Capitolo 1

2697 Words
1 Harper Barrett, Settore 437, Stazione di trasporto MedRec: Zenith, Ammasso Stellare Latiri Capelli scuri. Intensi occhi verdi. L’uomo che mi stava guardando dall’altra parte del bar era un sogno erotico in carne ed ossa. Solo che non era un uomo. Era un alieno. E quello non era un bar in mezzo a Los Angeles, dove ero cresciuta. Ci trovavamo sulla Stazione di Trasporto Zenith e ogni alieno nella stanza era alto quasi due metri, indurito dalla battaglia e incredibilmente forte. E i presenti erano quelli piccoli. Con il mio metro e settantacinque, sulla Terra mi ero sentita sempre alta. Troppo alta. Troppo bionda. Troppo carina. Troppo femminile per essere presa sul serio. Gli uomini mi vedevano, coi miei capelli biondi e una quarta di reggiseno, e subito pensavano che fossi un'idiota. Ma quell’alieno? Sembrava stregato. Decise di avvicinarsi a me. Non si fermò da persona ben educata. No, mi si fece vicino. Troppo vicino. “Non ho mai visto capelli di questo colore,” disse alzando una mano per scostarmi una ciocca ribelle di capelli dietro l'orecchio. “È bellissimo.” Non potei fare a meno di ridere. Lo guardai dal basso, attraverso le mie lunghe ciglia, flirtando. Le sue dita non mi avevano nemmeno toccato la pelle, ma il cuore mi balzò lo stesso in gola. Era una cosa folle. Quel tizio era un folle. Follemente sexy. Era ricoperto dalla testa ai piedi con una specie di armatura che non avevo mai visto in vita mia. Di certo non una della Coalizione. E nemmeno la fascia argentata che portava al braccio mi era familiare. Nessuna insegna da ufficiale. Nessun segnale della sua appartenenza alla Coalizione. Conoscevo tutte le razze arruolate nella Flotta della Coalizione, avevo trascinato i loro feriti dal campo di battaglia fino alle piattaforme di trasporto, li avevo curati con le bacchette ReGen, li avevo tenuti per mano mentre morivano. Ma quel tizio? Era diverso e ogni cellula del mio corpo era scattata sull'attenti. E il modo in cui gli altri guerrieri lo evitavano? Il modo in cui lo guardavano, quasi con cautela? Come se fosse una tigre in gabbia. No, non una tigre. Un serpente. Pericoloso. Velenoso. Ne avevo visti a decine di guerrieri in quel modo, sempre tesi, pronti alla battaglia. Ed era proprio così che lo stavano guardando. Affascinata. Provai comunque a non mostrare nessuna reazione, a non fargli capire che la mia fica era calda e smaniosa, che pulsava, che mi sentivo i seni pesanti. Caaaaavolo. Qualcuno potrebbe pensare che non facessi sesso da... un’eternità. Un momento. No. Non facevo sesso da un’eternità e quel tizio, con le sue spalle enormi e lo sguardo intenso, stava facendo sì che il mio corpo chiedesse di porvi rimedio. Tipo, in quell’istante. Il barista era un'alta femmina Atlan, di quasi due metri, con dei seni grossi come meloni e meravigliosi capelli color ebano. Era bellissima. E stava guardando quel tizio come se lo volesse leccare. Da cima a fondo. Purtroppo, avevamo entrambe lo stesso desiderio. Lui le sorrise e lei gli servì un cocktail. Le mani della barista indugiarono attorno al bicchiere, sfiorando le dita dell'uomo. Un invito sfacciato. Avrei voluto cavarle gli occhi dalla testa. Merda. Scossi il capo e mi riconcentrai sul mio bicchiere, determinata a fare la brava. Se lui avesse scelto la barista, non l'avrei di certo biasimato. Se mi fossero piaciute le donne, cavolo, me la sarei fatta anche io. Quel tizio aveva la parola “guai” scritta a chiare lettere sulla fronte. E probabilmente qualche altra parola. Ragazzaccio. Sexy. Occhi dolci. Ribelle. Puttaniere. Eh già. Probabilmente un puttaniere fatto e finito. Di sicuro era già andato a letto con metà delle donne della stazione. Ci ero passata anche io. Il mio ex sulla Terra era un tipo infedele. Una volta bastava e avanza, grazie tante. “Perché quello sguardo diffidente?” mi chiese, il timbro caldo della sua voce mi penetrò nelle ossa. Un