1.
Sapemmo dell’incidente pochi minuti dopo che era successo. In quei primi momenti non fu chiaro se fosse stato un attentato terroristico o l’atto di un folle. Al Viscardi Building si diffuse soltanto la notizia che un’auto fuori controllo aveva investito diverse persone proprio davanti all’ingresso principale, sulla Settima Strada.
La polizia transennò tutto, ma Clide, del front desk, disse di aver visto il SUV attraverso la vetrata e che aveva buttato a terra come un birillo chiunque fosse vicino al bordo del marciapiede. Tremava e piangeva, quindi c’era da crederci.
Fu solo circa un quarto d’ora più tardi che capimmo la gravità dell’accaduto – e che ci riguardava da vicino. Tra le vittime c’erano Will Stout e Calinda Fierro, ovvero i due (potentissimi) assistenti del grande capo in persona.
Non li conoscevo bene. Il loro habitat, per così dire, era al penultimo e all’ultimo piano, ossia il piano di rappresentanza e quello dell’appartamento privato di Mr. Viscardi. Alla Epoch erano pochissimi quelli che potevano mettere piede al penultimo piano, il 41esimo, mentre al 42esimo, l’ultimo, per quel che ne sapevo entravano solo Will, Calinda, la fidanzata del capo Andrea Hassid e il personale di servizio.
Ma sto divagando. Conoscevo poco Will e Calinda, ma li avevo sempre trovati gentili e corretti. Data la loro posizione avrebbero potuto essere dei mostri – e ai piani alti i mostri non mancavano, credetemi – ma loro sembravano persone decenti. Entrambi belli da sembrare finti, eleganti, potenti, ricchi... e ciò nonostante anche capaci di farsi una risata o di dimostrarsi sensibili.
Ripensandoci, erano due alieni e che fossero entrambi morti investiti da un criminale prima dei quarant’anni era un’ingiustizia orrenda.
Stavo giusto riflettendo sulla caducità della vita, ancora un po’ sotto shock come tutti, quando fui convocata dal capo del personale, Mr. Verner.
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Prima di continuare, lasciate che vi faccia il quadro della situazione. La Epoch era un’azienda di comunicazione. Possedeva canali televisivi, radio, un servizio streaming in forte crescita e diverse altre testate che per brevità definiremo editoriali. Occupava quasi per intero il Viscardi Building, Settima Strada, Manhattan, anche se una “colonna” del grattacielo ospitava qualche appartamento di super-lusso e degli uffici esterni. La cosa non ci riguardava, perché avevano un ingresso separato. Sulla cima il grattacielo si restringeva un po’ e gli ultimi due piani erano il territorio personale di Mr. Viscardi, come ho già detto. Viscardi era anche il proprietario e il presidente della Epoch. Al 40esimo piano c’erano gli uffici del CEO e del suo staff, al 39esimo e 38esimo gli uffici del direttore generale e del suo staff.
Era lì che lavoravo io, una degli assistenti del direttore delle risorse artistiche.
Ero da poco tornata nel mio ufficio e fissavo il monitor del computer senza vederlo davvero, quando il telefono iniziò a squillare. Risposi con un gesto meccanico.
«Sì?».
«Katel Thomas, risorse artistiche?» chiese una voce sbrigativa che sul momento non riconobbi.
«Sì, chi mi cerca?».
«Sono Verner, del personale. Può presentarsi nel mio ufficio?».
Restai un po’ sconcertata. Verner era il capo del personale e di solito comunicava per interposta persona. Molto interposta, visto che era uno dei mostri di cui parlavo prima.
«Uh, certo. Quando?».
« Ora, dannazione».
E attaccò. Sbattei le palpebre un paio di volte. Verner era uno stronzo, okay, ma nemmeno lui era così incivile, ne ero sicura. Doveva essere sconvolto per la morte di Will e Calinda.
Presi il blazer e passai davanti all’ufficio del direttore delle risorse artistiche.
«Mi ha convocato Verner» dissi alla sua segretaria.
Ero stranita, un po’ come tutti.
«E che diavolo vuole?» chiese Linda.
«Non ne ho idea. Ma se il capo mi cerca digli che sono da lui».
«Okay, certo».
Le risorse umane erano parecchio più in basso di noi, sotto le redazioni delle News, al 33esimo piano. Scesi dall’ascensore che avevo quasi il fiatone, visto che per fare prima avevo corso per i corridoi. E siccome il mio culo era bello grosso, se correvo finiva che sudavo.
La segretaria di Verner mi fece segno di accomodarmi in una sala d’attesa, la celebre sala d’attesa in cui finivi se ti stavano per licenziare.
