Un silenzio profondo, appena rotto dal lieve gorgogliare delle acque regnava sul quel piccolo corso di acqua. Non si udiva alcun sussurrio di foglie, non essendovi alcun alito di vento sotto le cupe volte di quei grandi vegetali e anche sul ponte del legno non si udiva alcun mormorio.
Pareva che tutti quegli uomini stesi fra la prora e la poppa, non respirassero più, per tema di turbare quella calma.
Il praho era già giunto presso la foce del fiumicello, quando dopo un lieve strofinio s'arrestò.
— Arenati? — chiese brevemente Sandokan.
Sabau si curvò sulla murata e scrutò attentamente le acque.
— Sì — disse poi. — Vi è un banco sotto di noi.
— Potremo passare?
— La marea monta rapida e credo che fra pochi minuti potremo continuare la discesa del fiume.
— Attendiamo adunque.
L'equipaggio, quantunque ignorasse in seguito a quale causa il praho si era fermato, non si era mosso. Però Sandokan aveva udito lo scricchiolio ben noto delle carabine che venivano armate ed aveva scorto gli artiglieri curvarsi silenziosamente sul pezzo di cannone e sulle due spingarde. Passarono alcuni minuti d'angosciosa aspettazione per tutti, poi si udirono verso prora e sotto la chiglia degli scricchiolii. Il praho, sollevato dalla marea che montava rapida, scivolava sul banco di sabbia. Ad un tratto si liberò da quel fondo tenace, ondulando lievemente.
— Spiegate una vela — comandò brevemente Sandokan agli uomini di manovra.
— Basterà, capo? — chiese Sabau.
— Per ora sì.
Un momento dopo una vela latina venne spiegata sul trinchetto. Era stata dipinta in nero, sicché doveva confondersi completamente colle ombre della notte.
Il praho affrettò la discesa, seguendo i serpeggiamenti del fiumicello. Superò felicemente la barra passando fra i banchi di sabbia e le scogliere, attraversò la piccola baia e uscì silenziosamente in mare.
— Il vascello? — chiese Sandokan, scattando in piedi.
— Eccolo laggiù, a mezzo miglio da noi — rispose Sabau.
Nella direzione indicata si scorgeva confusamente una massa oscura, sopra la quale volteggiavano di quando in quando dei piccoli punti luminosi, certamente delle scorie sfuggite dalla ciminiera.
Ascoltando attentamente, si udivano anche i sordi brontolii delle caldaie.
— Ha i fuochi ancora accesi — mormorò Sandokan. — Egli adunque ci aspetta.
— Passeremo inosservati, capo? — chiese Sabau.
— Lo spero. Vedi nessuna scialuppa?
— Nessuna, capo.
— Rasenteremo prima la spiaggia, per meglio confonderci con la massa delle piante, poi prenderemo il largo.
Il vento era piuttosto debole, ma il mare era calmo come se fosse d'olio. Sandokan comandò di spiegare anche sull'albero maestro una vela, poi spinse il legno verso il sud, seguendo le sinuosità della costa.
Essendo le spiagge coperte di grandi alberi, i quali proiettavano sulle acque una cupa ombra, vi erano poche probabilità che il piccolo legno corsaro potesse venire scorto.
Sandokan, sempre alla barra, non perdeva di vista il formidabile avversario, il quale da un istante all'altro poteva di colpo risvegliarsi e coprire il mare e la costa con uragani di ferro e di piombo.
Si studiava d'ingannarlo, però in fondo all'animo il fiero uomo si doleva di lasciare quei paraggi senza la rivincita. Avrebbe desiderato di trovarsi già a Mompracem, ma avrebbe anche desiderato un'altra tremenda battaglia. Egli, la formidabile Tigre della Malesia, l'invincibile capo dei pirati di Mompracem, aveva quasi vergogna d'andarsene così, alla chetichella, come un ladro notturno. Solamente quest'idea gli faceva bollire il sangue e gli faceva avvampare gli sguardi d'una collera tremenda. Oh! Come avrebbe salutato un colpo di cannone, anche quale segno di una nuova e più disastrosa disfatta! Il praho si era già allontanato di cinque o seicento passi dalla baia e si preparava a prendere il largo, quando a poppa, nella scia, apparve uno strano scintillìo. Pareva che miriadi di fiammelle sorgessero dalle profondità tenebrose del mare.
— Stiamo per tradirci — disse Sabau.
— Tanto meglio — rispose Sandokan con un sorriso feroce. — No, questa ritirata non era degna di noi.
— È vero, capitano — rispose il malese. — Meglio morire colle armi in pugno che fuggire come sciacalli.
