II.

3764 Words
II. CASALa casa di South Square, Westminster, in cui s’erano stabiliti due anni prima i giovani Mont, dopo la luna di miele passata in Spagna, bene avrebbe potuto dirsi “emancipata”. Era opera di un architetto che aveva sognato di costruire una casa perfettamente nuova che avesse insieme l’apparenza di una casa perfettamente vecchia. Perciò non vi si notava nessuno stile o nessuna tradizione riconosciuta, ed era stata concepita senza neanche l’ombra di un pregiudizio costruttivo; ma con tanta rapidità s’imbeveva della fuliggine della metropoli che già il colore della pietra era discretamente simile a quello delle costruzioni di Wren. Le porte e le finestre erano lievemente arrotondate alla sommità. Il tetto dall’alta pendenza, dei tegoli rossi già affumicati, faceva pensare alle case danesi, e vi si aprivano “due amori di finestrine”; così che, guardandole, si aveva l’impressione che lassù vivessero dei servitori di statura eccezionale. C’erano stanze da ambo le parti della porta d’ingresso, ch’era ampia e messa in risalto da piante di lauro decorate in nero e oro. La casa era assai grande all’interno e la scala, dalla linea larga e pura, cominciava all’estremità di un atrio enorme, in cui c’era posto per innumerevoli cappelli e soprabiti e biglietti da visita. Quattro stanze da bagno; e neanche una cantina. L’istinto della casa innato nei Forsyte aveva avuto parte nell’acquisto. Soames l’aveva presa per sua figlia, nuda e vuota, in quel momento psicologico in cui la bolla dell’inflazione s’era forata, lasciando sfuggire l’aria dal pallone del commercio mondiale. Tuttavia Fleur era entrata immediatamente in contatto con lo spirito dell’architetto, un elemento questo che Soames non era invece riuscito a digerire completamente, e aveva deciso di non avere nella sua casa che tre stili: il cinese, lo spagnolo, e il proprio. A sinistra della porta d’ingresso, il grande salone, che si stendeva per tutta l’ampiezza della casa, era in stile cinese, con pannelli d’avorio, pavimento di rame, riscaldamento centrale, e lampadari di cristallo molato. Conteneva quattro quadri – tutti cinesi, l’unico genere di pittura in cui suo padre non avesse ancor commerciato. Sul focolare, ampio e aperto, cani cinesi di porcellana posavano su tegoli pure cinesi. Nelle stoffe dominava il color verde giada. C’eran due meravigliosi cofanetti da tè antichi, di colore scuro, comprati da Jobson col denaro di Soames, non conquistati con qualche abile contratto. Ma non c’era pianoforte, un po’ perché i pianoforti erano decisamente troppo occidentali, un po’ perché avrebbe occupato troppo posto. Fleur voleva aver dello spazio, preferiva far collezione di uomini, piuttosto che di mobili e di bibelots. Peccato che la luce che entrava dalle finestre, alle due estremità della stanza, non fosse cinese! Ella soleva talvolta starsene in piedi in mezzo alla sala, pensando... come “raggruppare” i suoi ospiti, come rendere l’ambiente più cinese, senza rinunciare alle comodità indispensabili; come aver l’aria di intendersi a fondo di letteratura e di politica; come accettare i regali di suo padre, senza fargli capire che i suoi gusti erano ormai un po’ superati; come conservare nel suo circolo Sibley Swan, la nuova stella letteraria, e introdurvi Gurdon Minho, la celebrità di ieri; e pensava anche talvolta a Wilfrid Desert che cominciava a volerle un po’ troppo bene; alla linea da adottare nei suoi vestiti per dar loro l’impronta di uno stile originale; alla forma così buffa delle orecchie di Michael; e qualche volta ancora se ne stava là senza pensare a nulla, con una lieve pena nel cuore. Quando i tre uomini entrarono, ella era seduta dinanzi a un tavolino di lacca rossa, e finiva di prendere il tè. Sempre se lo faceva portare di buon’ora, per un primo “assaggio”, tranquillamente, da sola; non aveva ancora ventun’anni, ed era quella l’ora dedicata ai ricordi di gioventù. Accanto a lei Ting-a-ling, ritto sulle zampette posteriori, con quelle anteriori appoggiate a uno sgabello cinese, volgeva in su il musetto camuso nero e fulvo, in attesa dei frutti della propria filosofia. «Ora basta. Ting. Non più, tesoro! Non più!» Ting-a-ling la guardò con l’aria di rispondere: “Allora smetti anche tu! Non sottopormi a una simile tortura!”