Iniziai a preoccuparmi.
Avevo fatto qualcosa di male? Commesso qualche errore, ricevuto qualche reclamo?
E anche: era mai possibile che Verner, nel caso, avesse scelto proprio quel momento per darmi il benservito? Con i corpi di due colleghi ancora caldi dopo essere stati investiti da un criminale, mentre eravamo tutti sconvolti?
Seduta sull’altro lato della saletta c’era una tizia più o meno della mia età, vestita più o meno come me, che aveva la faccia preoccupata come la mia. Licenziamenti in serie? Sul serio? Non c’erano altri momenti?
Mi calmai un po’.
Per quanto Verner avesse una pessima fama, non pensavo che si sarebbe spinto a tanto. Invece, probabilmente, era qualcosa di legato alla contingenza attuale. Ossia, Will e Calinda svolgevano un lavoro. Un lavoro importante e vitale. Qualcuno doveva averli rimpiazzati immediatamente e quel qualcuno aveva liberato a sua volta due posizioni, che forse erano già state riempite... o forse no. Forse era per quello che io e la ragazza tremante eravamo lì.
Osservai meglio la ragazza tremante. Era snella, viso anonimo un po’ pallido, capelli liscissimi di un castano ricco di sfumature (il genere di sfumature che sa farti un bravo parrucchiere), gonna a tubino e scarpe alte. Nel nostro mondo sessista e competitivo, rispetto a me partiva avvantaggiata.
Io ero un modello curvy, per così dire, solo che le curve le avevo solo al piano di sotto. Detta in termini un po’ meno carini, avevo un gran culone, fianchi davvero larghi e cosce che definire polpose è un eufemismo. Avevo pure un po’ di pancetta, ma tette quasi niente. Rispetto alla ragazza tremante, inoltre, avevo anche un’etnicità più precisa: carnagione olivastra, un naso greco, sopracciglia scure, labbra sottili e occhi quasi neri, con lunghe, lunghe ciglia. Nel complesso, se mi vestivo con intelligenza, potevo risultare carina. La ragazza tremante, con un completo anonimo, era comunque molto più “giusta” di me. A parità di qualifiche, Verner avrebbe sicuramente scelto lei. Era un pensiero un po’ deprimente, ma purtroppo vero.
La porta del suo ufficio si aprì e ne uscì un tizio in giacca e cravatta, l’equivalente maschile mio e della ragazza tremante. Alto, belloccio, abbronzato, un po’ anonimo e dall’aria affidabile. La sua espressione non esprimeva felicità, quindi pensai che non l’avessero preso, anche se non potevo saperlo.
«Merth? Entri» chiamò una voce dall’interno.
La ragazza tremante si alzò e andò incontro al suo destino.
Io restai lì, un quella saletta asfittica, senza una finestra, a guardare le pareti e il soffitto.
Chissà di che posto si trattava? Ero un’assistente, quindi doveva essere un posto da assistente. Feci qualche ipotesi, lo ammetto, anche se fare ipotesi mi procurava un certo senso di colpa nei confronti di Will e Calinda, che avevano liberato due ambite posizioni morendo. Che cosa orribile, eppure continuai a elucubrare, visto che non avevo altro con cui tenermi impegnata.
Dunque: due posti da assistente personale del capo. Probabilmente erano stati occupati in via provvisoria da qualche collaboratore del CEO e del direttore generale. Gente in alto, con una certa familiarità con il 41esimo piano. E siccome dalla morte di Will e Calinda a quel punto doveva essere passata meno di un’ora, non pensavo che la catena di sostituzioni fosse andata tanto in là. Il posto in merito al quale stavo per essere intervistata, in pratica, doveva essere sempre nell’ufficio del direttore generale, ma non più alle risorse artistiche. Forse direttamente alla direzione generale. Forse nell’ufficio stesso del direttore, che aveva uno staff personale di cinque o sei persone. Mmm... chi poteva essere salito, tra loro?
I miei ragionamenti non si spinsero oltre, perché la ragazza tremante uscì dall’ufficio di Verner. Non tremava più, aveva un’espressione disgustata. Non doveva essere andata benissimo.
«Thomas, entri!» mi chiamò il capo del personale, da dentro.
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Mi lisciai la gonna e andai. Porto sempre delle gonne a ruota, di satin blu, nero o antracite, perché minimizzano le mie cosciotte. Okay, le nascondono, per la precisione.
Verner non si alzò da dietro la scrivania, ma mi fece segno di sedermi. I capelli grigi, di solito ordinatissimi con la riga da una parte, erano un po’ scompigliati. La faccia carnosa e rugosa sembrava tesa.
