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CJ, Centro Elaborazione Spose Interstellari, Miami, Florida
“Io resto in piedi. Niente letto.” Una voce profonda, roboante, mi riempì la testa. La mente. Il corpo. Questo corpo conosceva quella voce. La conosceva e tremò, bramoso. In qualche modo sapevo che quest’uomo era mio. Era enorme. Non nel suo normale stato. Aveva qualche cazzo di malattia. Una febbre che l’avrebbe fatto impazzire se non fossi riuscita a domarlo. A scoparlo. A farlo mio per sempre.
Sentii il letto morbido premermi contro la schiena – la mia schiena nuda – e poi sentii che venivo sollevata, come se fossi priva di peso. Bella battuta; io di peso ne avevo eccome. Non ero una trovatella smagrita o una modella di Victoria Secret. Beh, ero alta come una di loro, quasi un metro e ottanta, ma avevo le tette grosse e i fianchi larghi. Delle forti mani si avvinghiarono attorno alla mia vita, mi fecero voltare, la mia schiena premuta contro il suo petto. Il suo petto nudo. Le sue mani mi strinsero i seni.
Oh.
Wow.
Uhm.
Sì. Dio, sì.
Era da pazzi. Completamente. Non mi piaceva venire maltrattata. Diamine, ero io quella che maltrattava, qui. Gli uomini deboli me li mangiavo a colazione, e a ora di pranzo facevo scoppiare in lacrime i tipi tosti. Una normale giornata di lavoro.
Ma ora non ero al lavoro.
Non avevo idea di dove diavolo mi trovassi, ma questo tizio sapeva come premere i miei pulsanti, poco ma sicuro. O, meglio, i pulsanti di qualcun’altra. Io non ero io. Beh, sì, ero qui, ma questa non ero io. I pensieri che mi attraversavano la testa, questa consapevolezza, non erano miei. Ma le reazioni? Una strattonata ai capezzoli e la mia fica si bagnò come non mai. Vuota. Bramosa.
Sentii l’asta del suo cazzo premermi contro la schiena. Era alto, parecchio alto, a giudicare da quanto fosse lontano il letto da me in questo momento. E le sue mani mi avvolgevano completamente il seno. Di solito strabordavano. Succede, quando si ha una quarta di seno, ma non con lui. Proprio no.
Mi sentii… piccola.
Ma… questa non ero io. Oppure sì?
Mi sembrava che fossi io.
“Meglio,” ringhiò lui portandomi verso un tavolino. Ci trovavamo in una qualche specie di stanza sterile ed impersonale, come la stanza di un hotel, e c’erano un letto enorme, delle sedie e un tavolo. Non potevo vedere molto altro, ma non mi stavo guardando intorno. Le mie cosce andarono a sbattere contro il bordo freddo del tavolo e lui si sporse in avanti per costringermi a distendermi sulla superficie. Resistetti. “Giù, compagna.”
Compagna?
Mi irritò la sua mano che mi spingeva, il suo tono autoritario. Quella parola. Io non ero la compagna di nessuno. Io non avevo appuntamenti galanti. Scopavo, certo, ma poi ero io quella che si alzava a se ne andava. Ero io quella che stava sopra, che aveva il controllo. Ma ora? Ora di controllo ne avevo zero, e ciò mi metteva a disagio. Ma il mio bisogno di lasciarmi andare, di cedere alle pretese di quest’uomo? Lo volevo. Beh, la mia fica lo voleva. E lo volevano anche i miei capezzoli. E la donna il cui corpo ora stavo abitando. Anche lei lo voleva. Ma, a differenza mia, lei non aveva paura. Non lottava.
Lei resisteva, perché sapeva che lui desiderava che lo facesse. Sapeva che glielo avrebbe fatto diventare duro e gli avrebbe accelerato il battito. Sapeva che lo avrebbe spinto al limite. Lei voleva essere sicura di cedere a lui tutto il controllo. Pensare alle manette – manette? – che lei già sapeva che stavano per arrivare le fecero contrarre la fica.
