Si era gestita con grande attenzione e alla fine aveva ottenuto quello che voleva. Più o meno. Il prematrimoniale che aveva firmato era svantaggioso, ma c’era un matrimonio. Jennifer era sicura di poter tenere Mel interessato finché voleva.
Il tempo era passato. Lei e Mel avevano avuto una bambina. Jennifer si era distratta.
Aveva dato troppe cose per scontate, sicura ormai di averlo in pugno, dopo quindici anni di matrimonio.
Ma le era andata male. Mel l’aveva scaricata e aveva scaricato anche sua figlia. Aveva sposato una donna molto più giovane, con cui aveva fatto un’altra figlia.
Mary Harvey non sapeva come fosse nascere poveri. Sua madre non si era mai persa in troppi dettagli, parlandole della sua giovinezza. Ma sapeva com’era nascere ricchi e diventare poveri: faceva schifo.
Dover cambiare quartiere e scuola, perdere tutte le amicizie, dover lavorare per mantenersi. Faceva schifo. Sua madre era caduta in depressione e si era attaccata a una bottiglia. Neanche quello le era piaciuto.
Prima dei diciotto anni aveva deciso quale sarebbe stato il suo obiettivo: trovare un uomo ricco, ricchissimo, e sistemarsi a sue spese.
Senza commettere gli errori di sua madre, però. Avrebbe capitalizzato i suoi anni migliori e si sarebbe tolta lo sfizio di essere lei a sparire, a un certo punto.
E aveva capitalizzato davvero.
Si era tenuta gelosamente stretto tutto quello che poteva vendere con profitto. Era bella come sua madre: alta, snella, la pelle perfetta, i capelli di una magnifica sfumatura rosso-miele, gli occhi viola e i lineamenti delicati. Le avevano offerto di fare la modella, quando era alle superiori. Le avevano offerto di sfilare e anche di recitare, se voleva.
Mary Harvey non voleva.
A ventidue anni aveva capito abbastanza cose del mondo da sapere come procedere. Non intendeva cercare un principe azzurro come Jennifer, intendeva trovare un acquirente.
Aveva messo all’asta la sua verginità.
Non era stato difficile. In internet trovavi di tutto e un suo amico le aveva mostrato come usare TOR. Nel deep-web si vendeva di tutto, la propria verginità era poca cosa.
Era stata un’asta abbastanza frequentata. Le sue foto promettevano molto.
Mary Harvey aveva esaminato con attenzione i profili degli acquirenti interessati.
C’era un industriale sessantenne che le faceva accapponare la pelle. Sembrava il tipo di individuo che non si sarebbe limitato a romperti l’imene. C’erano un paio di anonimi che aveva dovuto scartare per motivi di sicurezza. C’erano uomini ricchi che offrivano troppo poco, e Mary Harvey non stava cercando uno spilorcio, grazie tante.
Poi c’era un intermediario.
Scoprire chi rappresentava non era stato troppo difficile.
Mary Harvey aveva beccato un principe. Non un principe azzurro, questo era ovvio. E neppure un principe europeo. Aveva beccato un principe della categoria più comune: un principe saudita. La casa reale ne contava più di duemila, così aveva letto in internet. Tutti ricchissimi o quasi.
Tutti piuttosto bruttini e anche un po’ ridicoli, con quella tovaglietta in testa e la camicia da notte addosso, ma Mary Harvey sapeva che avere dei pregiudizi estetici era una debolezza. Per di più, doveva solo dargli la sua verginità, non tutta la sua vita. Per le marchette successive avrebbe trovato qualcun altro.
Vendette la sua prima volta a Rashid bin Muhammad al-Kabir e sperò di sopravvivere per godersi il ricavato.