. Un anno e tre mesi: l’aveva comprato Michael in un negozio di Bond Street al ventesimo compleanno di Fleur, undici mesi prima. Due anni di vita coniugale non avevano allungato i suoi capelli corti castano scuri; le labbra vivaci avevano un’espressione più decisa e le palpebre bianchissime si abbassavano sugli occhi color nocciola dalle ciglia scure con fascino più sapiente; il suo passo era divenuto più equilibrato e ondeggiante, il petto e i fianchi avevano acquistato una certa ampiezza; mentre invece la vita e le caviglie s’eran fatte più sottili, le guance leggermente meno rotonde, avevan perso un po’ del loro incarnato e la voce, dall’intonazione più carezzevole, era tuttavia meno dolce. Si alzò e rimase dietro al vassoio, tendendo silenziosamente il bianco braccio rotondo. Ometteva, per abitudine, le consuete parole di benvenuto e d’addio. Troppe volte avrebbe dovuto ripeterle e assai più eloquenti le parevan lo sguardo, la stretta della mano, la leggera inclinazione del capo. Con un movimento circolare della mano, disse: «Avvicinatevi. Panna, Bart? Zucchero, Wilfrid? Ting ha già mangiato troppo, non dategli più nulla, vi prego! Porgi le tazze, Michael. Ho saputo dell’adunata agli Snook. Spero che non ti metterai a far propaganda per i laburisti, Michael; la propaganda è una cosa molto stupida. Se qualcuno la facesse con me, io subito voterei per il partito opposto». «Lo so, cara; ma tu non hai la mentalità dell’elettore comune». Fleur lo guardò. Ben detto, davvero! Con una sola occhiata notò Wilfrid che si mordeva le labbra, il baronetto che lo osservava scrutandolo, il pezzo scoperto delle proprie gambe nelle calze di seta, le tazze dà tè color nero e crema; e subito provvide. Un lieve sbattere delle bianchissime palpebre, Desert smise di mordersi le labbra; un movimento delle gambe inguainate di seta, il Baronetto smise di osservarle. Poi porgendo le tazze, disse: «Forse non sono abbastanza moderna?». Desert, rimescolando col cucchiaino lucente nella tazza screziata, disse senza alzare gli occhi: «Di tanto siete più moderna delle donne moderne, di quanto ne siete più antica». «Udite che poesia!» disse Michael. Ma quando egli ebbe condotto suo padre a vedere i nuovi cartoni di Aubrey Greene, ella disse: «Abbiate la bontà di spiegarmi che cosa intendevate dire, Wilfrid». La voce di Desert suonò diversa, come se sino ad allora fosse stata costretta. «Che importa? Non voglio perderci del tempo inutile». «Ma io voglio saperlo. Mi è parso di sentirvi un tono di beffa». «Di beffa? Da me? Oh! Fleur!» «Allora spiegatevi». «Intendevo dire che c’è in voi tutta l’irrequietezza e il senso pratico della vita proprio della donna moderna; ma c’è anche quel che non si trova più ormai, il potere di fare impazzire. E io sono impazzito. Lo sapete». «Che penserebbe Michael se vi sentisse parlar così, voi, il suo migliore amico?» Desert mosse rapido verso la finestra. Fleur prese Ting-a-ling in grembo. Non era la prima volta che si sentiva dire queste cose; ma ora Wilfrid parlava sul serio. Era una bella cosa, certo, avere il dominio di quel cuore! Ma dove, dove mai avrebbe potuto celarlo, perché nessuno lo scorgesse, all’infuori di lei? Quel poeta era un uomo bizzarro – capace delle cose più impensate! Ed ella ne aveva un poco paura – non di lui certo, ma di questa