Capitolo 1
1
AVERY
«Non era questo che intendevo quando ho detto che avrei condiviso la stanza d’albergo con te.» La voce mi uscì in un ansito e carica di risate. Poteva non essere stato ciò che avevo avuto in mente, ma di sicuro non mi stavo lamentando. I voli annullati erano una gran seccatura, ma sarei stata felice di trascorrere la nottata in un hotel dell’aeroporto se quella era la mia ricompensa.
La testa mi ricadde all’indietro, mentre ansimavo alla ricerca di ossigeno. Le labbra di Jackson si spostarono sul mio collo, succhiando e leccando mentre ondeggiava i fianchi contro di me. Non potei non notare la sua lunga erezione, quando mi immobilizzò tra il suo corpo snello e la porta della camera d’albergo. Gli avvolsi le gambe attorno alla vita e una delle sue grandi mani mi prese una natica. La strinse.
Dio, sì.
Jackson sollevò la testa per sogghignare. Aveva ancora lo stesso bell’aspetto da adolescente per il quale avevo avuto una cotta al liceo quando lui era stato la stella della squadra di baseball della Bridgewater High. All’epoca mi aveva notata a malapena, ma adesso...
Be’, diamine, adesso avevo la sua completa attenzione. Così come i miei capezzoli. E la mia figa.
«Mi stai dicendo che preferiresti dormire al gate, in attesa di un volo di prima mattina per tornare a casa?» mi chiese, la voce un roco borbottio contro il mio collo.
Scossi la testa mentre la sua mano libera mi prendeva un seno da sopra la maglietta. Chiusi gli occhi e cercai di rispondergli mentre lui mi accarezzava il capezzolo con il pollice. «Oh merda. Sto dicendo... um, sia ringraziato Dio per i voli di coincidenza, le bufere di neve e gli hotel già tutti prenotati.»
Il forte pizzichio delle dita di Jackson sul mio capezzolo mi fece spalancare gli occhi, lasciandomi sfuggire un grido dalle labbra. Le mie mutandine? Completamente rovinate.
Il sorriso – bellissimo – che mi rivolse in risposta fece fare una capriola al mio stomaco.
Per la miseriaccia, me la stavo facendo con Jackson Wray. Nella stanza di albergo di un hotel dell’aeroporto di Minneapolis. Com’era successo? Destino?
Lui fece ondeggiare i fianchi, sfregando il cazzo duro contro di me, ed io mi morsi un labbro per soffocare un gemito. «Brava ragazza.»
La sua bocca tornò sulla mia, la sua lingua che vi affondava dentro, la sua barba corta morbida e un po’ solleticante. Le sue mani si spostarono fino all’orlo della mia maglia a collo alto, vi trovarono la pelle nuda al di sotto e scivolarono verso l’alto per prendermi i seni. Poteva anche esserci del pizzo e del delicato tessuto in maglia tra i suoi palmi callosi e i miei capezzoli duri, ma ciò non mi impedì di rispondere con un gemito.
«Sì,» piagnucolai. Avrebbe scoperto presto quanto fossero sensibili. Se avesse continuato così, mi avrebbe fatta venire. Ci ero già vicina e avevamo ancora i vestiti addosso.
«Pensavo di essere io quello a cui piacevano le tette.» La voce bassa provenne alle spalle di Jackson.
Mi ritrassi per guardare dietro di lui.
Dash McPherson. Come avevo fatto a dimenticarmi che ci fosse anche lui? Oh già, grazie ai baci sciogli-cervello di Jackson e alle sue dita che mi pizzicavano i capezzoli.
Con uno sguardo passionale e quella dannata fossetta che compariva ogni volta che mi sorrideva, Dash era ancora più bello adesso di quanto non lo fosse stato a diciassette anni. Entrambi lo erano. I capelli castani di Dash erano un tantino troppo lunghi, rendendo i suoi lineamenti scolpiti un po’ meno intimidatori, ma solo leggermente. E quel ghigno. Malizioso e attraente al tempo stesso. Quello sguardo assottigliato, quell’oscura espressione di desiderio... mi facevano ancora fremere il corpo, specialmente dal momento che erano indirizzati proprio a me.