«Lo sa perché è qua?» mi chiese, senza giri di parole.
«Suppongo per via della disgrazia appena avvenuta. Will e Calinda. Mr. Stout e Miss Fierro».
Aggrottò le sopracciglia, che erano cespugliose, scure, quasi minacciose. «Già, loro. Lei è alle risorse artistiche da...»
«Tre anni, signore».
«Buoni feedback, si impegna senza tirarsi indietro. Così dice il suo fascicolo».
Gli rivolsi un sorriso nervoso. «Ne sono felice».
«È anche riservata?».
Che domanda idiota. «Se non lo fossi si sarebbe già saputo, le pare?».
Verner grugnì. «È disponibile a un orario di lavoro elastico o prolungato?».
«Suppongo di sì» risposi io, un po’ cauta.
Lui fece un gesto scocciato. «In ogni caso non sarà per molto. È improbabile. Viscardi ha degli orari assurdi, ma ha anche un forte senso estetico. Per di più, i suoi nuovi assistenti vorrà sceglierseli da solo».
Aggrottai la fronte. Di che diavolo stava parlando?
Verner equivocò. «Oh, non si offenda. Lo saprà di non rispecchiare un canone di bellezza classico, per così dire». Si permise pure una risatina, il cafone. «Ma per qualche giorno Viscardi si accontenterà. È un individuo particolare, lo vedrà da sola. Tra le sue curiose abitudini c’è un amore per l’estetica quasi patologico».
«Per l’estetica?» ripetei io. Non capivo. O forse sì, ma mi sembrava impossibile.
«Può presentarsi a Mrs. Carter, 41esimo piano. Le darà lei tutti i dettagli. Si sbrighi, è già rimasto troppo a lungo abbandonato a se stesso!».
Mentre lo diceva si era alzato in piedi e io avevo fatto un mezzo salto indietro.
«O-ora?».
«Miss Thomas, al contrario degli altri candidati, lei sembrava intelligente. Non rovini l’impressione. Ora, certo!».
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Avevo fatto un’altra corsa, in pratica. Cosa non facilissima, sui tacchi alti che portavo sempre, nel tentativo di slanciare la mia figura. Quando arrivai da Mrs. Carter sbuffavo e sudavo.
Al 41esimo piano non c’ero mai stata, è ovvio. All’ingresso mi ero dovuta confrontare con due energumeni della security, che mi avevano fornito un pass provvisorio e indicazioni per trovare Mrs. Carter. La sua scrivania era davanti a una vetrata con vista mozzafiato tra i grattacieli di Manhattan. In quanto a lei, era una donna esile, sulla cinquantina, alta ed elegantissima, i capelli biondo-argenteo legati in uno chignon, il viso da nobile russa. Aveva anche gli occhi arrossati come se avesse appena finito di piangere.
«Miss Thomas, prego, si accomodi».
«Buongiorno» dissi io. Sospirai. «Cioè, no, è una giornata orrenda. E non ho ancora capito niente riguardo... al perché sono qua, in pratica».
Lei si irrigidì un po’. «Mi perdoni, di Will e Calinda preferirei non parlare».
«Certo».
«Il suo compito è solo salire da Mr. Viscardi e vedere se ha bisogno di qualcosa, qualsiasi cosa. E cercare di procurargliela in ogni modo possibile. Può riferirsi a me. D’altronde... sono la loro prima segretaria». La sua voce tremò, mentre lo diceva, e sul serio mi dispiacque per lei.
«Vedrò di cavarmela. C’è qualcosa che devo sapere?». Feci una pausa. «Immagino di sì, ma intendo: qualcosa di indispensabile?».
Mrs. Carter annuì. «La cosa più importante: Mr. Viscardi ha un disturbo. Non è un segreto, ma cerchiamo di non parlarne in giro. È gravemente fotofobico. La luce del sole gli fa molto male agli occhi. Per questo nel suo appartamento durante il giorno le finestre sono schermate: per carità, non le apra. Per lo stesso motivo Viscardi tende a seguire orari più serali. Quando c’è stato l’incidente... stava... dormendo». Di nuovo la sua voce tremò e Carter dovette trattenere il pianto.
«Capisco» dissi.
«Veda se vuole mangiare qualcosa. Tutti i numeri sono nello studio subito dopo l’ingresso». Un attimo di riflessione. «Può anche darsi che sia tornato a letto, in quel caso non lo disturbi. Risponda al telefono e non gli passi nessuno. È meglio che ora vada».
Annuii.
Solo dopo osai chiederle: «Da dove si sale?».