Il mare continuava a diventare fosforescente. Dinanzi la prora e dietro la poppa di legno, i punti luminosi si moltiplicavano e la scia diventava ancor più luminosa. Pareva che il praho si lasciasse dietro un solco di bitume ardente o di zolfo liquefatto.
Quella striscia, che scintillava vivamente fra l'oscurità circostante, non doveva passare inosservata agli uomini di guardia dell'incrociatore. Da un istante all'altro poteva tuonare improvvisamente il cannone.
Anche i pirati, stesi sulla tolda, si erano accorti di quella fosforescenza, però nessuno aveva fatto un gesto solo o aveva pronunciato una sola parola che potesse tradire qualche apprensione. Anche loro non sapevano rassegnarsi ad andarsene senza sparare un colpo di fucile.
Una grandine di mitraglia sarebbe stata salutata con un urlo di gioia. Erano appena trascorsi due o tre minuti, quando Sandokan, che teneva sempre gli sguardi fissi sull'incrociatore, vide accendersi i fanali di posizione.
— Se ne sono accorti forse? — si chiese.
— Lo credo, capo — rispose Sabau.
— Guarda!
— Sì, vedo che le scorie sfuggono più numerose dalla ciminiera. Si alimentano i fuochi.
Ad un tratto Sandokan scattò in piedi con la scimitarra in pugno.
— Alle armi! — avevano gridato a bordo del legno da guerra.
I pirati si erano prontamente risollevati, mentre gli artiglieri si erano precipitati sul cannone e sulle due spingarde. Tutti erano pronti ad impegnare la lotta suprema.
Dopo quel primo grido era successo un breve silenzio a bordo dell'incrociatore, ma poi la stessa voce, che il vento portava nettamente fino al praho, ripeté:
— Alle armi! Alle armi! I pirati fuggono!
Poco dopo si udì un tamburo rullare sul ponte dell'incrociatore. Si chiamavano gli uomini ai loro posti di combattimento.
I pirati, addossati alle murate o affollati dietro alle barricate formate con tronchi d'albero, non fiatavano, ma i loro lineamenti, diventati feroci, tradivano il loro stato d'animo. Le loro dita si raggrinzavano sulle armi, impazienti di premere i grilletti delle loro formidabili carabine.
Il tamburo continuava a rullare sul ponte del legno nemico. Si udivano le catene delle ancore stridere attraverso le cubie ed i colpi secchi dall'argano.
Il vascello si preparava a lasciar l'ancoraggio per assalire la piccola nave corsara.
— Al tuo pezzo, Sabau! — comandò la Tigre della Malesia. — Otto uomini alle spingarde!
Aveva appena dato quel comando, quando una fiamma brillò a prora dell'incrociatore, sopra il castello, illuminando bruscamente il trinchetto ed il bompresso. Una detonazione acuta rintronò, seguita subito dal ronfo metallico del proiettile sibilante attraverso gli strati d'aria.
Il proiettile smussò l'estremità del pennone maestro e si perdette in mare, sollevando un grande sprazzo spumeggiarne.
Un urlo di furore echeggiò a bordo del legno corsaro. Ormai bisognava accettare la battaglia ed era ciò che desideravano quegli arditi schiumatori del mar Malese.
Un fumo rossastro sfuggiva dalla ciminiera del vascello da guerra. Si udivano le ruote mordere affrettatamente le acque, i brontolii rauchi delle caldaie, i comandi degli ufficiali, i passi precipitati degli uomini. Tutti si affrettarono a correre ai loro posti di combattimento.
I due fanali furono veduti cambiare posizione. Il vascello correva addosso al piccolo legno corsaro per tagliargli la ritirata.
— Prepariamoci a morire da prodi! — gridò Sandokan, il quale ormai non s'illudeva sull'esito di quella tremenda pugna.
Un urlo solo vi rispose:
— Viva la Tigre della Malesia!
Sandokan, con un vigoroso colpo di barra, virò di bordo, e mentre i suoi uomini orientavano rapidamente le vele, spinse il legno incontro al vascello per tentare di abbordarlo e scagliare i suoi uomini sul ponte del nemico.
Il cannoneggiamento cominciò ben presto da una parte e dall'altra. Si sparava a palla ed a mitraglia.
— Orsù, tigrotti, all'arrembaggio! — tuonò Sandokan. — La partita non è eguale, ma noi siamo le tigri di Mompracem!
L'incrociatore si avanzava rapidamente, mostrando il suo acuto sperone e rompendo le tenebre ed il silenzio con un furioso cannoneggiamento. Il praho, vero giocattolo di fronte a quel gigante, a cui bastava un solo urto per mandarlo a picco spaccato in due, con un'audacia incredibile assaliva pure, cannoneggiando meglio che poteva.