Forse Jackson riuscì a percepire la mia reazione, perché strinse le braccia attorno a me e mi sollevò da terra, facendoci voltare e riposandomi sul pavimento tra di loro. «Stavo giusto dicendo ad Avery che brava ragazza fosse per averci permesso di prenderci cura di lei per stanotte.»
Dash rise. «Come se ti avremmo mai lasciata dormire al gate. Non solo non è sicuro, ma anche tristemente scomodo.»
Arricciai le labbra. «Ho perfino perso il conto delle volte in cui l’ho fatto. Col mio lavoro, praticamente vivo in aeroporto.»
Dash incrociò le braccia al petto, tendendo il tessuto della sua maglia termica a maniche lunghe. Le mani di Jackson si posarono sulle mie spalle e lui si chinò in avanti da dietro di me, baciandomi dritta dietro l’orecchio. Io rabbrividii e non per il freddo. «E le volte in cui sei andata a condividere una stanza con due uomini?»
Sentii una traccia di rabbia, ma non era indirizzata a me. Era la sua possessività che veniva a galla. Non lo vedevo da anni e, all’improvviso, era tutto maschio alfa. Be’, non all’improvviso. Avevo sentito dire che fossero entrambi veterinari e gestissero una clinica per animali tutta loro in città.
Erano intelligenti e bellissimi. Me li ricordavo così anche al liceo. Tuttavia, adesso eravamo cresciuti. Dash la faceva arrivare – la possessività – a tutto un altro livello. E quel livello mi faceva pulsare il clitoride.
«Non siete semplicemente due uomini,» ribattei. «È passato un sacco di tempo, ma vi conosco. Siamo andati al liceo insieme.»
Dash si limitò a continuare ad osservarmi, con un sopracciglio scuro inarcato.
«Siete molto possessivi,» dissi io, constatando l’ovvio.
«Bambolina, non ne hai la minima idea,» controbatté lui, avvicinandosi a me e ravviandomi i capelli dal viso. Erano una chioma selvaggia che non stava mai al suo posto, nemmeno in una coda disordinata. «Che facciamo qualcosa o meno stanotte, che tu ci permetta di spogliarti e farti venire o meno, non dormirai in quel maledetto aeroporto. Noi abbiamo finito qui con la nostra conferenza e ci preoccuperemo di riportarti a casa sana e salva.»
Per quanto fossimo tutti e tre bloccati nel Minnesota per una notte, eravamo tutti diretti di ritorno a Bridgewater. Ero incappata in loro al gate, tutti e tre sullo stesso volo. Il volo annullato.
Potevo anche essere nata e cresciuta nella piccola cittadina del Montana, ma me n’ero andata per il college e ci tornavo di rado. Non con la mia folle famiglia. Tuttavia, il matrimonio di mia sorella non era una cosa che potessi evitare, per cui eccomi lì. Quasi tornata a Bridgewater. Non a casa. Dash e Jasckson consideravano Bridgewater casa loro, ma io no. Io non avevo veramente una casa. Vivevo con la mia valigia e, ultimamente, era stata riposta sotto un piccolo lettino di una casa in Messico. In quanto giornalista di viaggi, non mettevo radici, specialmente non a Bridgewater.
Il volo annullato era stata una tregua. Un ritardo nel tornare dai miei genitori che litigavano e ogni palese ragione per cui continuassi ad andarmene. Per quanto potesse essere dicembre e a Natale mancassero solamente due settimane, la mia famiglia non era come quella di un dipinto di Norman Rockwell. Sapevo che i miei genitori non avrebbero fatto l’albero né addobbato minimamente la casa per le feste. Non si preoccupavano di certe cose. Non si preoccupavano di andare d’accordo.