Il che per me era più che strambo, ma non c’era niente che potessi fare al riguardo. Io ero una testimone e una partecipante, ma non ero veramente qui. Mi sentivo come un fantasma all’interno del suo corpo, come se stessi vivendo la fantasia di qualcun altro.
Una fantasia eccitante, senza dubbio. Ma non era reale. Non era reale.
Questo corpo era più che ben disposto a lasciare che quel grosso bruto gli facesse tutto quello che voleva. La mia mente non era d’accordo. Ma io qui non avevo il minimo controllo. Questo corpo non era il mio. Nemmeno i pensieri che mi attraversavano la mente erano i miei. Questa donna – io – chiunque fossi al momento – voleva spingerlo al limite. Voleva essere dominata. Voleva essere conquistata. Controllata. Scopata fino a urlare. E io ero una semplice compagna di viaggio. “Non mi piace essere comandata,” dissi io, disse lei.
“Bugiarda.” Vidi una grossa mano che si poggiava sul tavolo di fianco a me, vidi le dita tozze, le cicatrici, la spolverata di peli che macchiava il polso. Sentii l’altra mano che mi premeva sulla schiena. Con più forza. Con maggiore insistenza.
Sibilai, quando i miei seni toccarono la superficie fredda e dura. Misi i gomiti in fuori per impedire di farmi abbassare completamente, ma lui allora cambiò strategia. Mi mise una mano sulla fica e mi penetrò con due dita. “Bagnata. Mia.”
Sentii il suo ampio torace premermi contro la schiena, la sua pelle calda, la lunga asta dura del suo cazzo che si strusciava in mezzo alle mie gambe, stuzzicandomi. E aveva ragione. Ero bagnata. Eccitata. Lo desideravo a tal punto che temevo che questa pazza – il cui corpo abitavo al momento – potesse cedere e mettersi ad implorare. Ad implorare!
Mi baciò la schiena, mi scostò i capelli e continuò a baciarmi il collo, mentre le sue mani facevano le loro magie. Una mi premeva lentamente, inevitabilmente per farmi distendere completamente sul tavolo. L’altra mi massaggiava il sedere nudo, e le dita enormi affondavano dentro di me, scivolando a fondo, ritraendosi per massaggiare di nuovo il mio sedere sensibile, in un rito ripetitivo che mi faceva contorcere.
I suoi gesti erano gentili, quasi riverenti, e completamente in contrasto col suo fare autoritario. Due bracciali di metallo entrarono nel mio campo visivo, quando lui li poggiò di fronte a me. Color argento, erano larghi e spessi, decorati con intricate incisioni.
Vederli non fece altro che farmi eccitare ancora di più. La reazione della donna fu quasi orgasmica. Lei li voleva attorno ai suoi polsi, pesanti e per sempre. L’avrebbero marchiata come sua compagna. Per l’eternità.
Non avevo idea da dove venissero, ma la mente non mi funzionava a dovere, e non riuscii a capirlo. Non con quelle soffici labbra, con quell’agile lingua, con quel bastone duro come la pietra che si strusciava contro la mia fica bagnata e il desiderio che mi ribolliva nelle vene.
I bracciali sembravano essere vecchi e uguali a quelli che quell’uomo già portava attorno ai propri polsi. Prima non li avevo notati, ma non mi sorpresi.
Lui si mosse. Ne aprì uno e me lo mise attorno al polso; poi fece lo stesso con l’altro. Anche se ero premuta contro il tavolo dal suo corpo formidabile, non mi sentivo minacciata. Mi sentivo come se mi stesse facendo dono di qualcosa, di qualcosa di prezioso.
Ma non avevo idea di cosa fosse.
“Sono bellissimi,” mi sentii dire.
Lui gemette di nuovo, il rimbombo vibrò attraverso il suo petto, attraverso la mia schiena. “Mia. Cattiva ragazza. Ora scopa.”
Non avevo idea del perché mai avrei dovuto essere una cattiva ragazza, specie se il suo cazzo era tanto grande quanto pensavo. Io lo volevo.
