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CRICKET
«Hai dieci minuti,» ringhiò Schmidt, cacciandomi tra le braccia un costume di scena. «Mettiti questo e torna fuori. Trova delle scarpe che ti stiano.» Indicò il pavimento alle mie spalle. I bassi della canzone in riproduzione nella sala principale arrivavano fino a lì, facendo vibrare il pavimento e le pareti sottili. Nell’aria ristagnava odore di birra stantia e fumo.
Mi guardai attorno esaminando la mia nuova realtà. Quel posto era piccolo, come un guardaroba un po’ esagerato. Un neon fluorescente da bar appeso al soffitto illuminava tutto con una luce forte. Ai miei lati c’erano due appendiabiti a rotelle, pieni di lingerie e completini striminziti. Pizzo rosso, lamé metallico luccicante, gonnelline da cheerleader e da scolaretta e dei top a mezzo busto. A terra c’erano diverse scarpe da zoccola con tacchi di minimo dieci centimetri, in vernice di tutti i colori.
Abbassai lo sguardo su ciò che mi era stato spinto tra le mani. Un completo da infermiera. Un abitino bianco – se così si poteva chiamare, con le maniche corte e l’orlo della gonna ancora più corto – con chiusure in velcro sul davanti invece dei bottoni. Sotto avrei dovuto indossare il pezzo sopra di un bikini bianco, costituito da due minuscoli triangoli, e un tanga abbinato, sempre bianco, con una croce rossa proprio sul davanti come se il mio inguine fosse stato l’unica fonte di sostentamento medico.
Mi si rivoltò lo stomaco al pensiero di cosa si aspettassero. Non potevo uscire là fuori e spogliarmi! Non riuscivo nemmeno a indossare quel completo.
«Non posso farlo,» dissi con tono di supplica. Per l’ennesima volta. Continuavo a ripeterlo da due ore, sin da quando mi avevano trascinata fuori dal mio appartamento.
«Non hai scelta, dolcezza.» Schmidt – immaginai fosse il suo cognome, ma era tutto ciò che sapevo di lui – era sulla cinquantina, aveva il fisico di un barile di whiskey e una sigaretta che gli penzolava costantemente dal labbro. Avevo visto la pistola che teneva nella cintura dei pantaloni. Nulla di insolito dal momento che ci trovavamo nel Montana e chiunque aveva un’arma, perfino le vecchiette, ma non pensavo fosse tanto per la sua protezione quanto più uno strumento per far eseguire i suoi ordini.
Sebbene non mi avesse messo nemmeno un dito addosso, sapevo che non avrebbe esitato a farlo se avesse voluto. Lo stesso valeva per il suo tirapiedi, Rocky. Specialmente dopo che mi aveva afferrata e trascinata fuori dal mio appartamento fino alla mia macchina. Non avevo avuto scelta e avevo dovuto guidare fino a quello squallido posto ai margini della città. Mi era passato per la mente di gettarmi fuori al primo semaforo, ma sapevo che non avrebbero fatto altro che trascinarmi di nuovo in auto, furiosi.
Forse sarebbe stato meglio se mi fossi buttata giù in un incrocio piuttosto che stare dove mi trovavo in quel momento. Non sarei riuscita ad aggirare Schmidt dal momento che era largo quasi quanto la porta, ma anche se ce l’avessi fatta, Rocky incombeva appena dietro di lui. E, con entrambi armati, non potevo rischiare. Non pensavo fossero degli assassini, ma non ci avrei messo la mano sul fuoco per quanto riguardava lo stupro. Il loro modo di persuadermi molto probabilmente prevedeva che mi mettessi in ginocchio o sdraiata.
«Ti ho dato i soldi che ti dovevo,» gli ricordai. Di nuovo. Le mie parole erano intrise di disperazione.
Lui rise, facendo correre il suo sguardo su di me, sui jeans e la semplice maglietta che indossavo. «Non con gli interessi.»
«Ho pagato anche quelli. Il venti percento.»