«Non trascorrerò la nottata in aeroporto. Non rifiuterò la vostra ospitalità. E poi, Jackson mi ha appena infilato una mano sotto la maglia e credo che mi abbia lasciato un succhiotto sul collo. Non sono sicura di come sia possibile indossando una maglia a collo alto,» borbottai, strattonandomelo. «Penso ci siano buone probabilità che abbiate fortuna con me, stasera.»
Una sveltina selvaggia con due ragazzi per i quali avevo avuto una cotta al liceo. E a giudicare dal loro aspetto, non erano più dei ragazzi. No, all’età di ventisette anni, erano decisamente uomini. Alti, con le spalle ampie. Muscolosi. No, scolpiti.
Li volevo, volevo sentire il loro peso premermi contro il letto, tenermi alla testiera mentre loro mi prendevano da dietro. Mentre mi succhiavano i capezzoli. Mi infilavano le dita nella figa. Diamine, me la leccavano.
Non ero vergine e non avevo intenzione di fingere il contrario. Ero stata con degli uomini. Uomini che avevo conosciuto viaggiando per lavoro. Uomini che non avevano significato nulla più per me che un rapido orgasmo. Dopo aver assistito ai litigi dei miei genitori per tutta la mia infanzia, non avevo idea di come potesse essere una vera relazione. Se era come la loro, non mi interessava affatto. Ecco perchè mi godevo l’aspetto fisico, ma nient’altro. Nessun vincolo. Niente appuntamenti.
Il matrimonio dei miei genitori era del tutto anormale per Bridgewater. Quasi tutti i matrimoni erano solidi, i mariti – sì, entrambi – erano possessivi e protettivi nei confronti della loro moglie. Affettuosi. Amorevoli. Mio padre non era affatto così. Diamine, aveva avuto uno stuolo di amanti e mia madre si era assicurata di non restare sola. Perchè fossero rimasti insieme dopo quasi trent’anni, non ne avevo idea, ma era come guardare un incidente d’auto, roba sparsa ovunque, persone ferite e nessuna possibilità di migliorare la situazione. Ero stanca di venire sfruttata come strumento per alimentare i loro litigi. Ecco perché me ne stavo alla larga. Mi ero fermata per un weekend l’estate precedente durante un viaggio dall’Alaska fino alle Florida Keys tra un lavoro e l’altro, ma avevo trascorso più tempo con mia zia Louise che con chiunque altro.
E adesso stavo tornando a Bridgewater. Ne temevo ogni istante, specialmente l’abito da damigella color verde mare che avrei indossato. Mia madre me ne aveva inviata una foto via email mentre mi trovavo in Messico. Forse quella nottata era una tregua, una tregua con due uomini bellissimi che speravo sarebbero presto stati nudi. Una notte della quale avrei potuto ricordarmi sdraiata nel mio letto di bambina mentre ascoltavo i miei genitori litigare. Non avevo dubbi che Jackson e Dash sarebbero stati il centro e l’apice dei miei pensieri mentre me la facevo col mio vibratore per mesi – no, anni – a venire.
I vibratori non tradivano, non rispondevano male. E non ero io ad essere usata.
«Fortuna?» mi chiese Jackosn, le mani sulle mie spalle, spingendomi verso il letto. I suoi pollici mi premettero delicatamente nella schiena. «Io direi che la fortuna è stata trovarti al gate, trovarci sullo stesso volo. Trascorrere la notte con te.»
«Tornando a Bridgewater insieme,» aggiunse Dash. Si tolse la giacca di lana. Fuori si gelava, eravamo ben sotto lo zero e la neve cadeva spessa e di traverso fuori dalla finestra; tuttavia, lui non indossava nulla di più pesante.
«Per quanto riguarda ciò che faremo con te, non c’entra la fortuna.» Il ghigno presuntuoso di Jackson tornò alla ribalta e diamine se non aveva un aspetto stupendo con quella barba. Per quanto fosse castano come Dash, la barba era molto più chiara. Ne avevo percepito la morbidezza quando mi aveva baciata e mi ero chiesta che sensazione mi avrebbe dato... altrove. Tipo, tra le mie cosce. Tra le mie dita mentre mi faceva venire. E sapevo che ne sarebbe stato in grado. Anche Dash.