brivido mi corse lungo la schiena, la sua voce era come una carezza. I capezzoli mi si inturgidirono, faticavo a respirare normalmente. Pericoloso? Ah! Avevo bisogno di migliorare le mie capacità nella valutazione dei rischi. Espandere il mio vocabolario. “Pericoloso” non ci andava nemmeno vicino. “Pensavo che solo i terrestri usassero certe frasi da rimorchio,” dissi. “Frasi da rimorchio?” “Non hai mai visto dei capelli biondi?” Veramente? Era questo il meglio che puoi fare? “È la verità.” Abbassò lentamente il capo, i suoi capelli scuri caddero come una cascata sulla sua fronte. L'ho già detto che mi ricordava Joe Manganiello? Il bonazzo di True Blood? Anche se supponevo che quel tizio non fosse un vampiro e non avesse la benché minima intenzione di mordermi, si stava giocando la carta del bel tenebroso alla grande. Sollevai il bicchiere pieno di quella che spacciavano come una birra lager e indicai un paio di guerrieri da Prillon Prime seduti dall'altro lato della stanza. Uno era color mogano, con gli occhi dorati e i capelli scuri e ruggine. Ma l'altro? Dorato come un leone. Biondo, senza dubbio. Erano sexy, ma non mi facevano dimenticare di respirare. A differenza di quel tizio. “E quello come lo chiami?” Indicai il guerriero più chiaro. Si avvicinò a me e fece un cenno della mano sprezzante verso i Prillon. “Sembrano bruciati dal sole. Hanno la pelle ruvida e brutta.” Mi portò la mano sui capelli, lì dove la mia coda di cavallo malfatta aveva lasciato campo libero a qualche ciocca ribelle. “Tu sei pura luce. Soffice. Fragile.” Sbuffai. Se avesse saputo. Avevo ventisette anni, non diciassette. E avevo lavorato come infermiera al pronto soccorso nell'indaffarato ospedale cittadino prima di passare quasi due anni sulla Stazione di Trasporto Zenith, dove lavoravo come medico di campo per la Coalizione. Ero un paramedico dello spazio - il che tuttora mi mandava fuori di testa se mi fermavo a pensarci. Ma pura? Fragile? Difficile. Provai a non alzare gli occhi al cielo e mi girai dall'altra parte. Non ero pura, ma avevo ancora un cuore. E dopo aver trascinato il mio amico Henry fuori da una pila di Incrociatori dello Sciame, aver guardato in quei suoi occhi marroni una volta pieni di gioia - diventati freddi e privi di vita - quel mio organo mi faceva un male cane. Avevo bisogno di ben altro che una birra. Henry Swanson era nato a Londra. Inglese. Membro delle SAS. Un veterano cazzuto. Dall'accento buffo. Un giocatore di poker fenomenale. Fino a due giorni prima se ne stava a fumare sigari e a fare il culo al mio comandante. Cinque ore fa aveva tirato fuori il suo cadavere da sotto un mucchio di nemici morti. Almeno si era portato con sé cinque bastardi dello Sciame. Sì, avevo bisogno di più di un drink per sedare il dolore. Alzai gli occhi verso la barista Atlan e dissi: “Posso avere uno shot di whiskey, per favore?” Il suo sguardo si intenerì e mi accorsi che era veramente, veramente bellissima. “Certo, tesoro. Jack, Johnnie, Jim o Glen?” “Glen.” “Pessima giornata?” Il suo lavoro la teneva dentro la stazione di trasporto, ma sapeva quello che facevamo, gli orrori che vivevamo là fuori. Le emozioni che persistevano. “Sì.” La barista annuì e mi avvicinò uno shot di whiskey sintetizzato. Le S-Gen - i generatori di materia che provvedevano ai nostri vestiti, al cibo e a tutti gli altri ammennicoli provenienti dai vari pianeti della Coalizione - sulla stazione di trasporto erano state programmate con il Jim Beam, Johnnie Walker, Jack Daniels e Glenlivet, oltre ad un'ampia scelta di vodka, gin, birra, vino e ogni altro tipo di alcolico che si poteva trovare sulla Terra. E anche della roba che non avevo mai sentito nominare e che veniva dagli altri pianeti. Dopo aver vomitato l'anima per colpa della tequila ai tempi del college, la maggior parte dei giorni mi tenevo ben alla larga dai liquori forti. Quella sera però non era come la maggior parte