Lui sogghignò, scuotendo leggermente la testa come se stesse parlando con un’idiota. Magari lo ero, dal momento che mi trovavo nel retro di un sudicio strip club. «Dolcezza, ti ho già detto che è un interesse composto. Non l’hai studiato in quelle costose lezioni al college per le quali hai preso in prestito i miei soldi?»
Le lezioni di anatomia e di fisiologia che avevo seguito mi avevano insegnato come si sarebbe spezzato il suo crociato se gli avessi dato un calcio sul ginocchio come avrei voluto fare, ma non c’erano stati test riguardo al farsi fottere da un lurido strozzino. Ero stata così stupida a chiedere soldi a lui. Ero praticamente riuscita a vedere il diploma per il quale avevo lavorato così sodo, se non fosse stato per la nuova trasmissione dell’auto che mi aveva fatto subire una battuta d’arresto, a prescindere da quanti turni extra avrei svolto a lavoro.
Lui sogghignò, mostrando i denti gialli e storti. Mi aveva in pugno, ed io avevo la netta sensazione che l’interesse composto non si sarebbe mai estinto. Ero fottuta. Così dannatamente fottuta.
«Quel costume è speciale, scelto apposta per te dal momento che stai studiando per diventare infermiera e tutto il resto.»
Mi venne la nausea nel rendermi conto che si ricordava il motivo per cui gli avessi chiesto dei soldi. Non era stato per pagarmi della droga, cavolo! Si trattava del college, per migliorarmi, cazzo! Da quanto mi teneva d’occhio?
«Non so come si faccia uno spogliarello,» dissi, leccandomi le labbra secche e constatando i fatti. Ero a malapena capace a ballare: le mie amiche mi prendevano sempre in giro sostenendo che non avessi il minimo senso del ritmo.
«Ti togli i vestiti ogni cazzo di giorno,» controbatté lui. «Non è così difficile, e fintanto che metti in mostra quelle enormi tette e stuzzichi i ragazzi con una sbirciatina di figa sul finale, nessuno se ne accorgerà.»
Avevo le lacrime agli occhi. «Non l’ho mai fatto prima.»
«Dolcezza, sei l’Infermiera Vergine. Tutti adoreranno guardarti affrontare la tua prima volta là fuori. Dovrai farlo solamente fino a quando il tuo debito non sarà saldato.»
«Duemila dollari?» replicai io. «Sarebbe un interesse del cento percento e un sacco di spogliarelli.»
Lui sollevò una spalla nerboruta. «Puoi portarti dei clienti nel retro. Le lap dance pagano di più, specialmente se dai loro un bel finale.»
Dio. Sapevo cosa intendesse. Scoparsi degli sconosciuti o succhiargli il cazzo per dei soldi extra. Un bel finale per me sarebbe stato uscire da lì e non vederlo mai più.
«Puoi farmi vedere quanto sei brava dopo la chiusura.» Mi fece l’occhiolino e per poco non gli vomitai addosso.
Non ero vergine e mi piaceva il sesso un po’ selvaggio, ma non esisteva che facessi qualcosa con lui, o con chiunque altro in quel posto. Scossi lentamente la testa, sgranando gli occhi.
«Posso andare alla polizia,» aggiunsi, sebbene sapessi che quella minaccia era inutile.
Il suo sorriso si fece letale. «Dillo a qualcuno e succhiare cazzi per venti dollari non sarà l’unica cosa che dovrai fare. Spero ti sia piaciuto quel semestre di scuola. Il r******o è uno schifo.» Si limitò a sorridere. «Dieci minuti.»
Indietreggiò e sbatté la porta, facendo vibrare gli appendiabiti di metallo.
Io deglutii, lasciando che le lacrime scendessero. Merda, merda! Non potevo farlo. Non potevo starmene davanti ad una stanza piena di uomini sconosciuti a ballare, né tantomeno a spogliarmi. Mi ero già trovata nuda di fronte a qualcuno, ma era stato completamente diverso. Ero consenziente. Era stato divertente. Un po’ selvaggio. No, molto selvaggio. Ma questo?