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Tutti noi finiamo per cedere agli stereotipi, anche senza volere. Viscardi abitava in cima a un grattacielo che portava il suo nome, era socio di maggioranza di una compagnia di telecomunicazioni, era attaccatissimo alla privacy e non compariva quasi mai in pubblico, ma ogni tanto lo faceva e in quelle circostanze rispecchiava il suo stereotipo. O questa era l’impressione perché in realtà che cosa ti dice della vita di una persona, una foto scattata durante una serata di gala?
Quello che mi aspettavo dall’attico di Viscardi e quello che mi aspettavo da Viscardi stesso era modellato su quello stereotipo. Uomo ancora giovane e ricchissimo, da anni impegnato in una relazione molto discreta con una conduttrice televisiva di rara bellezza. Che cosa puoi immaginarti, se non una casa sfarzosa, elegante, di design, invasa dalla luce speciale che a Manhattan illumina i piani altissimi dei grattacieli?
Ma tutte le tende erano chiuse, le finestre oscurate, e l’immenso appartamento si perdeva in un crepuscolo dato da poche applique dalla luce rosata. In quanto al design, non c’era neppure quello. C’era uno stile dominante. La tappezzeria aveva un disegno raffinato, ma antiquato, e i mobili erano di inizio Novecento. Sui mobiletti di noce dagli angoli arrotondati, paralumi Tiffany; sui pavimenti dalle mattonelle dai disegni sinuosi, tappeti come arazzi Liberty. E le stanze ampie, separate le une dalle altre solo da archi di bronzo dai disegni floreali.
Tutto era immerso in un silenzio fin troppo assoluto, come se la città e l’edificio sottostante fossero tagliati fuori. Mi chiesi per la prima volta da dove venissero i soldi di Viscardi e se quell’appartamento fosse rimasto com’era da quando il grattacielo era stato costruito, da suo nonno o chissà da quale predecessore.
Mi inoltrai per le sale silenziose, in penombra. L’aria aveva un buon odore di legno e coriandolo, i miei tacchi producevano un rumore che strideva con l’atmosfera. Mi fermai e mi sfilai le scarpe.
Che cosa aveva detto Mrs. Carter? Di fermarmi nello studio all’ingresso? Non lo ricordavo, ma comunque ormai non l’avevo fatto.
Trovai Florian Hiraeth Viscardi su un sofà di pelle verde, seduto con la schiena dritta, ma le spalle curve, le ginocchia unite e una mano sugli occhi, in una posa che sarebbe sembrata melodrammatica, se non fosse stata anche contorta e di sicuro scomoda. Immobile. Una statua esile, i capelli biondi e ondulati che gli coprivano la parte superiore del viso, una vestaglia cinese su dei vestiti scuri che non avrei saputo descrivere e ai piedi solo dei calzini di filo di scozia grigio antracite.
Quando l’avevo visto in foto, Viscardi mi era sembrato il classico uomo d’affari della Costa Est. I capelli tirati indietro, la mascella quadrata, le spalle larghe nel completo gessato, la pelle abbronzata. Dimostrava quarantacinque anni circa, che poi era la sua età.
Ma ora...
Ora era come scoprire che lo sfondo di un film è un fondale di cartapesta aggrappato a una fragile struttura di legno.
Viscardi abbassò la mano e mi guardò. Rispetto a quelle foto sembrava più giovane di un decennio, con la pelle pallida, il viso ossuto, il naso tagliente e dalla gobba accentuata. Capii che l’abbronzatura era trucco, nelle foto che avevo visto. L’uomo che avevo davanti non somigliava al classico uomo d’affari della Costa Est, sembrava il fotomodello di un servizio di moda unisex: ossuto, giovane e innocente. Un angelo un po’ stropicciato o il vampiro romantico di un manga giapponese.
Ma la cosa che ti colpiva più a fondo... gli occhi. Occhi blu e intensi, quasi febbricitanti, lucidi e addolorati, eppure magnetici.
«Chi sei tu?» mi chiese. La sua voce era bassa, più vecchia e virile dell’aspetto. Creava un contrasto che disorientava un po’.
«Katel Thomas, signore. Mi hanno mandata a vedere... non so, a vedere se potevo fare qualcosa per lei».
Viscardi abbassò la mano e se la posò in grembo accanto all’altra.
«Per me? Oh, no. Non ho bisogno di niente». Sospirò e si raddrizzò, senza ancora alzarsi in piedi. «Ma qualcuno deve occuparsi di loro, capisci? Non posso uscire, finché è giorno. Sono stati... collaboratori fedeli».
Era uno strano modo di metterla, ma vedevo che era autenticamente dispiaciuto.
«Ci penserò io, signore. Farò tutto il possibile».