sua bizzarria. Wilfrid ritornò presso il camino, e disse: «Brutta cosa, vero? Mettete via quell’orribile cane, Fleur; non posso vedere il vostro viso. Se sapessi che amate veramente Michael, non parlerei, ve lo giuro; ma non lo amate». Fleur disse freddamente: «Voi non sapete nulla di nulla; voglio molto bene a Michael». Desert ebbe il suo breve riso scattante. «Sì, sì; ma è quel bene che conta». Fleur lo guardò. «Conta abbastanza perché mi senta al sicuro da voi». «Un fiore che non potrò mai raccogliere, dunque?» Fleur accennò di sì col capo. «Ne siete sicura, Fleur? Proprio, proprio sicura?» Fleur lo fissò; l’espressione dei suoi occhi si fece più dolce, le sue palpebre, così eccessivamente bianche, si abbassarono a velarli; ancora accennò di sì con la testa. Ma Desert disse lentamente: «Il giorno in cui ne sarò davvero convinto, andrò in Oriente». «In Oriente?» «Non è un rimedio triste, come il solito viaggio in Occidente, ma ha praticamente il medesimo risultato: non se ne ritorna più». Fleur pensava: “L’Oriente! Mi piacerebbe andare in Oriente! Peccato non poter fare anche questo! Peccato!”. «Non pensate di potermi trattenere nel vostro giardino zoologico, mia cara. Non ho nessuna intenzione di continuare a girarvi attorno per coglier le briciole del vostro affetto. Sapete quello che ho in cuore, ci vuole uno strappo violento». «Ma è stata colpa mia forse?» «Sì; avete cercato di incantarmi, come incantate tutti quelli vi capitano vicino, per il vostro gusto di collezionista». «Non capisco che cosa volete dire». Desert le si piegò accanto e si portò la sua mano alle labbra. «Non siate in collera con me; sono troppo infelice». Fleur abbandonò la mano contro le sue labbra ardenti. «Me ne duole, Wilfrid». «Bene, cara, allora me ne vado». «Ma verrete a pranzo, domani?» Rispose Desert con violenza: «Domani? Buon Dio, no! Di cosa credete dunque che sia fatto?». E respinse la sua mano con forza. «Non amo la violenza, Wilfrid». «Bene, addio dunque; è meglio che me ne vada». Fleur si sentì tremare sulle labbra queste altre parole: “Ed è meglio che non torniate mai più”, ma non le disse. Senza più Wilfrid le pareva che la vita avrebbe perso un po’ del suo calore! Mosse la mano in un cenno di saluto. Era scomparso. Sentì chiudere la porta. Povero Wilfrid! Dolce il pensiero di quella fiamma a cui riscaldarsi le mani! Dolce, ma terribile insieme! E improvvisamente, messo Ting-a-ling a terra, si alzò e si mise a camminare su e giù per la stanza. Domani! Secondo anniversario di matrimonio! E ancora provava una pena sottile al pensiero di ciò che non era stato. Ma aveva poco tempo per i ricordi, e questo tempo ancora lo riduceva al minimo. A che ricordare, pensare? Una vita soltanto, piena di gente, di cose da fare e da conquistare, di cose da volere – una vita in cui mancava... una cosa sola; e quella cosa del resto, quelli che l’avevano, l’avevano per così poco tempo! Due lacrime si raccolsero sulle sue palpebre, ma evaporarono senza cadere. Sentimentalismo! No! L’ultima cosa al mondo ch’ella pensava di potersi concedere, la debolezza che meno sapeva compatire o comprendere! Come avrebbe disposto i suoi ospiti a tavola il giorno dopo? E se quello sciocco ragazzo di Wilfrid non veniva davvero, chi avrebbe potuto invitare al posto suo? Un giorno – una sera – chissà? Chi poteva mettere alla propria destra, chi alla propria sinistra? Era più distinto Aubrey Greene o Sibley Swan? Ed erano l’uno e l’altro distinti quanto Walter Nazing o Charles Upshire? Un pranzo di dodici invitati, tutti esclusivamente letterati e artisti, all’infuori di Michael e di Alison Charwell. Ah! E se avesse pregato Alison di condurre il suo Gurdon Minho – uno scrittore della vecchia scuola –, come un buon bicchiere di vino vecchio a smorzare l’effervescenza dei