Avevo dei soldi. Adesso. Non come all’inizio del semestre estivo quando li avevo presi in prestito da Schmidt. La settimana precedente, quando avevo ricevuto la lettera ufficiale nella cassetta della posta, non ci avevo creduto. Mio padre, che non avevo mai conosciuto, era morto e mi aveva lasciato dei soldi. Tanti. Ma se avessi detto a Schmidt dell’eredità, avrebbe voluto ben più dei duemila dollari. Non mi avrebbe mai più lasciata in pace ed ecco perchè gliel’avevo tenuto nascosto. Avrei voluto dirglielo, disperatamente, così da uscire da quella situazione, ma a quel punto, dubitavo che mi avrebbe perfino creduto.
Sono l’ereditiera della fortuna degli Steele.
Sì, come no. Aveva visto il mio appartamento, la mia macchina antiquata. Cavolo, gli avevo chiesto dei soldi in prestito. Nessun milionario aveva bisogno di chiedere soldi ad uno strozzino.
La porta si aprì ed io trasalii, il tanga scivolò giù dall’appendiabiti cadendo a terra. «Non ti stai cambiando.»
Rocky. Schmidt era sicuramente il capo e ci teneva agli affari. Non dubitavo che si scopasse le donne che lavoravano nel suo club, ma non era come Rocky. Rocky era tutto sguardi lascivi e volgari. Mano morta. Mi avrebbe presa subito se fosse riuscito a nasconderlo. E mi faceva molta più paura del suo capo.
Si chinò e raccolse il tanga così da farselo penzolare da un dito. «Posso darti una mano.» Il suo ghigno sudicio mi fece rivoltare lo stomaco.
«Sto per sentirmi male.» Mi misi una mano sulla bocca. Forse fu la mia espressione o il modo in cui ero probabilmente impallidita di colpo, ma lui indietreggiò subito e indicò la porta dall’altra parte del corridoio. Io corsi verso il bagno delle donne e mi infilai nel cubicolo in fondo, appoggiandomi al cesso ed emettendo conati.
La canzone cambiò ed io capii che il mio turno si stava avvicinando. Con una mano appoggiata sulla parete bianca tutta macchiata, ripresi fiato.
Visto che avevo finito, con lo stomaco che mi faceva male, mi rialzai, rendendomi conto che avevo ancora in mano l’appendiabiti con il costume da infermiera. Col cavolo che sarei riuscita a mettermelo.
«Cinque minuti,» urlò Rocky, battendo sulla porta. Mi aveva aiutato volentieri ad indossare il costume da infermiera sexy, ma di sicuro aveva messo un limite quando avrebbe dovuto tenermi indietro i capelli mentre vomitavo. Era rimasto in corridoio. Gliene fui grata.
Dovevo andarmene da lì, da quella situazione. Avevo preso in prestito dei soldi, sì. Sapevo, quando l’avevo fatto, che sarebbe stato probabilmente stupido, ma che avrei ripagato Schmidt fino all’ultimo centesimo. Per tempo. Avevo lavorato il doppio per riuscirci. Non avevo mai assunto droghe in vita mia, non avevo mai nemmeno bevuto. Non avevo mai fumato una sigaretta. Avevo visto così tante cose durante il tempo trascorso in affidamento da sapere cosa faceva quella roba alla gente e avevo imparato in fretta che nessun altro si sarebbe mai preso cura di me. Tutti i miei soldi finivano nelle bollette e nella scuola, così da potermi prendere la laurea infermieristica e uscire da quella vita scandita da uno stipendio a quello successivo.
Ma Schmidt voleva solamente fottermi, mandarmi in rovina. Farsi un po’ di soldi in più sfruttando chi, sfortunatamente, faceva affari con lui. L’avevo ripagato. Ero stanca di farmi sfruttare. Non ci sarei stata, non più.