La partita però, come aveva detto Sandokan, non era eguale, anzi era troppo disuguale. Nulla poteva tentare quel piccolo legno contro quella poderosa nave costruita in ferro, e armata potentemente.
L'esito finale, malgrado il valore disperato delle tigri di Mompracem, non doveva essere difficile ad indovinare.
Tuttavia i pirati non si perdevano d'animo e bruciavano le loro cariche con mirabile rapidità, tentando di sterminare gli artiglieri della coperta e di abbattere i marinai delle manovre, sparando furiosamente sul cassero, sul castello di prora e sulle coffe.
Due minuti dopo però il loro legno, oppresso dai tiri delle artiglierie nemiche, non era altro che un rottame.
Gli alberi erano caduti, le murate erano state sfondate e perfino le barricate di tronchi d'albero non offrivano più riparo a quella tempesta di proiettili. L'acqua di già entrava dai numerosi squarci, inondando la stiva. Pure nessuno parlava di resa. Volevano morire tutti, ma lassù, sul ponte nemico. Le scariche intanto diventavano sempre più tremende. Il pezzo di Sabau era ormai stato smontato e mezzo equipaggio giaceva sulla tolda massacrato dalla mitraglia.
Sandokan comprese che l'ultima ora stava per suonare per le tigri di Mompracem.
La sconfitta era completa. Non era più possibile far fronte a quel gigante che vomitava ad ogni istante nembi di proiettili. Non rimaneva che tentare l'abbordaggio, una pazzia, poiché nemmeno sul ponte dell'incrociatore la vittoria poteva arridere a quei valorosi.
Non restavano in piedi che dodici uomini, dodici tigri però guidate da un capo il cui valore era incredibile.
— A me, miei prodi! — gridò egli.
I dodici pirati, cogli occhi stravolti, schiumanti di rabbia, colle pugna chiuse come tenaglie attorno alle armi, facendosi scudo coi cadaveri dei compagni, gli si strinsero attorno.
Il vascello correva allora a tutto vapore addosso al praho, per affondarlo collo sperone, ma Sandokan, appena lo vide a pochi passi, con un colpo di barra evitò l'urto e lanciò il suo legno contro la ruota di babordo del nemico. Avvenne un urto violentissimo. Il legno corsaro si piegò sul tribordo imbarcando acqua e rovesciando morti e feriti in mare.
— Lanciate i grappini! — tuonò Sandokan.
Due grappini d'arrembaggio s'infissero nelle griselle dell'incrociatore. Allora i tredici pirati, pazzi di furore, assetati di vendetta, si slanciarono come un sol uomo all'arrembaggio.
Aiutandosi colle mani e coi piedi, aggrappandosi agli sportelli delle batterie e alle gomene, s'arrampicarono su per la tambura, raggiunsero le murate e si precipitarono sul ponte dell'incrociatore, prima ancora che gli inglesi, stupiti da tanta audacia, avessero pensato a ributtarli.
Con la Tigre della Malesia alla testa si scagliarono contro gli artiglieri, massacrandoli sui loro pezzi, sbaragliarono i fucilieri che erano accorsi per sbarrare loro il passo, poi, tempestando colpi di scimitarra a destra e a sinistra, si diressero verso poppa.
Colà, alle grida degli ufficiali, si erano prontamente radunati gli uomini della batteria. Erano sessanta o settanta, ma i pirati non si fermarono a contarli e si gettarono furiosamente sulle punte delle baionette impegnando una lotta titanica. Avventando colpi disperati, troncando braccia e spaccando teste, urlando per spargere maggior terrore, cadendo e rialzandosi, ora indietreggiando ed ora avanzando, per alcuni minuti tennero testa a tutti quei nemici, ma, moschettati dagli uomini delle coffe, sciabolati a tergo, incalzati dinanzi alle baionette, quei valorosi caddero.
Sandokan e quattro altri, coperti di ferite, colle armi insanguinate fino all'impugnatura, con uno sforzo poderoso si aprirono il passo e tentarono di guadagnare la prua, per arrestare a colpi di cannone quella valanga d'uomini.
A metà del ponte Sandokan cadde colpito in pieno petto da una palla di carabina, ma subito si rialzò, urlando: — Ammazza! Ammazza!... Gli inglesi si avanzavano a passo di carica colle baionette calate. L'urto fu mortale.
I quattro pirati che si erano gettati dinanzi al loro capitano per coprirlo, sparvero fra una scarica di fucili, rimanendo stecchiti; ma non così accadde alla Tigre della Malesia.
Il formidabile uomo, malgrado la ferita che mandava fiotti di sangue, con un salto immenso raggiunse la murata di babordo, abbatté col troncone della scimitarra un gabbiere che cercava di trattenerlo e si gettò a capofitto in mare, scomparendo sotto i neri flutti.