giovani? È vero che non stampava i suoi libri da Danby e Winter; ma era assai devoto ad Alison. Mosse rapida verso uno dei due cofani antichi e l’aprì: apparve un telefono. «Potrei parlare con Lady Alison?... Mrs. Michael Mont... Sì... Siete voi, Alison?... Parlate con Fleur. Wilfrid non può venire domani sera... Chissà se non potreste invitare invece Gurdon Minho? Non lo conosco, naturalmente; ma forse potrebbe interessarlo trovarsi coi miei amici. Proverete?... Oh, sarà delizioso! Interessante, vero, l’adunata allo Snook’s Club? Bart dice che ora, dopo la scissione, si mangerano tutti l’uno con l’altro... A proposito di Mr. Minho. Potreste farmi sapere se accetta, questa sera stessa? Grazie, grazie infinite!… Addio!» Se Minho non veniva, chi si poteva invitare? Sfogliò meditabonda il libretto degli indirizzi. Era tardi ormai per invitare chi non fosse addirittura di casa; ma, all’infuori di Alison, nessuno tra i parenti di Michael avrebbe potuto salvarsi da Sibley Swan o da Nesta Gorse e dai loro strani intinti di sovversivismo; quanto ai Forsyte, erano fuori questione; avevano (alcuni di essi, almeno) un certo umorismo saturato d’acredine, ma non erano profondamente, veramente moderni. E poi, cercava di vederli il meno possibile: appartenevano al periodo in cui era di moda la mentalità drammatica, e non sapevano concepire la vita senza un principio e senza una fine. No! Se Gurdon Minho non si decideva a venire bisognava invitare un musicista, che scrivesse delle opere geroglifiche con una vena di chirurgia; o, meglio ancora forse, uno psicoanalista. Passò rapidamente le pagine, sicché giunse a queste due categorie. Hugo Solstis? Era un’idea; ma se poi gli fosse venuto il ghiribizzo di far sentire agli ospiti qualche musica recente? C’era soltanto il pianoforte verticale di Michael e si sarebbe dovuto trascorrere la serata nel suo studio invece che nel salone. Meglio Gerald Hanks; se si trovava vicino a Nesta Gorse, sarebbero partiti entrambi per il paese dei sogni è vero; ma, anche se quei due tacevano, non sarebbe mancata l’animazione. Sì, se non veniva Gurdon Minho, avrebbe invitato Gerald Hanks, che certo era libero – e l’avrebbe messo a tavola tra Alison e Nesta. Chiuse il libretto e, tornando a sedersi sul divanino verde giada, guardò Ting-a-ling. Il cagnolino le rese lo sguardo con quei suoi occhi prominenti e rotondi: uno sguardo lucente, nero, dall’espressione vecchissima. Fleur pensò: “Non voglio rinunciare a Wilfrid”. Tra la folla di quanti le giravano attorno, un po’ dappertutto, nessuno l’interessava veramente. Eppure sentiva il bisogno di trattenerli tutti vicino a sé, per quel suo istinto di non rinunciare mai a nulla! Era terribilmente divertente, terribilmente necessario! Soltanto... soltanto... che cosa? Un suono di voci! Michael e Bart che tornavano. Bart aveva notato i modi di Wilfrid. Era difatti uno spirito osservatore e penetrante. E in sua presenza ella provava sempre un certo disagio; benché arguto e vivace, c’era in lui qualche cosa di fermo, di avito; un po’ come in Ting-a-ling, e quella sua aria di giudice le dava la sensazione di essere più che mai instabile e nuova. Era egli come un vascello che non potesse ancora muoversi oltre l’ambito concesso dalla sua gomena antica, e tuttavia appariva talvolta inaspettato, sconcertante. E ciò malgrado Fleur sentiva la sua ammirazione, e ne era perfettamente sicura. Ebbene? Gli piacevano quei cartelli? Pensava che Michael dovesse farli stampare, e con didascalie o senza? E quel disegno cubista intitolato Natura morta che voleva rappresentare il governo non era troppo ironicamente buffo, soprattutto quel “vecchio fagiolo” che doveva essere il Primo Ministro? Si sentì rispondere con una parlata rapida, sinuosa: Sir Lawrence le raccontava della raccolta di