“Sì. Fallo!” Allargai le gambe, senza sapere cosa aspettarmi, ma sapendo che non mi interessava. Volevo che mi scopasse. E subito. Non volevo fare la brava. Volevo essere cattiva. Molto, molto cattiva.
Evidentemente avevo perso la testa perché non avevo nemmeno idea di che aspetto avesse. Di chi fosse. Di dove mi trovassi. Ma niente di tutto ciò aveva importanza. E perché l’idea di farmi maltrattare – di farmi sculacciare, addirittura – era ora così allettante, come non lo era mai stata?
Lui mosse i fianchi e mi puntò il cazzo contro la fica bagnata. Sentii la grossa punta, così grossa da allargarmi. Si spinse in avanti e io gemetti.
Ce l’aveva enorme. Gigantesco. Mi riempì con cautela, come se sapesse che avrebbe potuto essere troppo.
Mossi i fianchi provando ad accoglierlo dentro di me, ma le mie pareti interne si contrassero e lo strizzarono, provando ad adattarsi. Le mie mani non riuscivano ad aggrapparsi sulla superficie liscia del tavolo. Mi abbassai, poggiai la guancia contro il legno e portai i fianchi verso l’alto.
Mi penetrò di un altro centimetro.
Sussultai e scossi il capo. “È troppo grosso.” La mia voce era soffice, ansimante. Lui no. Sarebbe entrato dentro di me. Forse mi avrebbe fatto male, forse mi avrebbe scioccata, ma io lo volevo. Ogni cazzo di centimetro.
“Shhh,” mi sussurrò.
Dal nulla spuntò il ricordo di quest’uomo che mi sculacciava perché mi avevo mostrato preoccupazione per questo momento. La sua bestia – era una bestia – Puoi prendere il cazzo di una bestia. È nella tua natura. È nella tua natura.
Mi penetrò fino a fondo e sentii i suoi fianchi premermi contro il sedere. Cominciai a contrarmi attorno a lui, a mungerlo, adattandomi a quella sensazione, all’essere riempita così a fondo. Ma era così bello.
Dio, bello come non mai.
“Pronta, compagna?”
Pronta? Per cosa? Era già dentro di me.
Ma quando si ritrasse fino quasi a sfilarsi da me e poi mi penetrò di nuovo, affondando dentro di me, allora capii che non ero pronta.
Bastò un colpo e mi mancò il fiato. Per poco non venni. Non avevo idea di come fosse possibile, la penetrazione vaginale non era mai stata sufficiente a farmi venire. Dovevo massaggiarmi il clitoride con le dita.
Quando lo fece di nuovo, capii che, poco ma sicuro, non avrei avuto bisogno delle dita.
“Sì!” gridai. Non potei trattenermi. Lo volevo. Ne avevo bisogno. Mi scossi e premetti all’indietro, mentre lui si affondava di nuovo dentro di me.
La sua mano si mosse, mi afferrò i polsi e strinse con forza i bracciali.
Mi bloccò e mi scopò.
Non c’erano vie di fuga. Nessuna tregua. Niente avrebbe potuto fermarlo, mentre l’orgasmo aumentava minacciando di trasformarsi in qualcosa di pericoloso. E io lo volevo tutto. Volevo lui.
“Vieni. Ora. Urla. Ti riempio.”
E gli piaceva anche dire cose oscene. Non esattamente delle frasi complete, ma faceva parte del suo fascino.
Ero fradicia, riuscivo a sentire gli schiocchi bagnati dei nostri corpi che si scontravano, mentre lui mi martellava. Riuscivo a sentire i miei umori solleticati dall’aria fredda, mentre mi colavano lungo le cosce.
Mi tenne ferma con una mano, mi afferrò il sedere con l’altra stringendo con forza una natica e aprendomi.
Si spinse più a fondo. Con più forza. Io mi dimenai sul tavolo, tanto eccitata quanto vulnerabile. Incapace di muovermi. Incapace di resistergli. Dovevo accettare tutto quello che voleva darmi. Fidarmi di lui. Arrendermi.