Non ero mai andata a letto con un uomo di Bridgewater, figuriamoci due. Ma se dovevo farlo, e ne avevo l’intenzione... Jackson e Dash erano decisamente gli uomini delle mie fantasie e sapevo che quella notte sarebbe stata una cavalcata selvaggia. Non avevamo alcun posto dove andare fino a quando la bufera non si fosse placata e il traffico aereo non fosse stato riabilitato. Non c’erano altre stanze d’albergo – ecco perché si erano offerti di condividere la loro con me – nemmeno se ne avessi voluta una.
«Cosa ci fate a Minneapolis? Cosa vi ha portati al mio gate?» chiesi, sorridendo. Non avevamo parlato molto da quando ci eravamo diretti all’hotel annesso ed eravamo riusciti ad ottenere una stanza.
«Conferenza veterinaria,» disse Jackson.
«È vero,» commentai, facendo conversaizone nonostante me li stessi praticamente scopando con gli occhi. «Voi due avete aperto una clinica in città, giusto?»
Mi ricordavo di averlo sentito dire da mia sorella. Jackie non se n’era mai andata da Bridgewater. Damine, non aveva mai abbandonato il suo lavoro da cameriera del liceo al locale BBQ del posto. Non avevamo praticamente nulla in comune in quei giorni, per cui le nostre conversazioni consistevano nel suo aggiornarmi sui pettegolezzi del paese. Per una volta, la sua telecronaca era servita.
Dash annuì. Nessuno di loro mi stava toccando, ma i loro sguardi erano appassionati e sexy come non mai.
«Basta parlare,» disse.
«Concordo. Come ha detto Jackson, incontrarci non è stata fortuna. Una notte insieme, bloccati in un albergo senza nulla da fare.» Feci spallucce. «Perché non divertirci un po’ mentre siamo intrappolati qui? Come ho detto, non sono mai stata con due uomini prima d’ora, ma decisamente ci ho pensato. Fatemi vedere che cosa mi sono persa?»
«Ci hai pensato?» Dash incurvò gli angoli delle labbra. «Penso che tu abbia sbagliato tutto, Jackson,» disse al suo amico, ma mantenne lo sguardo su di me. «Sembra che la piccola Avery, qui, sia cresciuta per diventare una ragazza decisamente cattiva.»
Mi cedettero le ginocchia al modo in cui disse la parola cattiva, per cui Dash mi avvolse un braccio attorno alla vita per tenermi in piedi. Per la miseriaccia, mi sentivo cattiva eccome con quei due. Il mio cervello era finito in un posto follemente spinto – in mezzo a loro.
Dash mi strinse al suo petto duro ed io sentii Jackson muoversi alle mie spalle così che mi ritrovai schiacciata tra loro due, i loro corpi robusti che mi intrappolavano e mi tenevano in piedi.
Jackson mi scostò i lunghi riccioli castani di lato mentre mi sfregava il naso lungo il collo meglio che riuscì con indosso la mia maglia. Ecco di nuovo il solletichio della sua barba. «Volevamo farlo da un sacco di tempo, dolcezza. Sin dal liceo quando eravamo semplicemente degli adolescenti arrapati. Sei stata la ragazza delle nostre fantasie sin da allora, ci siamo eccitati per te ogni volta che ti abbiamo vista tornare a casa, ma non ci eravamo mai immaginati che sarebbe successo. Fino ad ora. Cazzo, sì.»
Piagnucolai. Già, la sua onestà era maledettamente eccitante, specialmente dal momento che non pensavo di essere poi tanto attraente. Eppure loro mi avevano desiderata per... anni? Sentendo i loro cazzi duri premere contro di me, riuscivo a percepire il loro desiderio represso di entrarmi dentro.
Dio, sì.