cartelli elettorali del baronetto, suo padre. Ella non desiderava affatto sentir parlare di lui; era stato molto distinto, è vero, ma doveva esser stato terribilmente noioso, con quel suo costume di andare a far visita a cavallo, chiusi i pantaloni nella tromba degli stivali. Era stato uno degli ultimi, insieme con Lord Charles Cariboo e il marchese di Forfar, a seguire questa antica usanza. Ed era questa del resto l’unica originalità che li salvava oggi da un più completo oblio. Ma lei aveva ancora da provare il vestito nuovo, da provvedere a mille cose, e il concerto di Hugo cominciava alle otto e un quarto! Come poteva la gente dell’antica generazione avere sempre tanto tempo disponibile? A un tratto abbassò gli occhi. Ting-a-ling leccava il pavimento di rame. Lo tirò su: «No, no, caro: è cattivo!». Ah! L’incanto era rotto! Il baronetto, finalmente, ricordava di doversene andare. Ella attese ai piedi della scala che Michael avesse chiuso la porta su di lui, poi corse su, di volata. Entrò nella sua camera, accese tutte le luci. Là regnava veramente il suo stile, un letto che non sembrava un letto, e molti specchi. In un canto la cuccetta di Ting-a-ling che poteva vedersi riflessa negli altri tre angoli. Lo mise a terra e disse: «Stai tranquillo ora!». Da gran tempo il cagnolino s’era fatto indifferente agli altri cani che comparivano nella stanza; eran sì della sua razza, avevan lo stesso identico colore, ma non odoravano di nulla, e la loro lingua non sapeva leccare, nessuna possibilità di intendersi con loro, creature d’imitazione incredibilmente insensibili. Sfilandosi in fretta il vestito, Fleur teneva l’abitino nuovo sotto il mento. «Posso darti un bacio?» disse una voce, e la figura di Michael apparve nello specchio dietro la sua. «Non ho tempo, ragazzo mio! Aiutami piuttosto». Infilò il vestito per la testa. «Chiudi quei tre ganci in cima. Ti piace? Oh! A proposito, Michael! Può darsi che domani a pranzo venga Gurdon Minho, invece di Wilfrid che non può. Hai letto i suoi libri? Siedi un momento e dimmi di che cosa trattano. Sono tutti romanzi, no? Di che genere?» «Oh, quello è un uomo che ha sempre avuto qualche cosa da dire. E le sue cose sono buone. È un po’ romantico, naturalmente». «Oh! Ho fatto una gaffe a invitarlo?» «Macché: anzi, un colpo magnifico. Il difetto dei letterati nostri amici è appunto questo: che si esprimono graziosamente, ma non hanno nulla da dire. Ecco perché le loro opere non dureranno». «Mi sembra che appunto per questo dureranno: non hanno limiti di tempo e di spazio». «Davvero? Oh, mio Dio!» «I versi di Wilfrid dureranno». «Ah, ma in Wilfrid ci sono passioni, Odi, pietà, desideri: qualche volta almeno: ed è allora che scrive delle cose buone. Altrimenti è anche lui come gli altri, e sa cantare dei versi che non dicono nulla». Fleur tirò giù il bordo della camiciola, che compariva nella scollatura. «Ma, Michael, se è così, no... io almeno mi sono messa per la via sbagliata». Michael sogghignò. «Bambina cara! Quella di moda è sempre la strada giusta; basta essere accorti, e mutarla presto al momento buono». «Ma vuoi dire davvero che nell’avvenire nessuno più ricorderà Sibley?» «Sib? Oh, Signore, no certo!» «Ma è un uomo così sicuro che tutti, all’infuori di lui, siano morti o almeno moribondi. Passa per un genio critico!» «Se io non avessi maggior senso critico di Sibley, potrei smettere da domani di far l’editore». «Tu... hai più senso critico di Sibley Swan?» «Certo, molto di più, cara. Ma pensa! Tutto il senso critico di Sib consiste nella sua stima per Sib, e nel disprezzo, aperto o velato, per tutti gli altri. Le opere altrui del resto non le legge nemmeno. Gli basta scorrere qualche pagina di ogni autore per dire: “Oh! quel tale, già! È noioso, oppure è moralista, oppure è sentimentale, o