Uscii dal cubicolo, guardandomi attorno. Piastrelle di uno squallido verde menta, uno specchio rotto. Non passavano abbastanza donne dallo strip club da rendere necessaria una ristrutturazione. Ma a differenza dello sgabuzzino, lì c’era una finestra. Piccola, ma pur sempre una vita d’uscita. Vi andai, trafficai con la chiusura, poi mi lanciai un’occhiata alle spalle. Rocky sarebbe potuto entrare in qualunque momento. L’avrebbe fatto, di sicuro, entro cinque minuti se non fossi uscita da sola.
Feci scattare la serratura rugginosa, posai i palmi sulla parte centrale della cornice e spinsi. Si mosse, ma la vernice era vecchia, il legno gonfio, per cui i miei sforzi produssero un forte scricchiolio di protesta. Lanciandomi un’altra occhiata alle spalle, mi chiesi se Rocky l’avesse sentito. Sperai che il volume alto della musica l’avesse nascosto. Un getto d’aria fresca mi investì dalla piccola apertura che avevo creato, spingendomi a spalancarla del tutto. Quattro centimetri di libertà e la mia adrenalina prese a pompare. La finestra era piccola, ma se fossi riuscita ad aprirla, avrei potuto passarci attraverso. L’avrei fatto, a qualunque costo. Spinsi e la aprii, sempre di più, fino a quando non fui in grado di infilarmici.
Mi dimenai, mi strinsi, mi spinsi e riuscii a passare attraverso l’apertura, mettendo le mani avanti per proteggermi la testa mentre cadevo per circa un metro fino a terra. Guardandomi attorno, cercai di capire dove fossi. Mi trovavo nel parcheggio, di fronte a me c’erano i bidoni della spazzatura, il che voleva dire che mi trovavo dal lato più estremo, lontano dall’ingresso. Non faceva ancora buio, saranno state forse le sette o giù di lì. Nonostante il parcheggio fosse per metà pieno, non c’era nessuno nei paraggi. Nessuno aveva assistito alla mia fuga. Dovevo solamente sperare che quel posto fosse troppo scadente per delle telecamere di sorveglianza, se non altro su quel lato dell’edificio.
Mi alzai, mi ripulii le mani sui jeans per togliermi il pietrisco, poi corsi verso la macchina. Avevo ancora la mia borsetta di pelle a tracolla. Con dita tremanti, tirai fuori le chiavi e mi guardai alle spalle per assicurarmi che Rocky non avesse ancora scoperto la mia fuga. Avevo solamente un altro minuto o due al massimo.
Una volta in macchina, pregai che partisse. Non mi vedevano molto come una minaccia, sapendo che avrebbero potuto intimidirmi – o farmi del male, se non fossi tornata notte dopo notte a spogliarmi fino a quando il mio maledetto debito non fosse stato saldato. Non avevano bisogno di tenermi in ostaggio per tenermi prigioniera.
Col cazzo. Non sarei tornata. Mai più. Dovevo andarmene da lì. Da quel parcheggio, da quella città. Accesi il mio rottame di macchina e uscii a razzo dal parcheggio, rallentando appena per svoltare in strada. Mi balzò il cuore in gola quando vidi la testa di Rocky spuntare dalla finestra aperta del bagno, lo sguardo omicida.
Non potevo tornare a casa, nemmeno per prendere dei vestiti o i soldi che vi avevo nascosto. Sapevano dove vivevo e non avevo dubbi che sarebbe stato il primo posto in cui mi avrebbero cercata. Non avrebbero fatto altro che prendermi e riportarmi al club, questa volta con un po’ più di rabbia e di aggressività. Probabilmente si sarebbero prima divertiti un po’ con me. Per fortuna quella sera mi avevano sottovalutata, ma sapevo che non l’avrebbero rifatto una seconda volta.
In periferia, premetti l’acceleratore fino in fondo, lasciandomi alle spalle gli edifici che si allontanavano sempre di più. Avevo bisogno di sparire. Nascondermi. Sapevo giusto dove andare.