dei giorni. Volevo dimenticare e basta. Almeno fino a quando non mi avrebbero richiamata in missione. Il mio misterioso alieno mi guardò mentre mandavo giù lo shot, chiudevo gli occhi in pura estasi e sentivo l’alcool che mi bruciava nella gola e, con gentilezza, poggiavo il bicchierino sul bancone come se fosse un carissimo amico. “Ne vuoi un altro?” chiese la barista. “No, grazie. Sono di turno più tardi. Seconda ondata.” Non saremmo stati i primi ad uscire, ma dovevamo essere disponibili per la prossima emergenza. Il che voleva dire che non potevo affogarmi nel whiskey e svenire sul letto come desideravo. Giocherellai con il bracciale che avevo attorno al polso, la mia connessione al sistema di allerta e al resto della mia squadra. Al centro, di un verde più scuro della mia uniforme medica, c’era una fascia luminosa in grado di comunicare ordini, coordinate e qualunque altra cosa di cui avevamo bisogno mentre eravamo sul campo di battaglia. In quel momento la fascia colorata era di un blu chiaro. Azzurrino, come lo zucchero filato. Cambiava in base allo status. La prima chiamata era rossa, la seconda blu, e se era nero voleva dire che eravamo considerati dei “dormienti”, fuori servizio. Noi lo chiamavamo “tempo morto”, ed era tanto raro quanto prezioso. Su Zenith c’erano soltanto tre team medici di emergenza ed eravamo tutti molto, molto indaffarati. “Cos’è la seconda ondata?” Il tizio mi guardò come se stesse cercando di risolvere un puzzle. Quando lo ignorai, imperterrito si sporse verso di me, come se volesse… “Mi hai appena annusata, per caso?” sbottai scansandomi. Lo fissai dritto negli occhi e mi sentii come un cerbiatto sorpreso dai fari di una macchina. Avrei dovuto darmela a gambe. E allora perché restai lì, immobile, come ansiosa di vedere quale sarebbe stata la sua prossima mossa? Mi sembrava di danzare con un cobra, e il rischio era intossicante. “Di solito non ho bisogno di parlare con una donna per convincerla a entrare nel mio letto.” I suoi occhi erano d’un verde pallido, più chiari dei miei. Mia madre mi diceva che i miei erano come due smeraldi. Ma i suoi erano intensi, quasi ipnotici, e completamente concentrati su di me. “Sì, meno parli meglio è.” Sorrise, come se lo divertissi. Il suo sguardò correva sulla mia faccia, sulle mie labbra, poi si spostò sui miei capelli. Me li accarezzò. Involontariamente, inclinai la testa verso il suo tocco caldo. La sua mano era così grossa che non poté non ricordarmi della differenza tra le nostre stazze. Io ero alta, ma lui mi superava di tutta la testa. Ed era grosso. Senza dubbio era grosso dappertutto. Fece scivolare la mano, sulla mia spalla, poi più in basso, sulla mano. Ma la afferrò e la sollevò per porla tra di noi. “Vieni dalla Terra.” “Sì,” confermai, sebbene la sua non fosse esattamente una domanda. “Mai vista una terrestre prima d’ora?” La mia domanda grondava sarcasmo, eppure il suo sorriso si allargò ulteriormente. “Solo una.” Non disse nient’altro e io non feci domande. Non mi interessava chi conosceva e chi no. Non. Erano. Affari Miei. E inoltre, se si trattava di una donna, avrei voluto solamente cavarle gli occhi, il che era stupido. Quello che faceva e chi si faceva non mi riguardava. Meglio lasciarlo in pace. “Perché sento odore di sangue?” Sniffò di nuovo, si accigliò, e la sua giocosità scomparve. Feci spallucce. Certo, mi ero fatta la doccia e mi ero messa un’uniforme pulita, ma nessuno del mio team era andato a farsi curare i tagli e i graffi. Come al solito eravamo tornati, ci eravamo tolti di dosso il sudiciume della morte ed eravamo andati dritti al bar. Eravamo abituati a vedere morire le persone, ma perdere Henry era stato difficilissimo. Amava fare gli scherzi, era il comico e il burlone che la faceva sempre franca e rendeva la vita in quella stazione quasi divertente. A quel punto ogni umano su Zenith aveva saputo della sua morte. L’avevano saputo e