è troppo del suo tempo, o è rimbambito”, l’ho sentito sentenziare così dozzine di volte. Questo, quando si tratti di scrittori viventi. Per i morti, naturalmente, è un’altra cosa. È sempre occupato anzi a dissotterrarli e canonizzarli; ecco come si è creato la sua fama. C’è sempre un Sib in tutte le letterature di tutti i tempi. È un esempio vivente del come possa un individuo farsi giudicare dagli altri secondo il concetto che ha di se stesso. Ma quanto al durare, questa è un’altra faccenda: resistono al tempo i creatori; ed egli non è mai un creatore, neanche per sbaglio». Fleur aveva perso il filo del discorso. Sì! Le stava bene – una bellissima linea! E adesso, via! Doveva scrivere ancora quei tre biglietti prima di pranzo. Michael aveva ricominciato a parlare. «Credi a me, Fleur. I veri grandi uomini non chiacchierano – e non osano raggrupparsi – ma guidano la propria zattera in acque che sembrano di scarto. Ma son le acque scartate quelle che formano la corrente principale. Sembra un gioco di parole e ha tuttavia un significato profondo». «Michael, pensi che sia meglio avvertire Frederic Wilmer che troverà Hubert Marsland a pranzo la settimana prossima? Lo invoglierà a venire o lo dissuaderà?» «Marsland è una specie di vecchia anatra, Wilmer una specie di vecchio papero – non lo so». «Oh! Sii serio per un momento, Michael – non mi dai il minimo aiuto a combinare e disporre... No! Non sciuparmi le spalle, ti prego!» «Ma, cara, non so davvero. Non ho, come te, il genio di queste cose. Marsland dipinge dei mulini a vento, delle colline, e altre cose del genere e non mi meraviglierebbe che non avesse mai sentito parlare del futurismo. Quasi somiglia a Mathew Maris per questo suo tenersi fuori dalla corrente. Se tu credi che possa interessarlo conoscere un vertiginista…» «Non ho chiesto se Marsland possa aver piacere a incontrare Wilmer: ho chiesto se Wilmer sarà lieto di incontrare Marsland». «Oh, Wilmer dirà: “Mi piace quella piccola Mrs. Mont, dà dei pranzetti squisiti” – ed è la verità, tesoro. Un vertiginista deve essere ben nutrito, lo sai, altrimenti il suo cervello non funziona». La penna di Fleur riprese i suoi tratti ripidi, presto leggermente illeggibili. Ella mormorò: «Penso che Wilfrid servirebbe a equilibrare l’ambiente – tu non ci sarai; uno.... due... tre. E le donne?». «Per dei pittori... graziose e grassottelle: non intellettuali». Fleur disse con malumore: «Non posso trovar delle donne grassottelle; non ce ne son più al giorno d’oggi». E la sua penna fluì di nuovo rapida: Caro Wilfrid, – mercoledì – a pranzo; Wilmer, Hubert Marsland, due altre donne. Venitemi in aiuto. – Sempre vostra Fleur. «Michael, il tuo mento è rasposo come una spazzola da scarpe». «Me ne duole, tesoro; colpa delle tue spalle che son troppo lisce. Mentre si veniva a casa, Bart ha dato un consiglio a Wilfrid». Fleur smise di scrivere. «Ah, sì?» «Gli ha ricordato che l’amore è un eccellente motivo d’ispirazione per i poeti». «À propos di che cosa?» «Wilfrid si lagnava di non essere in vena». «Che sciocchezza! Le ultime cose che ha scritto son le migliori». «È quello che penso anch’io. Può darsi che abbia seguito in anticipo il consiglio. Ne sai qualcosa tu?» Fleur volse gli occhi al viso dietro la sua spalla. No, l’espressione solita – franca, irresponsabile, leggermente faunesca; con le orecchie aguzze, le labbra, le narici in movimento. Lentamente disse: «Se non lo sai tu, chi lo può sapere?». Un’aspirazione nasale interruppe la risposta di Michael. Ting-a-ling, lungo, basso, leggermente più alto alle estremità, si drizzava in mezzo a loro sollevando il musetto nero. “Il mio albero genealogico è lungo assai”, pareva dicesse; “ma le mie gambe sono corte – che ci avete da ridire?”.
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