Quel pensiero mi fece gemere, il mio corpo si faceva sempre più eccitato, e io lottavo, cercando di non cadere.
Mi lasciò andare il sedere e una sonora manata mi colpì la pelle nuda. Era come fuoco liquido. E quell’orgasmo che mi aveva ordinato di avere? L’orgasmo che stavo cercando di trattenere? Sì, eccolo lì. Urlai, inarcai la schiena, i miei capezzoli turgidi sfregarono contro il tavolo e allora persi il controllo, mi accecai e venne inghiottita da un abisso, andando in mille pezzi.
Non riuscivo a pensare a niente. La mia unica realtà era il suo cazzo che mi penetrava, mentre la mia fica lo mungeva.
“Compagna,” disse prima di penetrarmi fino a fondo. Si fermò, e quindi gemette come un animale.
Era come se la bestia l’avesse riempito, l’avesse conquistato. E mi avesse reclamata.
Sentii il suo seme caldo che mi riempiva. Era troppo per me. Lui ricominciò a muoversi, a scoparmi mentre il suo seme caldo mi colava lungo le cosce.
Era così bello e così sbagliato. Mi sentivo controllata. Sopraffatta. Sfacciatamente reclamata.
Cattiva. Cattiva. Cattiva. Ero cooooooosì cattiva.
Non provai nemmeno a tirarmi su, nemmeno quando lui mi lasciò andare i polsi e mi afferrò i fianchi per tirarmi indietro. Mi sollevò il culo dal tavolo e mi tirò verso il suo cazzo. Già gonfio. Già pronto per un altro round.
Gemetti provando a muovere le braccia. Non ci riuscii, ma qualcosa sferragliò. Uno strano suono. Fuori luogo.
“Ferma.” Grugnì l’ordine e mi penetrò di nuovo. Sottomettermi a lui andava contro tutto quello che ero, eppure… il suo tono autoritario mi fece contrarre la fica. Forse non ero come mi ero sempre creduta.
Mi penetrò lentamente, tirandomi a sé fino a quando non me lo mise tutto dentro.
Sì!
E di nuovo mi trovai tutta eccitata. Pronta. Bisognosa. Sarei potuta andare avanti per ore…
“Caroline.” La voce venne fuori dal nulla. Una voce fredda. Clinica. La voce di una donna.
Chi?
Tutto cominciò a svanire. Lottai per restare in quel corpo. Lui si ritrasse e mi riempì di nuovo, lentamente. Mi allargò. Io gemetti. Lottai per restare con lui.
“Caroline!” disse la voce in modo brusco. Come una maestra che rimprovera un alunno.
Oh, Dio. Il test…
Sussultai – questa volta non per il piacere – e spalancai gli occhi.
Invece di un paio di bracciali, attorno ai polsi avevo delle manette. Ero nuda, ma non ero piegata in avanti, con le mani del mio amante sui fianchi. Ero incatenata a un lettino e indossavo la vestaglia del Centro Elaborazione Spose Interstellari. Il logo ricopriva la vestaglia nella sua interezza, disegnando delle perfette strisce bordeaux sul tessuto grigio.
Clinico. Sterile. Professionale.
Non ero premuta contro un tavolo duro. Non mi stavano riempiendo e scopando fino a farmi esplodere il corpo. Non c’era nessun gigante.
C’eravamo solo io e una donna dallo sguardo severo. Avrà avuto poco meno di trent’anni. Gli occhi grigi. I capelli marrone scuro raccolti in uno chignon alla base del cranio. Sembrava una ballerina imbronciata, e il suo nome mi fluttuò davanti agli occhi ancor prima che leggessi il suo cartellino.
Custode Egara. Si stava occupando dei miei test. I test per il Programma Spose Interstellari. Un procedimento che mi avrebbe abbinata a un alieno e mi avrebbe spedita nello spazio profondo per farmi diventare sua moglie.
Per sempre.