stavano venendo al bar per affogare il loro dolore. Nel giro di un paio d’ore quel posto sarebbe stato pieno di terrestri ubriachi. Forse mi sarei dovuta fare un altro shot di whiskey. Le canzoni rauche e i brindisi sarebbero continuati per ore. Sospirai e mi massaggiai le tempie. Riuscivo già a sentire il mal di testa che arrivava. L’alieno sexy vide la fascia verde scuro che mi avvolgeva la mano – la mano che lui non stava stringendo – e si accigliò. “Sei ferita.” Afferrò la mano ferita e io mi sentii piccola mentre mi stringeva. Il suo tocco era personale, intimo, e mi faceva sentire preziosa. Al centro dell’attenzione. Improvvisamente mi scoprii vogliosa di tutta quell’attenzione. Si stava prendendo delle libertà, mi teneva la mano come se gli appartenessi. Sciolse la benda stretta. “Non è niente. Davvero.” Un piccolo taglio sul palmo della mano causato da un pezzo di metallo. Ne avevo viste di peggio sul lavoro. Di molto peggio. Mi voltò il palmo all’insù, se lo mise nel suo e passò le dita gentili sul taglio. Aveva smesso di sanguinare ancora prima di tornare su Zenith. Un graffio. Un dolore che accoglievo ben volentieri. A volte il dolore era l’unica cosa che mi faceva sapere che ero ancora viva. Dopo essere ritornata mi ero presa qualche minuto extra, mi ero accertata che il corpo di Henry venisse trasportato all’obitorio e solo allora mi ero riunita alla squadra. Oltre le spalle larghe dell’alieno intravidi il nostro secondo in comando, Rovo, che mi guardava. Era insieme agli altri, ma lo sguardo che mi lanciò mi fece esitare. Distolse gli occhi preoccupati – un’espressione totalmente normale per Rovo, quando si trattava di me – e guardò la schiena dell’alieno che avevo di fronte. Il bonazzo doveva essersi accorto che ero distratta e si girò verso Rovo. Si guardarono negli occhi, giusto per mezzo secondo: una di quelle cose da maschi alfa che continuavo a non capire. Ma non ero preoccupata. Ero al sicuro. Tutto il mio team era lì, seduto lungo il muro, che mi guardava le spalle, parlando male di quella fogna di pianeta da cui eravamo appena ritornati. Combattere per dei pianeti morti. Sembrava ridicolo, ma aveva senso. Nessuno voleva una base dello Sciame in quel sistema solare. Diamine, in quella galassia. E quindi le truppe della Coalizione combattevano per il fango. Per la posizione. Per tenere lo Sciame lontano. Lo spazio? La Terra? Certe cose non cambiavano mai, non quando si trattava della lotta tra il bene e il male. Della guerra. Si voltò di nuovo verso di me, dimenticandosi completamente di Rovo. Mi stringeva ancora la mano. Tutto ciò non era per niente quello che mi aspettavo quando mi ero avventurata nel bar per un drink. Dovevo andare dai miei compagni di squadra che stavano dall’altro lato della stanza, e invece no. Non mi ero mossa di mezzo centimetro da quando quel tizio aveva invaso il mio spazio personale. Non lo volevo. Nemmeno le battute sdolcinate erano riuscite a smuovermi. Quel tizio? Merda. Volevo fare tutto quello che voleva lui. Qualunque cosa dicesse. In quel preciso momento. Subito. Perché? Perché non avevo dubbi che fosse bravo. Molto, molto bravo. E mentre me ne stavo lì, nel Settore 437, conosciuto anche come il quadrante esterno del niente, la mia v****a si stava seccando come il deserto di Trion a furia di essere ignorata. Un po’ di attenzione maschile era sempre ben accetta. Soprattutto da uno con quell’aspetto. Che mi guardava come se volesse divorarmi in un sol boccone. O gettarmi sulla sua spalla e farmi distendere sulla superficie orizzontale più vicina – o forse ne avrebbe scelta una verticale. I muri andavano più che bene per una sveltina. Carnosa e rude e selvaggia. Un po’ pericolosa? Forse. Eppure, era proprio quello che bramavo. Qualcosa di incontrollabile. Qualcosa che mi facesse tremare e sussultare. Non volevo più pensare. Volevo godere.
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